“Ricordate, soldati, il volto della vostra Regina. Ricordate il gusto del suo nettare, che dona quotidianamente alle solenni ancelle che diffondono il suo Volere. Poiché non importa quanto il nemico possa essere grosso e veloce; su questa corteccia, egli non è forte abbastanza. Le loro pretese non possono violare la giustezza delle nostre brulicanti ambizioni. Quelle armi, per quanto affilate, non riusciranno a penetrare la dura scorza del nostro dovere.” Come un solo mirmidone, le orgogliose guerriere battono a terra tre coppie di piedi ciascuno. All’unisono si voltano, marciando fuori dal pertugio numero 52. La debole luce del sole che filtra oltre la canopia pare tingersi di un rosso lontano. Prima che possa tramontare, molte di loro saranno perite in battaglia, straziate o tagliate a pezzi dalle mandibole dei crudeli giganti. Un giusto sacrificio, affinché il formicaio possa sopravvivere fino al sorgere di una nuova alba…Ma questo non significa che venderanno a poco prezzo la loro “pelle”.
E riferendomi al rigido involucro che racchiude e protegge gli organi di questi insetti, sia chiaro, non sto parlando d’epidermide. Bensì la prototipica chitina, capace di resistere all’umidità come l’assalto di agenti patogeni esterni. Ma soprattutto le possibili ferite, che i difensori del consorzio eusociale subiscono durante l’ostinata difesa del territorio. Una guerra incessante che può essere più o meno cruenta, con il più notevole tra gli esempi rintracciabile per l’appunto nella casistica della foresta tropicale sudamericana, ove la legge del più forte incontra la severa regola dei numeri e la tirannia della maggioranza. Parametri che sotto qualsiasi punto di vista ragionevole, parrebbero porre in svantaggio una particolare specie del genere Acromyrmex, praticanti di una strategia segreta di sopravvivenza. Sto parlando di quella più comunemente detta delle tagliafoglie spinose o A. echinatior, e dei suoi conflitti incessanti contro le Atta cephalotes alias tagliafoglie giganti, strategiche dominatrici dell’industria senza posa della raccolta di ritagli d’alberi, come base ove far crescere preziosi funghi usati per il nutrimento. Un conflitto avversativo durato tanto a lungo e così feroce, nel protrarsi dei secoli trascorsi, da aver portato ciascuna categoria d’artropodi a percorrere la strada evolutiva della corsa agli armamenti, con capacità di movimento, aggressione e resistenza calibrate al fine tattico di soverchiare la controparte. Ancorché nessuno avrebbe mai pensato che costoro, in un imprecisato attimo destinato a modificare i rapporti di forza, potessero iniziare a ricoprirsi di vero e proprio METALLO…
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Tacit Blue, l’occhio volante nella scatola creata per sorvegliare i cieli
Per l’intero estendersi del periodo storico noto come guerra fredda, molti scenari di un’ipotetico peggioramento della situazione ruotarono attorno ad un particolare territorio situato al confine tra i due mondi avversi: il valico di Fulda, o breccia di Francoforte sul Meno. Un percorso pianeggiante, circondato da colline e montagne, tra lo stato di Hesse e la Turingia, che avrebbe potuto permettere idealmente la realizzazione di una rapida avanzata di carri armati dai paesi del patto di Varsavia verso il blocco della NATO, replicando la terribile efficacia del Blitzkrieg tedesco all’inizio della seconda guerra mondiale. Molti complicati progetti e letterali milioni di dollari furono perciò investiti, nel corso delle decadi, al fine di sviluppare valide contromisure nel realizzarsi di un tale scenario, coinvolgendo tra gli altri il fluido know-how della DARPA, l’Agenzia statunitense per la Ricerca delle Armi Avanzate. Assault Breaker sarebbe stato il nome del suo contributo teorico di maggior rilievo a tal fine, un progetto d’integrazione che avrebbe visto la perfetta collaborazione di sistemi d’artiglieria e bombardieri strategici con svariate metodologie di sorveglianza in tempo reale del campo di battaglia, una buona parte delle quali sostenute dall’impiego della nuova tecnologia per i velivoli stealth. Gli aerei invisibili ai radar, dunque, avrebbero sorvolato il campo di battaglia, inviando informazioni aggiornate al comando centrale, in un nuovo tipo di guerra in cui il nemico sarebbe stato costretto a giocare a carte totalmente scoperte. Due erano, sul finire degli anni ’70, i principali prototipi che avrebbero potuto rivestire quel ruolo: l’angolare e problematico Lockheed XST della Skunk Works, nome in codice Have Blue, che avrebbe in seguito dato i natali all’iconico F-117 Nighthawk; e sul fronte della Northrop di Hawtorne, California, un altro aereo destinato a rimanere top secret fino alla metà degli anni ’90, il bizzarro bimotore scout destinato a passare alla storia solamente con la denominazione del suo prototipo, Tacit Blue.
