Londra in legno: la mini cattedrale che mostrò l’aspetto di un’alternativa St. Paul

Il saggio architetto, l’uomo colto, lo studioso delle stelle e della filosofia naturale osservò il suo Re mentre faceva ingresso nel salone del Collegio Invisibile, posizionato per estendersi oltre l’atrio principale della Barnard’s Inn presso il quartiere Holborn, a Londra. Poco più che trentenne, l’allegro monarca Carlo II sembrava intenzionato a fare onore al proprio soprannome, mentre salutava personaggi del calibro di John Locke, John Evelin, Robert Boyle. E il temporaneamente tranquillo Isaac Newton, il giovane matematico pieno d’idee quanto privo di capacità di scendere a compromessi con i suoi pari. Ma Christopher Wren, in quel momento, non era intenzionato a dare spazio alle antipatie e rivalità dei suoi colleghi cultori della nuova Scienza: dopo tutto, quello era il momento del suo trionfo. La sua intera reputazione presso la corte, la quasi interezza di questi ultimi mesi del 1673 e circa 500 sterline, l’equivalente del valore di una residenza di medie dimensioni, erano stati scommesse sulla reazione di un uomo all’oggetto nascosto sotto il telo nero al centro di questo vasto ambiente. Con un sorriso, fece un passo avanti. Quindi s’inchinò a Sua Maestà: “Siate il benvenuto, sire. Quando volete, possiamo procedere alla presentazione.” Il sovrano esule, rientrato in patria successivamente alla reggenza di Oliver Cromwell degenerata soltanto tre anni prima in una controrivoluzione, sembrava molto soddisfatto delle circostanze. Finalmente avrebbe restituito al popolo qualcosa d’importante, l’edificio che nel 1666, anno dell’Apocalisse, il grande incendio aveva bruciato fino alle fondamenta; una grande cattedrale, il seggio del vescovo di Londra; il simbolo della rinascita e di una nuova epoca per la brava gente che aveva acclamato il suo ritorno. Una cupola magnifica: “Allora scopriamola, esimio architetto. Mostrateci il frutto dei vostri disegni!” Con un gesto magniloquente, Wren indicò al suo assistente di tirare una corda. E davanti al pubblico assiepato presso le alte mura di quel prestigioso ambiente, calò improvvisamente il silenzio. Non tutti, prima di allora, avevano già visto la nuova St. Paul. La chiesa imponente, dall’alta cupola sormontata dalla torre a lanterna, le navate dalla pianta greca ornate di colonne che ricordavano il Partenone greco era lì, davanti a loro. Alta 4 metri e lunga 6, realizzata in solido legno di quercia. Altri celebri edifici venivano evocati dal suo aspetto, per lo più appartenenti alla città di Roma: San Pietro e il Pantheon… Ma qualcosa nel progetto così straordinariamente messo in mostra, parlava di un tipo di razionalismo radicale quanto poteva dimostrarsi attraente, la straordinaria simmetria e la matematica di proporzioni studiate eccezionalmente a fondo. Così messe in mostra, grazie all’aiuto di abili artigiani, con la specifica intenzione di stupire colui che, più di ogni altro, si era dimostrato fino a quel momento il principale sostenitore di Wren. Dopo una breve spiegazione, dunque, l’architetto spiegò al Re d’Inghilterra che qualora lo avesse desiderato, avrebbe potuto “fare il proprio ingresso” nella chiesa in scala 1:25. Carlo dopo essersi inchinato in un’ironica dimostrazione di entusiasmo, sollevò le lunghe vesti e oltrepassò la grande porta. Ora si trovava, in tutto e per tutto, dentro ciò che ancora non svettava sopra la città di Londra. Eppure già sembrava, in tutto e per tutto, esistente: magistrali decorazioni e colonnati erano stati scolpiti nel gesso. Ogni dettaglio di queste navate, dei soffitti a volta, la proporzione degli spazi poteva già essere apprezzata nella più totale perfezione. “Che ne dite, mio signore?” Chiese l’autore di tutto questo. Il Re si voltò allora nella direzione da cui era venuto: incorniciato nel grande portone, dall’interno, vide il volto riccioluto del Grande Architetto in persona, sorridente e speranzoso al tempo stesso. Così trasformato in un gigante tra gli uomini, alto quanto le colonne della sua principale creazione. In quel momento, Carlo II seppe di aver scelto il suo costruttore. E fu istantaneamente convinto che i cittadini e membri del clero, nella loro interezza, avessero scelto con lui.

