Tra i picchi della taiga, un popolo che ha fatto delle renne il proprio domani

Se c’è un modo di determinare la quantità effettiva di un gruppo sociale ereditario, non è sempre facile determinare a cosa dare la priorità. Giacché un principio valido può essere selezionare i possessori di determinati tratti etnici, ma ciò non è sempre possibile nel caso di una quantità di esponenti eccessivamente ridotta. Come 400 uomini e donne divisi in 70-80 famiglie situate nella provincia detta Khovsgol a settentrione di Ulaanbaatar, in due gruppi dalle usanze comportamentali nettamente distinte. Ma lo stesso filo conduttore, rimasto sostanzialmente invariato da un minimo di tre millenni. Nessuno potrebbe dubitare in effetti, prendendo in considerazione i Duhka, che il cervide delle regioni artiche per eccellenza (Rangifer tarandus) costituisca il fondamento stesso e principale segno identitario di queste persone. La cui sopravvivenza fu legata, fin da tempo immemore, alla prosperità e conservazione delle proprie mandrie. Animali resistenti ed adattabili, prolifici nel giusto contesto. Ma soprattutto produttivi, in termini di un alimento dalla qualità superiore: il loro latte consumato, a seconda dei casi e le necessità, come bevanda, formaggio o yoghurt preparato grazie a tecniche tradizionali dall’elevato grado di efficienza. Per non parlare della loro adattabilità al ruolo di cavalcature o animali da trasporto, previa lungo addestramento imposto fin dalla giovane età mediante la partecipazione entusiastica dei bambini della tribù. Ogni definizione che allude a tali allevatori come “guardiani” o “protettori” della renna troverà in effetti una conferma funzionale nella maniera in cui costoro, nella maggior parte delle circostanze, non consumano le carni dei quadrupedi di proprietà del clan. Preferendo ricercare un apporto proteico per la propria dieta nell’attività della caccia, in un modo che ne ha reso problematica la coesistenza con gli agricoltori stanziali della Mongolia. Questo anche perché gli Tsaatan, come li chiamano da queste parti in quanto “uomini delle renne”, non sono affatto originari di un ceppo di discendenza nazionale bensì provenienti, in forza di abitudini nomadiche ed eventi storici pregressi, dall’attuale Repubblica Federale di Tuva, passata dal dominio storico dell’impero cinese ad una breve indipendenza lamaista nel 1911, ed infine trasferita sotto l’egida sovietica nel 1921. Ponendo in tal frangente le basi di una migrazione in forza, delle genti nomadiche di confine nel prospicente Paese del Cielo Azzurro, per il giustificato timore che i loro giovani potessero essere reclutati a forza, le loro bestie nazionalizzate e le terre ove le facevano pascolare da tempo immemore trasformate in riserve gestite e regolamentate dal potere centrale. Non che nelle pur spaziose terre d’adozione, per lo meno in un primo momento, gli sarebbe finita per andare molto meglio…

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La sfida nella steppa tra titani, leoni e falchi del combattimento a mani nude della Mongolia

Studiando il pregresso medagliere sportivo della Mongolia, colpisce in modo particolare la presenza di 10 riconoscimenti olimpici nella lotta e 11 nel judo. Per non parlare degli straordinari e ben noti successi all’interno dell’altra disciplina di contatto tipicamente giapponese del sumo, dal profondo significato specifico all’interno di quel territorio geograficamente e culturalmente distinto. Risultati stranamente notevoli per il paese dell’Asia continentale che possiede ad oggi una popolazione di appena 3 milioni di persone, poco superiore a quella della singola città di Roma. Possibile, dunque, che i diretti discendenti delle orde un tempo temutissime del Khan possiedano un qualche tipo di eredità genetica o l’innata predisposizione a primeggiare in ogni circostanza in cui si renda necessario sottomettere fisicamente un avversario in contesti sportivi, come loro imprescindibile prerogativa? Laddove l’esperienza c’insegna come, più d’ogni altra cosa, sia l’abitudine a perseguire determinati metodi d’addestramento, tramandati all’interno delle singole famiglie, a permettere la nascita e il trionfo reiterato negli sport. Idea perfettamente compatibile, in maniera tutt’altro che incidentale, con il possesso specifico dell’identità culturale mongola di un’antica pratica guerriera, annoverata tra i tre Danshig o “discipline virili” assieme al tiro con l’arco e l’equitazione, concepiti per preparare un giovane uomo all’esperienza fisica e mentale della guerra. Per cui viene considerato lecito aspettarsi, dal figlio più imponente ed auspicabilmente forte di ciascun nucleo familiare, l’attivazione al raggiungimento dell’età appropriata di un regime preparatorio consistente di lunghe corse, sollevamento pesi ed esercizi fisici fino a guadagnarsi l’accesso in una scuola di Bökh. La “lotta mongola” o semplicemente “lotta” con una storia potenzialmente risalente al 7.000 a.C. come desumibile dal ritrovamento di alcune pitture rupestri raffiguranti uomini semi-nudi che si affrontano, seguìte in ordine di tempo dai bassorilievi sui piatti bronzei della confederazione tribale di Xiongnu, databili tra il 206 a.C. ed il 220 d.C. Sebbene il nome specifico usato ancora oggi per tale attività sia attribuibile senza particolari esitazioni al 1200 (anno della Scimmia) ed un aneddoto legato all’esperienza personale dello stesso Genghis Khan. Che avendo organizzato un torneo tra i suoi guerrieri, si trovò ad assistere alla gloriosa sconfitta del temuto Buri Bokh da parte del lottatore Belgutei, cui fece seguito l’immediata e indiscutibile condanna a morte del campione uscente, che morì con la schiena spezzata dichiarando di aver perso volutamente per intrattenere il Gran Khan. Forse la più chiara, nonché spietata delle dimostrazioni possibili per quello che poteva essere il significato di una simile attività in epoca medievale, e quale fosse la posta in gioco ai più alti livelli di una tenzone all’ultimo sangue. Figlia di una concezione particolarmente spietata dei rapporti tra le persone, i loro capi e ispiratori all’interno di una terra inclemente, che si estende con ostinazione erbosa verso l’orizzonte infinito…