Oggi visitabile, con estrema facilità, presso il Museo dell’Aeronautica della base Wright-Patterson di Dayton, Ohio, la strana linea dell’apparecchio in questione non ha mai cessato di stupire gli appassionati di tecnologia militare ed aviazione, per la miriade di soluzioni atipiche che avrebbero contribuito al suo primo decollo, avvenuto dopo un lungo periodo di perfezionamento nell’anno 1982. E la ragione è presto detta, costituendo il punto d’incontro ideale tra un sistema di volo capace non soltanto di deviare ed assorbire le onde radar, bensì schierare a sua volta sopra il territorio oggetto di sorveglianza un potente ed ingombrante radar LIPR (a bassa probabilità d’intercettazione) capace non soltanto d’individuare singoli veicoli, ma persino compiere passi significativi verso la loro identificazione, una prospettiva letteralmente priva di precedenti fino a quel momento nella storia militare pregressa. Tanto che non sarebbe errato definire il Tacit Blue come “l’aereo costruito attorno ad un sistema di rilevamento” nella stessa maniera in cui l’A-10 Thunderbolt della Fairchild è da sempre stato soprannominato “l’aereo costruito attorno al suo cannone”. Essendo questi due velivoli, separati da uno spazio notevole di tempo e metodologia d’impiego, egualmente letali nei propri specifici settori d’appartenenza…
Le prussiane mura del baluardo formidabile sulla Montagna d’Argento
Dall’apice del potere raggiunto dalle monarchie europee sarebbe derivato il loro stesso e imprescindibile disfacimento. Poiché cosa poteva essere maggiormente desiderabile, per il titolare del diritto divino a governare, che un’intera nazione unificata sotto il riconoscimento identitario di una bandiera, un inno, un emblema? E nel contempo aggiungere, attraverso manovre di tipo diplomatico e militare, il maggior numero d’individui possibili al di sotto della propria egida autoritaria, allargando strategicamente la portata dei propri confini. Una tattica per cui la Prussia era già famosa attorno alla seconda metà del XVIII secolo, principalmente grazie all’operato di un singolo monarca: Federico II di Hohenzollern detto “il Grande”, figura illuminata, promotore di (un certo tipo di) giustizia civile, autore anni prima del trattato Anti-Machiavel, in cui si descriveva il dinasta come un paladino al servizio del popolo, mansione cui occorreva subordinare ogni aspirazione di accumulo di privilegi personali senza un perché. Ma anche il fiero generale che condusse con successo le tre campagne in Silesia, per strappare i territori dell’odierna Polonia al predominio austriaco, in quanto ritenuti parte imprescindibile della cultura ed il diritto esplicito del suo paese. Un sanguinoso percorso destinato a concludersi soltanto nel 1786, con significative perdite da ambo le parti e la sospirata vittoria attribuita ai colori dell’Aquila Nera, ma non prima che il grande artefice politico decise di operare affinché nessuno potesse togliergli ciò che si era tanto faticosamente saputo guadagnare. Il che comportava all’epoca, come nella maggior parte delle situazioni analoghe, il passaggio obbligato della costruzione di opere difensive, per cui sarebbe stato scelto nel caso specifico un sistema relativamente atipico nella sua cruda efficienza: una singola, gigantesca fortezza di montagna, che fosse la più grande e moderna mai costruita in Europa, destinata ad ospitare una guarnigione minima di 4.000 soldati. Un’opera tanto gargantuesca ed impegnativa, da risultare in effetti capace di cambiare l’intera prerogativa e ragion d’essere di una comunità