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L’Hummer grande come una piramide del faraone dei motori sauditi

Mastodontico, imponente, grandioso, l’iconico trasporto veicolare delle truppe statunitensi si trovò a rappresentare fin da un trentennio a questa parte un significativo potenziale inesplorato, di quanto l’eccesso potesse dominare sulle strade sufficientemente ampie, dimostrando a più livelli l’interesse della gente facoltosa per la cosa pubblica, purché tale cosa fosse allineata al predominio sui campi di battaglia e l’occupazione del suolo straniero. Non a caso il primo testimonial, ed a dire il vero iniziatore stesso della diffusione del veicolo all’interno del mondo civile, sarebbe stato niente meno che Arnold Schwarzenegger, già negli anni ’90 associato ad una passione imperitura per l’estetica militarista e tutto ciò che procedendo grazie alle sue ruote, sarebbe giunto a costituire anche a posteriori un emblema dell’eccellenza ingegneristica del suo beneamato paese. Ma se la personalità principalmente associata al modello consumer di tipo H1 sarebbe stata in Occidente quella di un attore di Hollywood, vi sembrerà stranamente appropriato che in Medio Oriente questo ruolo di “persona celebre” potesse appartenere unicamente al tipo di VIP che domina il panorama economico della vasta penisola e l’intero golfo dell’Oman: sto parlando, chiaramente, di un membro della famiglia reale saudita, il cui nome è Hamad bin Hamdan Al Nahyan ma che tutti chiamano lo “sceicco dell’arcobaleno” (presto vi dirò il perché). Potenzialmente il più ricco dopo Sua Altezza il re Salman, considerato il patrimonio stimato attorno ai 20 miliardi di dollari, derivante come prevedibile dai diritti di sfruttamento delle ingenti risorse petrolifere sul territorio di quei sabbiosi domini. Mentre assai meno scontato risulta essere, di contro, l’ambito specifico in cui è solito investire una copiosa percentuale dei suoi introiti spropositati, ovvero la procura, catalogazione ed esposizione di una delle più eclettiche collezioni di automobili al mondo. In cui non sono tanto i marchi a farla da padrone, quanto strani modelli e fuoriserie, accompagnate da un’accattivante serie di “pezzi unici” fatti costruire sulla base delle sue precise direttive o aneliti non privi di un’importante dose d’ambizione procedurale. “Io non credo particolarmente nel lusso” ama affermare lo sceicco interrogato sull’assenza di Ferrari, Porsche o Lamborghini (fatta eccezione per il primo SUV prodotto dalla compagnia) mentre accoglie i propri ospiti e li fa salire a bordo di una delle sue tre “macchine giganti” custodite all’interno dell’edificio più stravagante di tutta la città di Abu Dhabi. Sotto ogni punto di vista rilevante, una vera e propria piramide di metallo con esattamente 100 metri di lato, il garage perfetto per simili pantagruelici giganti motorizzati. L’apprezzabile dimostrazione dell’opulenza senza limiti, ma anche l’intento di costruire qualcosa di divertente per il pubblico, a suo mondo…

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Il vantaggio pratico del bruco con la testa di due misure più grande

Non dovremmo mai dirci predisposti a sottovalutare le doti che derivano dal possesso di un grande cervello. In un’ideale rassegna delle possibili specie aliene che hanno visitato la Terra, è frequente l’attribuzione di particolari poteri psichici o prerogative sovrannaturali ai cosiddetti grigi, umanoidi esili, dai bulbosi occhi d’insetto e un cranio a dir poco enorme. Quali eccezionali pensieri, quante ardite metafore o concetti trasversali, potranno dunque aver fatto la propria comparsa, inseguendosi tra le sinapsi ultramondane di simili filosofi della Galassia ulteriore? Ancorché d’altronde, risulti essere tutt’altro che scontata l’effettiva corrispondenza tra il contenitore e ciò che occupa il suo spazio interno, come largamente noto agli estimatori di frutta tropicale, alle prese con l’occasionale drupa dall’aspetto lucido e splendente, nel cui interno si nasconde una polpa non così attraente o dalla consistenza inappropriata al delicato palato umano. Quando al suo interno non figura addirittura, placido e satollo, la strisciante forma di una larva che conosce chiaramente il proprio posto riservato nell’Universo. Come un elfo sulla mensola, come il Jolly fuori dalla scatola, un serpente ipnotizzato nella cesta, l’incomparabile silhouette del piccolo animale non più lungo di un paio di centimetri potrà quindi comparire in controluce. Dando l’immediata e non del tutto apprezzabile impressione che sul proprio corpo flessibile gravi il carico di uno sproporzionato parassita dalla forma globulare. Qualcosa che s’insinui nello spazio largamente cavo di quella parte di esoscheletro situata in corrispondenza del cranio. Per pensare validi e sofisticati anatemi, al posto di colui che non possiede nella sua panoplia genetica una tale predisposizione operativa… Ma facente in realtà parte del segmento dell’addome dell’artropode immaturo. E le apparenze spesso inganno e di certo questo è un bene. Soprattutto per il qui presente bruco della famiglia di falene Nolidi, originaria dell’India e della parte meridionale del resto dell’Asia, che su tale predisposizione al fraintendimento si è dimostrato capace di orchestrare la sua intera carriera. Di creatura che non possedendo nessun tipo di difese operative (peli urticanti, sapore sgradevole…) si è del resto fatta scudo di un’alternativo metodo d’autoconservazione: quello che permette, o per lo meno dovrebbe favorire, l’impresa di passare ragionevolmente inosservati. Chi l’avrebbe mai detto?
Perché di certo una creatura come questa non vuole in alcun modo assomigliare ad altri esseri del regno animale. Bensì qualcosa di ragionevolmente comune all’interno delle foreste da cui provengono, come un esemplare ancora lungi dall’essere maturo di prugna, jujube o mela di Ambri. Ovvero un cibo per gli uccelli che risulta facile da procacciarsi e al tempo stesso, inferiore a quello procurabile a partire da una pletora di circostanze topograficamente vicine. E chi vorrebbe accontentarsi, dunque, di una scelta di siffatta provenienza e/o natura…