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L’apparente idillio del pastore mongolo che pesca da un lago ghiacciato

Elegante perché semplice, semplice perché naturale, naturale e proprio per questo, bellissimo. C’è molto da commentare benché i dettagli si nascondano nelle vaste steppe asiatiche, nella scena diventata istantaneamente popolare su Twitter dell’uomo in abito tradizionale, sereno e sicuro di se, che poggiando saldamente gli stivali sulla superficie relativamente spessa di uno specchio d’acqua senza nome, colpisce con la zappa la biancastra superficie, realizzando un foro dalla forma grossomodo circolare entro cui getta delle esche in quantità evidente, attirando pesci dalle tenebre sommerse. Per poi infiggervi, alla percezione inusitata di un remoto movimento, il fulmine letale della forca per il fieno, mentre due amichevoli caprette testimoniano ammirate il sapiente gesto. Poco prima che, con un sorriso grande come il mare che potrebbe non aver mai visto, il cavaliere dell’oceano d’erba estragga l’argentato premio di cotale inconfondibile frangente: tre grosse carpe asiatiche, disposte attentamente in fila parallela, quindi caricate sulla spalla destra, facendo un uso non meno creativo del bucolico strumento di cattura ed ittica uccisione. Segue uno stacco di regia, a seguito del quale ritroviamo l’abitante a prelevare legna e sterpaglia dalla sua catasta, per poi immergere il pescato in salamoia, direttamente condita con i colpi di machete su una roccia non dissimile dalla rinomata lampada di sale tibetano. Conclude la sequenza, lui che cuoce i tre pasti completi, infissi in lunghi stecchi sopra il fuoco precedentemente preparato.
Cosa abbiamo visto, esattamente? Chi è costui? Dove siamo? Abbiamo veramente assistito ad una “Tecnica di pesca vecchia di 10.000 anni!” come enfaticamente titolato sui diversi social e presso gli arcani recessi della blogosfera, o si trattava piuttosto di un semplice individuo dalle plurime risorse, intento a fare ciò che gli riesce meglio: sopravvivere facendo affidamento sulle proprie sole forze, nella sostanziale solitudine di una regione grande due volte la Germania, ma con densità di popolazione persino inferiore all’entroterra australiano… Il primo strumento che abbiamo a disposizione per interpretare il video, comparso per la prima volta sul profilo del russo di origini kazake Gabit Rahimberlin, alias Starshina73, è il fatto che si tratti, per l’appunto, di una testimonianza registrata in digitale. Da un telefonino chiaramente messo in verticale, niente meno, dotato di una risoluzione sufficientemente elevata per garantire una qualità delle immagini perfettamente al passo coi tempi. L’assenza di turisti o terzi d’altro tipo, o in alternativa l’attenzione registica con cui essi vengono tenuti fuori dall’inquadratura, lascia quindi trasparire una certa esperienza nell’uso del mezzo tecnologico, da parte di qualcuno che non è poi così distante dalla civiltà moderna, quanto in apparenza saremmo forse portati a credere, come molti dei commentatori all’affascinante ed ormai celebre contingenza. Il che ci porta al secondo strumento interpretativo, ovvero l’abbigliamento del nostro eroe, chiaramente derivante da una discendenza culturale ragionevolmente precisa, non tanto per la veste lunga e legata in vita, il tipico deel diffuso nell’intero areale culturale mongolo, quanto per l’iconico e riconoscibile copricapo…

