Lucertole spavalde: la grande bocca dell’agamide dal sinistro sorriso

Tra le aride sabbie dei deserti afghani, iraniani, turkmeni, tajiki, kirghizi ed uzbeki, un piccolo tiranno domina superbo il proprio territorio, largamente inconsapevole di misurare appena 20-24 cm di lunghezza. Che non è poco in termini generali, ma neppure abbastanza per poter agevolmente sopravvivere all’assalto di serpenti, grossi roditori, rapaci e gli altri rari, ma agguerriti predatori dell’entroterra più estremo d’Oriente. Luogo dalle condizioni ecologiche e ambientali alquanto estreme, così da incoraggiare la continuazione di fenotipi altrettanto distintivi e privi di effettivi termini di riferimento. Esistono, del resto, almeno 33 specie di creature appartenenti al genere Phrynocephalus, carnivore e insettivore abitanti pertinenti alla famiglia degli agamidi, capaci di occupare nicchie ecologiche del tutto simili a quelle delle loro cugine dei continenti d’Africa ed Australia. Ma nessuna può vantare, in assoluto, un aspetto simile a questo: la P. mystaceus; lucertola “segreta” dalla testa di rospo, con zampe lunghe e coda attorcigliata, le cui strategie d’autodifesa e confronto tra maschi includono un tipo di trasformazione che non sfigurerebbe tra i draghi fantastici o antichi dinosauri del mondo perduto. Mentre la bocca si spalanca, i piccoli e aguzzi denti bene in mostra, le guance aperte a soffietto nella ragionevole approssimazione di un fiore: rosso, seghettato, impressionante. L’effetto non è poi così dissimile da quello della lucertola dal collare, che estendendo l’ornamento membranoso da cui prende il nome tenta di sembrare maggiormente imponente. Laddove il ben più piccolo agamide, piuttosto pare ricercare una dimostrazione aposematica di terrore latente. La trasformazione in essere mordace, non del tutto privo di capacità di arrecare danno al nemico ed accompagnata dal sollevamento della coda spiraleggiante, in un modo che ricorda in senso pratico il gesto aggressivo di uno scorpione. O spaventare i propri simili, vista la natura inerentemente territoriale dei maschi appartenenti a questa specie, notoriamente inadatti a condividere spazi ristretti all’interno dei terrari dove qualche volta gli capita (ahimé) di trascorrere la propria intera esistenza. Un destino spesso motivato tramite la cattura in ambiente naturale di ciascun singolo esemplare, vista la loro poca propensione a riprodursi in cattività. E l’ulteriore approccio di cui dispongono, al fine di sfuggire dallo sguardo di occhi e mani particolarmente indiscrete. Una metodologia impiegata per proteggere se stessi, che potremmo definire l’invincibile ed imprescindibile strategia di Shai Hulud…

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Tecnologie perdute americane: la singolare armatura degli irochesi