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Le incessanti dispute di successione al trono delle formiche più grandi al mondo

È una fortuna, tutto considerato, che nel progressivo evolversi delle creature animali la natura abbia perseguito forme e proporzioni contenute, riducendo al volgere di ciascuna epoca l’effettiva imponenza delle diversificate tipologie animali. Basta un breve sguardo ad un catalogo delle creature note come Dinosauri, d’altra parte, per indurre nei moderni un senso di disagio e latente inquietudine, al pensiero di un ipotetico uomo primitivo, mai davvero esistito, trasformato in rapido spuntino da tirannosauri, spinosauri, giganotosauri… Eppure il fatto non così frequentemente discusso, nell’insieme dei fattori rilevanti, è che non tutte le specie siano necessariamente diventate piccole al trascorrere dei molti millenni. Vedi per esempio la balenottera azzurra, singolo essere vivente più imponente mai vissuto sulla Terra, oppure il caso all’altro estremo dello spettro del costruttore di colonie eusociali per definizione: la formica. La cui maggiore varietà documentata della Titanomyrma gigantea, grazie al ritrovamento di alcuni fossili nello stato americano del Wyoming, ha dimostrato una grandezza media di 3 cm, aumentati a 5 nel caso delle sue regine. Una misura che potrebbe, d’altra, parte risultare facilmente eguagliata o superata dalle attualmente esistenti Dinoponera delle foreste brasiliane, se soltanto avessero l’inclinazione ad adottare il tipico sistema eusociale della monarchia. Piuttosto che aver costruito, nel corso dei pregressi millenni, una sorta di autocrazia delle più forti, tra lavoratrici distribuite in una gerarchia ben precisa, continuamente sottoposta a revisioni sulla base di feroci scontri tra pretendenti. Il che non può mancare di sottintendere una lunghezza media attorno ai 4 cm, ulteriormente qualificata come terrificante dal possesso di grandi e affilate mandibole, capaci di fare a pezzi la stragrande maggioranza degli insetti. Da cui il soprannome di falsa tocandira (tagliafoglie) per distinguerla dalla tragicamente nota formica proiettile o Paraponera clavata, la cugina tassonomica soprannominata “delle 24 ore” a causa dell’intenso e persistente dolore causato dal suo veleno, incidentalmente ricercato in alcuni terrificanti rituali di passaggio delle popolazioni indigene locali. Laddove la più grande ed impressionante di costoro, detta per l’appunto D. gigantea, è stata dimostrata poter raggiungere agevolmente le 48 ore nell’estendersi della fase acuta della sua puntura, con conseguenze per gli umani come capogiri, difficoltà nei movimenti, sangue nelle feci. Il che non arriva neppure a una frazione della significativa crudeltà mostrata da questi notevoli imenotteri, nei confronti delle appartenenti alla loro stessa specie. Per volere e mano della stessa formica alpha o gamergate (termine proveniente dal greco γάμος + ἐργάτης – lavoratrice sposata) ogni qual volta un’appartenente alla sua stessa comunità dovesse tentare di accoppiarsi con uno dei maschi del suo harem totalmente esclusivo. Occasione a seguito della quale inizierà uno scontro, culminante con il capovolgimento della pretendente sopra cui ella provvederà a imprimere un particolare feromone punitivo, segnale per le consorelle d’iniziare il lungo e laborioso processo di tortura. Giorni, se non settimane, trascorse a morderla, spingerla e tenerla ai margini della colonia, quasi a dimostrazione o sempiterna memoria di cosa comporti tentare di sfidare la dominatrice suprema, in aggiunta alla formale degradazione allo stato di lavoratrice di basso rango. Il che non pare in alcun modo prescindere, d’altra parte, la costante esistenza di almeno una mezza dozzina di sfidanti, definite come ideali ed impietose principesse, sempre pronte a mettere alla prova l’effettiva superiorità della signora. Che un giorno, prima o poi, diventerà troppo anziana per resistergli in qualsiasi efficace maniera…

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