pre-esistente, l’allora piccolo villaggio di Srebrna Góra. Così chiamato, con un termine binomiale significante Montagna d’Argento, per le vicine miniere sul massiccio eponimo, un importante luogo d’approvvigionamento per la zecca statale. Destinato tuttavia ad essere completamente eclissato a partire dal 1764, per l’istituzione dei massicci cantieri completi di segheria, multiple fornaci e strade d’importanza logistica significativa, destinate al trasporto di materiale procurato per lo più localmente da utilizzare per le incombenti, plurime mura costruite a oltre 600 metri d’altitudine dal livello del mare. Capaci di costituire, senz’ombra di dubbio, il più grande progetto civile o militare che la Silesia avesse conosciuto fino a quel particolare momento della propria storia…
E-6 Mercury, la coda bellicosa del serpente atomico statunitense
Se nella scacchiera di un ipotetico scenario da fine del mondo, la trasformazione degli Stati Maggiori nazionali in altrettanti pezzi mobili vedrebbe l’Air Force One assumere il ruolo di re incontrastato, il cosiddetto Doomsday Plane (Aereo dell’Apocalisse) Boeing 747 E-4 sarebbe senza dubbio la sua regina. Un potente sistema di organizzazione strategica, che accompagna il presidente con a bordo il segretario della difesa, sistemi per analizzare l’andamento del conflitto e potenti dispositivi di comunicazione su scala globale. Ma in ogni esercito sublimato che si rispetti, sia questo allegorico piuttosto che materialmente funzionale, lo schieramento di una parte non può dirsi in alcun modo completo senza l’umile base dei pedoni, sostituibili singolarmente, pur costituendo tutti assieme un’importante risorsa sia come contromisura che strumento d’offesa. In tal senso, non sarebbe del tutto errato definire i 16 velivoli Boeing 707 E-6 “Mercury” come i più letali e potenti apparecchi disponibili in questa tipologia di situazioni; perché responsabili nella sostanza del mantenimento di una rete di comunicazione con la triade nucleare. Trasmettendo, di volta in volta, gli obiettivi eletti come punti d’impatto per i missili dell’arsenale più estensivo di una singola nazione al mondo. Il che comporta alcuni singolari e tecnici artifici, soprattutto nel caso dei sottomarini di classe Triton ed Ohio, la cui irreperibilità costituisce un fondamento importante della loro stessa modalità d’impiego. Da qui dunque l’idea, inaugurata già negli anni ’60 con l’implementazione della relativa missione TACAMO (Take Charge and Move Out – “Prendi il comando e scappa”) al tempo condotta da una flotta di trasportatori a turboelica Lockheed EC-130 consistente nell’impiego di un’antenna VLF semplicemente unica al mondo. Da ogni punto di vista pratico, un filo lungo 5 miglia (8 Km) estendibile attraverso un apposito foro al centro della coda, al fine di bucare con l’eventuale segnale trasmesso una delle barriere meno permeabili di questo pianeta: la superficie dell’oceano stesso. Dispositivo il cui impiego corretto richiede particolari accorgimenti nell’assetto ed il comportamento dell’aeroplano, affinché possa riuscire ad estendersi il più possibile in senso verticale, piuttosto che venire trascinata orizzontalmente dall’aeroplano. Venendo estesa ad una velocità distante soli 19 Km/h dallo stallo per un jet di queste dimensioni, con un’inclinazione delle ali pari a 25-40 gradi, mentre il velivolo inizia compatibilmente a volare in tondo. In una serie d’infiniti circoli spiraleggianti, finché il risultato finale perseguito con la costruzione di una simile ragnatela non potrà giungere a compimento…