Ferocia, senso pratico e attenzione ai dettagli. L’aspetto del guerriero armato di arco e lancia che si aggira in mezzo ai tronchi del bosco è quello di un solido baluardo. Con l’alto cimiero ornato di una composizione di foglie, la corazza in legno solido ed un paio di rigidi parastinchi. Un grande scudo, articolato e flessibile, disposto in modo tale da proteggergli la schiena e le spalle. Lungi dall’essere una figura mitica o meramente immaginaria, egli è in effetti Malcolm Kahyonhakonh Powless-Lynes, archeologo sperimentale nonché discendente dell’antico popolo degli Haudenosaunee, a tratti saldi o disuniti, al punto da essere riusciti a perfezionare già molto prima dell’arrivo dei bianchi un particolare approccio ai problemi della vita non sempre tranquilla. E così contrariamente a ciò che si potrebbe essere inclini ad azzardare, egli non sta rievocando un qualche tipo di costume bellico appartenente alle genti Sumere o Babilonesi. Bensì un tipo di soluzione, oggi poco nota, utilizzata fino a quattro secoli prima di adesso tra i confini volubili di quelle terre.
Poiché alla fine indipendentemente dal proprio contesto culturale, l’essere umano è una creatura con due gambe, due braccia, una testa ed il comparto sensoriale che tende a derivarne. Per quale ragione dunque le metodologie impiegate al fine di risolvere i conflitti armati, scatenati da un vasto ventaglio di diversità d’opinioni, dovrebbero essere fondamentalmente diverse tra società di livello tecnologico ed organizzazione sociale simile? Come l’America precolombiana e l’Europa dell’Età della Pietra o del Bronzo (fatta eccezione, s’intende, per il bronzo. Che soltanto gli Aztechi avevano compreso oltreoceano e ad ogni modo, utilizzavano soltanto a scopo decorativo). Laddove esiste soprattutto in merito alle genti del settentrione degli odierni Stati Uniti e Canada, lo stereotipo del selvaggio seminudo con arco e frecce, che utilizzando tecniche di guerriglia balza fuori dai cespugli o si precipita da luoghi sopraelevati. Assaltando coraggiosamente il convoglio o la diligenza, mentre emette grida disarticolate senza nessun tipo di disciplina. Una visione chiaramente alimentata dal cinema hollywoodiano, che al tempo stesso trovava una corrispondenza pratica a partire da un particolare momento storico, quando i coloni inglesi, francesi e spagnoli cominciarono a calcare queste terre. Con una ragione pratica chiaramente identificabile: ciascuno di loro poteva, almeno in linea di principio, essere dotato di armi da fuoco. E a cosa servivano una precisa formazione di battaglia, una catena di comando, ufficiali ed eroi, di fronte alla morte improvvisa e incontrovertibile, consegnata al rombo di un bastone magico assassino? L’occasione d’altra parte di osservare una comunità organizzata di nativi che ne combatteva un’altra sarebbe notoriamente giunta verso la fine del XVII secolo, quando il delicato equilibrio nell’amministrazione territoriale, ed in particolare il commercio del pellame gestito dalla confederazione di tribù Irochesi ed i loro vicini, la nazione degli Uroni-Wendant, venne alterata da fattori esterni. Portando almeno nelle primissime battute al più recente, e nei fatti l’ultimo, grande conflitto tra popolazioni nordamericane ragionevolmente indipendenti. Ne parlò estensivamente nelle sue memorie di viaggio il navigatore, cartografo, esploratore e futuro governatore de facto della Nuova Francia, Samuel de Champlain (1567-1635) raccolte in modo particolare nel celebre volume Voyages et Découvertes del 1619, redatto su mandato parzialmente esplicito di Re Luigi XIII in persona. Un testo dalla monumentale importanza proprio perché le due fazioni oggetto di un simile approfondimento, per quanto avanzate dal punto di vista organizzativo, non padroneggiarono mai l’uso della scrittura essendosi piuttosto affidate per millenni alla cronologia tramandata oralmente dei loro saggi detentori della conoscenza. Un metodo il quale, per quanto ben collaudato, tendeva inevitabilmente a lasciar sfumare tutto quello che non aveva più un’impiego pratico evidente…

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Killdozer, l’assassino di foreste che influenzò lo svolgimento del conflitto vietnamita