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Nella steppa: un gatto peloso dallo sguardo umano

Manul

C’è qualcosa di davvero insolito, qui. Una creatura selvatica non dovrebbe apparire magnifica e stupendamente sgraziata, con il pelo lungo che ingoffisce, le zampe corte, le orecchie quasi invisibili, la corporatura tondeggiante di Garfield e una sinuosa, quanto inutile, coda con gli anelli neri. Non ti aspetteresti certo di trovare, tra i terreni più remoti della Mongolia, del Tibet, del Transbaikal siberiano, di Kyrgyzstan, Pakistan, Kazakhistan e Kashmir, la ragionevole approssimazione di un gatto persiano, all’apparenza degno di partecipare ad una gara di bellezza tra le razze feline, tra bagnetto, croccantini e un sonnellino sul divano. Eppure, stiamo parlando di un animale abituato a vivere in completa solitudine, anche a un centinaio di chilometri dagli altri membri della propria specie, compagna per l’accoppiamento esclusa, ed ancor più lontano da qualsiasi cosa possa essere chiamata “insediamento umano”. Buon per lui, visto come la folta pelliccia sia stata in passato, per gli uomini del luogo, un sinonimo di ottimi cappelli o colli delle giacche (pure femminili) portando la creatura ad uno stato di conservazione necessariamente poco noto, eppure rientrante nello spazio degli animali potenzialmente a rischio d’estinzione. Stiamo parlando, per essere chiari, del Ману́л (Manul) l’essere più spesso definito con il nome del suo scopritore Peter Simon Pallas (1741-1811) naturalista di Berlino che visse e lavorò per lungo tempo in Russia. Finendo per donare il proprio appellativo, tra le altre cose, a uno scoiattolo, un cormorano, un’aquila, due tipi di pipistrello, al misterioso uccello, simile a una pernice, che Marco Polo aveva definito il Bugherlac e addirittura a un meteorite del tipo più fantastico, di cui parlammo in questa sede qualche tempo fa. Ma la sua classificazione più famosa, in quest’epoca in cui niente vende quanto l’impronta tipica del polpastrello dei felini, resta il qui presente insolito mammifero, pieno di risorse come i suoi compagni maggiormente prossimi al nostro contesto geografico, per lo meno all’epoca distante della loro vita nel selvaggio sottobosco. Benché il distante cugino russo, di problemi debba affrontarne alcuni molto significativi, tra cui un clima che tende a far sostare il termometro, in determinati luoghi, anche attorno ai -20 gradi. O per brevi periodi, molto meno di così.
Di certo deve costituire una visione quasi ultramondana: con la testa dalla forma stranamente tondeggiante e il volto piatto, a tal punto che alcuni tendono a scambiarlo, la prima volta e da lontano, per un qualche tipo di primate. Ha persino gli occhi tondi, invece che a fessura, come i nostri gatti casalinghi! Un tratto comune ad alcuni grandi felini, quali il leopardo, ma del tutto unico per un gatto del peso massimo di 4 Kg e mezzo, ovvero esattamente come i nostri coabitanti con lettiera e scatola dotata di maniglia da trasporto. Tra le altre differenze, meno denti nella parte inferiore della bocca, con l’assenza del primo paio di premolari, ma denti canini dalle dimensioni decisamente maggiorati. Ah, si, c’è un altro piccolo dettaglio: il nostro eroe, piuttosto silenzioso, può emettere talvolta rari versi di richiamo, se si spaventa o vuole avvisare la compagna di un pericolo imminente. In quel caso, si può dire, più che miagolare, abbaia. Davvero! Il sito del Telegraph dispone di un breve spezzone con registrazioni audio, che pare la testimonianza di un irrequieto branco di bassotti, indispettiti per il freddo e le sgradite circostanze. Mentre un gatto come questo, è molto raro che si perda d’animo. Il Manul che, come potrete immaginare in funzione delle corte zampe, non è un grande corridore, tende a reagire alla venuta di eventuali predatori con un certo grado di furbizia: se possibile, si nasconde tra le rocce o nelle tane di altri animali, come le marmotte. In assenza di questa possibilità, cerca di mimetizzarsi, restando immobile anche per lunghi periodi. Le testimonianze di chi li ha studiati, nel loro ambiente naturale, sono piene di frangenti in cui il gatto, adagiandosi in prossimità di tronchi o collinette scelte ad arte, è letteralmente scomparso dagli occhi dell’osservatore, come la creatura sovrannaturale che potrebbe ricordare, nell’aspetto, le movenze e l’insolito stile di vita.

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