Sgargianti aeroplani, canguri bellicosi: i serbatoi sul tetto che decorano le case del Punjab

Successivamente alla partizione dell’India dopo la disgregazione del Raj inglese, alcune zone di confine tra lo stato riformato e il Pakistan moderno si trovarono a gestire situazioni economiche complesse. Per non parlare di circostanze climatiche, ulteriormente esacerbate in epoca contemporanea, non propriamente valide alla conservazione di standard di vita dall’elevato coefficiente di confortevolezza. È questo senza dubbio il caso del Punjab, culla dell’originale civiltà della valle dell’Indo, dove a parte il periodo dei Monsoni, l’inaridimento dell’epoca contemporanea avrebbe concentrato copiose piogge nel periodo dei monsoni, lasciando l’estate propriamente detta, ma anche l’inverno, sprofondate in lunghi e pervicaci periodi di siccità. Basta aggiungere a questo l’attaccamento, da parte della gente di questi territori, a tecniche agricole tradizionali come l’assetata risaia nonché l’utilizzo esclusivo di acqua procurata localmente, piuttosto che fornita tramite acquedotti o canali al fine d’irrigarla, per comprendere quanto frequentemente gli abitanti di una zona come il distretto di Jalandhar possano trovarsi all’asciutto, dovendo ricorrere a soluzioni di approvvigionamento idrico tutt’altro che ideali. Facile giustificare, a questo punto, l’alto numero di strutture per lo stoccaggio sistematico dell’acqua incorporati nella maggior parte delle soluzioni architettoniche auto-gestite, principalmente appartenenti alla categoria più popolare nei villaggi, di spaziose villette o palazzine appartenenti a una singola famiglia multi-generazionale. Ingombranti serbatoi, che in altri luoghi apparirebbero esteticamente stranianti, distopici nell’incombente cozzare di forme utilitaristiche con qualsivoglia tentativo di abbellire le adiacenti mura. Ovunque, ma non qui. Diventati celebri recentemente grazie ad una mostra fotografica in Gran Bretagna del fotografo Rajesh Vora, ma anche per la loro inclusione nella trama del film di Netflix sull’emigrazione Dunki, del regista Rajkumar Hirani, i variopinti serbatoi diventati sono diventati un importante simbolo locale dall’incredibile tripudio di forme, colori e metafore appariscenti. Molti di essi atti a simboleggiare proprio l’insediamento di un membro della famiglia in paesi lontani, ed il conseguente aumento d’introiti con capienti contenitori dalla forma di canguri australiani (con tanto di guantoni da pugilato) Statue della Libertà statunitensi ed altri celebri simboli nazionali. Piuttosto che celebrazioni del concetto di viaggio in quanto tale, vedi la famosa replica in mattoni e intonaco di un jet di linea della Air India, situato presso l’insediamento di Uppal Bhupa di proprietà di Santokh Singh Uppal dalla lunghezza complessiva di 25 metri. Edificato, come la stragrande maggioranza dei suoi simili, durante la prima decade dell’anno duemila, quando iniziò a propagarsi a macchia d’olio questa ingegnosa, quanto altamente caratteristica fad popolare. La realizzazione particolarmente tangibile, di un privilegiato filo conduttore tra senso comune ed arte popolare del quotidiano…

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Chakram, arma segreta del Sikhismo: l’indubbia letalità di un disco volante

Nell’antico romanzo epico indiano del Mahābhārata, scritto da Viyasa nel IV secolo a.C, si narra tra le altre cose delle gesta di Krishna, avatar terreno del dio Vishnu. E di come egli, affrontando più volte il nemico e cugino Shishupala, aveva imposto un numero di volte massimo in cui avrebbe tollerato di essere offeso. E così alla 101° volta in cui gli venne mancato di rispetto, estrasse dalla manica il divino Sudarshana Chakra, arma magica creata per la distruzione dei demoni, e lo lanciò all’altezza del suo collo. In questo modo, egli fu decapitato e la giustizia venne restaurata nel regno degli uomini. Naturalmente si trattò di un gesto non-violento, poiché guidato dal senso supremo della giustizia dell’oltremondo. Eppure resta indubbio come uno strumento simile, capace di emettere fiamme a comando, colpire sempre il suo bersaglio e separare arti o altre parti del corpo umano risultava essere piuttosto terrificante. In tal senso, tra tutte le armi divine menzionate negli antichi testi, esso potrebbe essere individuato come una delle più caratteristiche, proprio perché priva di dirette corrispondenze fuori dalle sue terre d’origine in Oriente. D’altra parte il chakram, termine in sanscrito che significa semplicemente “cerchio” o “disco” fu effettivamente utilizzato sui campi di battaglia, almeno a partire dall’epoca del grande Maharaja e sovrano dell’impero Sikh del Punjab, Ranjit Singh (regno: 1801-1839) essendo strettamente associato alla principale setta della casta guerriera del suo popolo, i Nihang. Anche detti Coccodrilli Immortali o “Coloro che sono al di là del tempo” volendo in tal modo significare che soltanto gli Dei potevano pretendere di giudicarli. Un tipo di prerogativa da cui fu sempre tipico, in ogni cultura immaginabile, far derivare un distintivo modo di porsi ed abbigliarsi, pretendendo di affrontare le casistiche del mondo. Che includeva, nel loro specifico caso, una grande quantità di armi. Immaginate, in tal senso, quanto segue: ogni soldato di fanteria di un’armata pre-moderna avrebbe dovuto essere, idealmente, uno schermagliatore. Giacché nella fluida impostazione di un’ordine di battaglia, risultava altamente probabile ci si trovasse col nemico fuori dal confronto all’arma bianca tra gli eserciti, in una situazione cui l’attacco a distanza diventava niente meno che fondamentale. Così come avveniva per gli Antichi Romani ed i loro giavellotti o le plumbata, proiettili tenuti dietro lo scudo e pronti da lanciare (idealmente) all’indirizzo dei barbari oltre i confini dell’Urbe. Ma i Sikh, combattenti spesso privi di armatura e dotati di equipaggiamento comparativamente più leggero, erano soliti equipaggiare i propri proiettili in modi alternativi. Come attorno ai polsi, alle braccia, alle spalle ed infilati nel turbante. Ragion per cui fu in pratica inevitabile, che costoro progettassero un’arma che aveva la forma di un cerchio, dotata di un foro centrale per trasportarla nella maniera già anticipatamente descritta dallo scrittore ed ufficiale Duarte Barbosa (1480-1521) che aveva parlato in un celebre paragrafo del tipo di effetto devastante che potevano avere in battaglia i Sikh. Il loro simbolo addizionale sarebbe diventato dunque, nel corso dei secoli, il chakram ma il suo nome alternativo, per l’efficacia che sarebbe in grado di dimostrare, avrebbe anche potuto concretizzarsi in “terrore volante”…