Alle cinque in punto di mattina, la temperatura ambientale era ancora ben lontana dai mostruosi 52 gradi diurni, non superando neppure quella di una calda estate californiana. Per questo i membri in servizio attivo del 169° Battaglione d’Ingegneria, 60° Divisione, erano già intenti a controllare le condizioni dei propri mezzi da combattimento speciali, connotati da una lunga serie di tratti distintivi rispetto al normale parco veicoli dell’Esercito Americano. Un corpo verde supportato dal canonico paio di cingoli, con la cabina di controllo protetta da una solida gabbia anti-detriti e reti protettive per proteggersi dagli animali selvatici e l’eventuale assalto dei guerriglieri. Un motore ottimizzato per produrre coppia in condizioni particolarmente ostili, sia dal punto di vista dello sdrucciolevole terreno della giungla vietnamita, sia per quanto concerne il clima umido e bollente della penisola in quel drammatico 1967, dopo oltre una decade di conflitti sanguinosi ed inconcludenti sul suolo dell’Asia meridionale. E sul davanti, la ragionevole approssimazione sovradimensionata di un’imponente arma medievale, tagliente come un’alabarda montata di traverso e dotata, alla stessa maniera di questa, di una minacciosa punta ad una delle due estremità, usata per trafiggere ed annientare il proprio stolido nemico; in altri termini, una pala romana (Rome Plow) così chiamata per la provenienza dalla non antichissima città di Roma, verdeggiante stato della Georgia. Uno strano silenzio sembrava pervadere la congrega, come una sorta di quiete prima della tempesta, o forse un segno di rispetto nei confronti dei compagni caduti all’apice della giornata precedente. A un segnale del sergente incaricato di supervisionare le operazioni della giornata, i piloti a bordo dei bulldozer avviarono i motori quasi all’unisono, iniziando a spostarsi nella radura per assumere la tipica formazione operativa a forma di cuneo. Due trasporti truppe, carichi di uomini armati fino ai denti, affiancavano i due lati estremi della formazione. Nel contempo un M48 Patton, col cannone principale puntato minacciosamente in avanti e diagonalmente verso il cielo, li seguiva da presso, mostrava l’evidente intento di supervisionare le operazioni. Con il sole già all’altezza approssimativa di una trentina di gradi, le loro ombre cominciarono ad accorciarsi e scomparire, mentre al frastuono roboante di un siffatto gruppo di mezzi bellici, la parete quasi solida della giungla cominciava a profilarsi svettando incombente sopra di loro. Eppure quando già le prime fronde avvolgevano il bulldozer a capo della fila, nessuno sembrò accennare a rallentare, né tanto meno azionò il pedale del freno. Con un rumore stridente simile ai gridi dei dannati all’Inferno, la prima pala penetrò dolorosamente oltre gli strati esterni della corteccia e fin dentro il legno vivo di un albero di Mogano alto almeno 35 metri. Copiose fronde caddero sopra le prese d’aria del rigido cofano veicolare. Che il secondo pilota a bordo, senza esitazioni, si affrettò a scansare di lato con il calcio del suo fucile. Il rumore segmentato dell’elicottero di supporto ed avvistamento, appena decollato dal suo spiazzo di volo, cementò il bisogno di procedere in avanti, senza soste o alcun tipo di pietà rimasta dall’eredità druidica dei nostri predecessori.
Tutte le guerre iniziano con le migliori intenzioni, per lo meno dal punto di vista di coloro che ne accendono le micce ordinatamente disposte sopra il tavolo ignifugo della storia. Ma è con l’inasprirsi del conflitto, e l’accumularsi delle situazioni irrisolte, che i rispettivi schieramenti iniziano a spazientirsi, iniziando a utilizzare metodi non propriamente convenzionali e proprio per questo relativamente inumani. Soltanto non è frequente, per lo meno nella misura del primo conflitto per durata e perdite nella seconda metà del Novecento statunitense, che sia la natura stessa a pagare un conto particolarmente doloroso e salato, in aggiunta a quello innegabilmente terribile toccato ai membri più o meno combattenti delle genti abitate ad abitare in questi luoghi. Particolarmente a partire dal 9 gennaio di quell’anno, quando fu dato il via all’operazione Cedar Falls, per l’effettivo e completo smembramento di quella che potremmo definire come la roccaforte più imprendibile a pochi chilometri da Saigon, utilizzata per un periodo di oltre una decade dall’armata irregolare dei Vietcong. Un triangolo di giungla pluri-secolare, dove neppure due persone avrebbero potuto procedere spalla a spalla, senza trovarsi incapaci di procedere nell’interstizio costituito da una coppia di tronchi…

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Si può impiegare una mina navale facendola rotolare giù dal fianco di una montagna?

