Gli ambasciatori extra-solari entrarono ordinatamente nella sala, prendendo posto nei quattordici sedili d’onore accanto alla scintillante passerella in vetro lattiginoso di Rigel-4. Attorno a loro, giornalisti terrestri con parti cibernetiche ma non solo, star dell’olocinema, diversi avatar manifestati dai principali spazi ortogonali del multiverso. E soprattutto androidi, ciascuno dotato di una telecamera sensoriale, per permettere ai più facoltosi miliardari di presenziare l’evento. Naturalmente, mai e poi mai un nudo organismo avrebbe potuto sopravvivere a quello che stava per avvenire in quel posto. Con tre sibili ritmati, le massicce porte dell’hangar vennero chiuse di fronte all’ultimo ritardatario, mentre il buco nero tascabile calava dal soffitto cominciando ad espandere la propria singolarità. E non un buco qualsiasi bensì di quelli per il Verme, metaforica figura in grado di spostare la materia dietro e attorno ai semplici confini della dimensione “vivente”. Fino allo spazio virtuale, l’immaginifico creato dal computer che in quel giorno fatidico avrebbe, finalmente, dato prova della propria manifesta capacità creativa. Con un improvviso attenuamento delle luci, dunque, la prima modella cominciò ad incedere dal Nulla, verso il Tutto (Zen): ella indossava un certo tipo di abito, ispirato alle ali di un comune lepidottero del terzo pianeta. Diafane come un refolo di vento, ma forti abbastanza da poter chiaramente sollevare il suo peso. Subito a seguire, giunse l’attimo di una nube temporalesca. Avvolta attorno a un corpo di cui restavano visibili soltanto le gambe, un chiaro omaggio ai gusti degli abitanti del sistema Antariano e i loro insediamenti battuti costantemente dai venti. Il primo colpo di scena venne poi a seguire, con la modella-coda di pavone volteggiante sopra il palco, in grado di mostrare al posto della schiena una più piccola copia di se stessa. Ma la vera ed effettiva catarsi, qualche minuto dopo appena, sarebbe giunta quando da dietro le quinte avrebbe fatto il proprio ingresso il Sole. O quanto meno la più vicina approssimazione, che potesse avvolgere ed abbellire un corpo dall’aspetto per così dire “umano”.
È la percezione manifesta di un futuro possibile, non così distante, in cui il progresso tecnologico potesse andare incontro in primo luogo alla creazione del tutto tangibile di quanto è comunemente definibile soltanto in vertici e figure vettoriali, ma la collettività potesse giungere ad accettare del tutto i meriti artistici di quella entità quasi-pensante che non è mai, realmente, nata. Sto parlando dell’intelligenza artificiale senza dubbio, o per schivare la costante trappola di chi vorrebbe generalizzare, l’algoritmo autonomo generativo alla base di quel diffuso senso di terrore e disagio a più livelli inclusa la dialettica dei demagoghi, sempre pronti a individuare la prossima minaccia del benefico, tranquillizzante status quo. Così come veicolata per stavolta, tramite la lente e la precisa mano operativa di un artista vero, quello Yonatan Dor(oczinski) di Berlino già protagonista assieme al fratello lo scorso febbraio di un articolo sulla rivista Forbes. Poiché non sono molti nella scena dei creatori di contenuti videografici, al giorno d’oggi, ad essere pronti ad ammettere apertamente l’utilizzo di strumenti come Midjourney, ChatGPT o Runway, ostracizzati e scansati dalle moltitudini per via delle connotazioni guardate sempre con sospetto ed una certa persistente nota di timore superstizioso. D’altro canto cosa mai potrebbero aver pensato, i “bravi pittori di una volta”, quando nel primo terzo del XIX secolo cominciò a prendere piede la fotografia…