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La battaglia degli atleti che trattengono il respiro

Kabaddi

Tutti gli sport di squadra servono a costituire, in una forma oppure l’altra, un’addestramento bellico di qualche tipo, poiché è nella natura stessa del concetto di gioco, sia questo fisico piuttosto che concettuale, simulare situazioni di conflitto. Pensate alle tenzoni della palla ovale, il cui fluire rassomiglia tanto da vicino alla casistica di un doppio schieramento di fanteria, che si affronti per raggiungere la base del nemico, in un particolare caso, con tanto di protezioni ed armatura. Il baseball, nel frattempo, è una chiara metafora del corpo dell’artiglieria, con l’importanza che rivestono le traiettorie, i posizionamenti, l’attento impiego delle munizioni (in questo caso, umane). Mentre il nostro calcio, con il suo fluire imprevedibile e l’impetuoso dinamismo, non è dissimile dall’esperienza di un confronto tra manipoli di forze speciali, che devono pianificare contromosse basandosi sui gesti dei propri avversari. Lacrosse, hockey? Spadaccini. Basket, pallamano? Granatieri. Ma volendo seguire una tale progressione logica, più o meno improbabile, c’è uno sport del Sud dell’Asia che si mette in evidenza concettuale tra gli altri, perché è la chiara rappresentazione di un grande e nobile guerriero, l’attaccante solitario, che si prodiga sfidando un gruppo di possenti difensori. Fino a sei, nella variante più famosa, che per vincere devono letteralmente farlo cadere a terra. Mentre lui può eliminarli semplicemente con un tocco, seguito dal ritorno oltre la linea di metà campo. Col procedere della partita, che dura due tempi da 20 minuti l’uno, in campo possono esserci fino a 7 giocatori, gradualmente eliminati a seguito della cattura ed eventualmente sostituiti dai loro compagni di squadra. Il nome dell’antichissima tenzone, la cui origine si perde nella storia arcaica dell’India meridionale, è Kabaddi, un termine dall’etimologia incerta, che potrebbe derivare dall’espressione in lingua Tamil kai-pidi (tenersi per mano) o in alternativa da kab (coscia) e haddi (ossa) un riferimento alle parti del corpo che ricevono le maggiori sollecitazioni, o per meglio dire infortuni, nel corso dell’azione di gioco. Questo sport a differenza degli altri citati, in effetti, si fonda sul contatto diretto e potrebbe facilmente sembrare, ai nostri occhi, una strana commistione del rugby e del wrestling, con alcuni elementi comuni al dodgeball, la versione competitiva del gioco della palla avvelenata. Ciò detto, questo sport resta sufficientemente complesso, ed originale, da risultare difficile da comprendere o seguire senza un breve corso accelerato sulle regole, che in questo caso ci viene offerto, con notevole perizia esplicativa, nel video dello youtuber Ninh Ly, produttore di una serie molto popolare sugli sport dei vari paesi del mondo.
Si inizia, come sempre avviene per il Kabaddi, con il singolo aspetto più bizzarro di questa disciplina, che tuttavia negli anni, grazie all’apporto tecnologico è diventato sempre meno necessario: trattenere il fiato. La limitazione principale all’assalto di cui sopra, condotto dal giocatore attaccante scelto a rotazione che viene definito con il termine tecnico di raider, è infatti di natura temporale, affinché nel caso in cui i difensori, nonostante gli sforzi effettuati di concerto, non riescano a placcarlo, ma neppure lui ad eliminarli, costui debba infine ritirarsi e lasciare il passo a uno sfidante più aggressivo. E poiché lo spot veniva praticato in origine, come anche il calcio storico, in assenza di arbitri o sistemi di misurazione dei secondi, la soluzione scelta diventava far ripetere ossessivamente al raider, per l’intero corso del suo assalto, la parola “kabaddi, kabaddi […]” senza mai inalare. Con il tempo la capacità di restare in apnea per tempi prolungati diventò un cruciale tratto distintivo dei migliori giocatori, nonché una dote necessaria a far carriera. La regola continua ad essere praticata assiduamente in ambito amatoriale, ed è inoltre un punto fermo delle numerose versioni regionali dello sport.

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