“Al mio segnale, lasciate rotolare la sfera… Inintelligibile” declama il bizzarro sottotitolo, di un video dal contenuto e provenienza ancor più incerti. Forse propaganda bellica, magari una prova di fattibilità strategica, oppur secondo la descrizione ed i commenti forniti dal suo proprietario su YouTube, nient’altro che un’effettiva operazione militare messa in atto dalla brigata “Petar Krešimir IV” in Croazia, durante la difesa della città di Livno dalle truppe bosniache nel corso della guerra del 1992. Con metodologie evidentemente derivanti dalla più pura e semplice arte di arrangiarsi, in quella che potrebbe assomigliare con la lente odierna a una sequenza registrata con finalità di mero intrattenimento, da un gruppo di goliardi con più voglia di apparire che istintivo senso d’autoconservazione personale: gli ingredienti, a tal proposito, ci sono tutti! Il pendio scosceso in un’area almeno in apparenza disabitata; l’oggetto straordinariamente pericoloso, trasportato fuori dal contesto con finalità e metodologie del tutto ignote; ed infine, l’esplosione roboante nel bel mezzo della foresta, in merito alla quale nessuno dovrà mai chiedersi se abbia effettivamente avuto modo di verificarsi (se un albero cade…) Per il semplice fatto che a quanto possiamo immaginare, sarà stata udibile da centinaia di chilometri rispetto all’oscuro luogo della sua occorrenza. “Dite a quella gente giù nella foresta che stiamo arrivando!” Grida in tono perentorio il sergente, o comandante della strana operazione. Al concludersi di un breve discorso che potrebbe essere, per quanto ne sappiamo, l’oggettiva descrizione di una procedura contenuta in un segmento documentaristico, oppure il frutto disumanizzante dell’assoluta apatia della guerra. E chi può dire se davvero, all’altro lato di questa circostanza surrealista, ci fosse qualcuno destinato a ricevere la formidabile possenza della sfera.
Esiste a tal proposito, in una possibile correlazione d’intenti, una citazione spesso ripetuta negli ambienti dello Stato Maggiore americano, a seguire del periodo successivo agli anni ’60. L’affermazione secondo cui “Lo spazio” offrirebbe, nell’opinione di chi s’interessa alla faccenda: “…La posizione sopraelevata definitiva.” intesa come vantaggio tattico in qualsiasi ingaggio militare dell’epoca moderna, e con indiretto ma chiaro riferimento a quel tipo di bombardamento cinetico. Concepito per impiegare, nella sostanziale realtà del conflitto, nient’altro che oggetti grossi e pesanti, come sbarre di metalli resistenti al calore, trasformati in mortali meteore dalla semplice tendenza all’accelerazione verso un possibile bersaglio finale. Poiché l’altitudine rappresenta, come è noto, la più istintiva forma di energia potenziale. Ma soltanto ogni qualvolta si riesca a trasformarla in velocità, un fine raggiungibile anche attraverso particolari forme o soluzioni tecnologiche immanenti. Vedi la forma… Rotolante, di un qualcosa che in un tale inusitato frangente, può trasformarsi nella fatale palla da bowling della Fine. Ora le risposte fornite dal publisher nazionale Neshchi, il cui canale ospita alcuni video dal contesto simile a partire da un anno a questa parte, non sembrano nutrire alcun dubbio: “Sono sicuro al 99% che la bomba provenisse dalla base navale Lora, posizionata nei dintorni della città costiera di Split” Un passaggio e riutilizzo forse risultante dai mancati conflitti paventati sul lato del Mar Adriatico, anche per l’intervento della Nato a favore del governo e gli ideali nazionalistici e anti-comunisti del presidente croato Franjo Tuđman, e in forza di un approccio alla guerra fluido e raffazzonato, così tipicamente rappresentativo di talune guerre dell’Est Europa. Conforme ai metodi impiegati durante l’ancora recente e sanguinosa battaglia della città di Vulkovar, durata 87 settimane tra agosto e novembre del 1991 e culminante con l’eccidio di una significativa parte della popolazione civile coinvolta suo malgrado in una simile catastrofe generazionale. Ma non prima che gli appena 1.800 soldati croati, contro 36.000 militi appartenenti all’esercito dell’ex-Jugoslavia, giungessero alla soluzione estrema d’impiegare armi improvvisate costruite con il corpo macchina delle caldaie, le cosiddette boiler bomba, fatte rotolare fuori dalla stiva di vecchi biplani per l’irrigazione agricola Antonov An-2. Perché nulla induce l’uomo a rallentare, nella frenetica accezione della guerra priva ormai di alcun quartiere. Men che mai, l’intento originariamente previsto per i suoi più funzionali e pluripremiati metodi d’uccisione….

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