L’incendio che fu spento con l’atomica da 30 kilotoni

Urtabulak

Fu certamente per l’effetto di una crudele ma simbolica ironia, che la più terribile guerra nella storia dell’umanità dovesse terminare con la coppia di esplosioni più potenti che fossero mai state indotte prima di allora. Hiroshima, Nagasaki: due nomi destinati a rimanere tristemente nella storia, già quando nell’agosto del 1945, sul concludersi della sanguinosa campagna del Pacifico, l’intero mondo si ritrovò improvvisamente, almeno in parte, giapponese. Furono in molti allora, persino tra i capi di stato induriti dai lunghi anni di sanguinose battaglie, a deprecare un tale duplice gesto, che dimostrava senza alcun dubbio residuo gli abissi della distruzione a cui poteva tendere l’ingegno travisato, sospinto innanzi dal bisogno di far tacere le bocche degli altrui cannoni. Ma soltanto quando furono rese pubbliche le testimonianze dei sopravvissuti, si giunse a comprendere la reale portata di una tale pirotecnica dimostrazione di forza: le ustioni, i cancri, la disgregazione degli organi… Con conseguenze fin troppo facili da intuire. Si stima che a seguito di quelle due fatidiche date, 6 e 9 agosto, sarebbero morte all’incirca 246.000 persone, di cui molte in modo orribile e inumano. E talmente shockante fu una tale presa di coscienza, così empatica la reazione dei potenti, che la decisione fu immediata ed unanime: l’unico modo per tenere il mondo al sicuro era…Costruire PIÙ bombe. Affinché ci fosse la certezza, per chiunque avesse nuovamente sfoderato quella spada, che ad ogni azione corrispondesse una reazione Uguale e Contraria, fino all’estinzione reciproca dei presupposti battaglieri. Su tali presupposti prese così l’origine, nel 1946, l’ufficio sovietico KB-11, dedito alla ricerca d’impieghi bellici per il fenomeno della fissione nucleare. RDS-1, 2, 3…Fino al 37: questi furono i codici operativi dati, tra gli anni ’40 e ’50, alla lunga serie di test effettuati con successo dal più grande paese comunista, culminanti con la detonazione del 30 ottobre 1961, della cosiddetta Bomba dello Zar, un gigantesco ordigno all’idrogeno da oltre 50 megatoni, il singolo strumento più potente mai costruito sul pianeta Terra. Fatto decollare dalla remota penisola di Kola, a bordo di un aereo che dovette rinunciare, per riuscire in qualche modo a contenerlo, a chiudere le porte della propria stiva, a ulteriore conferma della sua suprema inutilità. E che venne fatto cadere verso il suolo tramite l’impiego un paracadute ritardante, affinché non mietesse anche colui che era stato chiamato a sganciarlo in mezzo al nulla, per la maggiore gloria percepita della Madre Patria, il pilota Andrei Durnovtsev. L’esplosione fu così terribile che l’intero villaggio preventivamente evacquato di Severny, sito a 55 Km dal punto colpito, venne letteralmente raso al suolo, mentre anche a centinaia di chilometri, tetti furono divelti, porte scardinate, finestre facilmente infrante. Non che gli osservatori all’altra parte degli oceani, nel frattempo, fossero disposti a starsene da parte.
Fu un sentiero fatto di scoperte, progressivi balzi in avanti nel progresso della tecnica. Utilissime e complesse sperimentazioni. Benché apparve ben presto evidente che qualunque bomba atomica, non importa quanto piccola o grande, sarebbe bastata per dare fuoco alle polveri, costringendo alle temute ritorsioni di reciproco annientamento. L’unico modo per avere un maggior peso nei rapporti internazionali, dunque, diventava disporre di un vantaggio evidente nei propri presupposti distruttivi. Ovvero, bisognava togliere le bombe ai nemici. Si, ma come? La risposta fu tanto semplice da poter apparire, dal nostro punto di vista ormai remoto, quasi infantile: trovarsi d’accordo per iscritto. Il “Trattato sulla messa al bando parziale dei test” [nucleari, ovviamente] venne stipulato a Mosca nel 1963, poiché trovava almeno in linea di principio, il suo principale promotore e sostenitore proprio nel premier Nikita Chruščёv, gli storici ipotizzano, per prendere tempo e raggiungere il nemico americano, a quei tempi sensibilmente più avanti sul sentiero della ricerca e sviluppo. Entrambe le superpotenze presenti al summit, tuttavia, si trovarono d’accordo in un fatto estremamente rilevante: che qualsiasi commissione di supervisione internazionale, o reciproca ispezione, sarebbe stata terreno fertile per lo spionaggio, e che dunque i rispettivi dipartimenti tecnici dovessero regolarsi autonomamente sulla base della propria coscienza. Non è magnifico, tutto ciò? Se non altro, ciò fu utile a spostare i siti dei test in luoghi sotterranei, salvando le comunità periferiche dei due paesi, che a più riprese erano state colpite da venti carichi di particelle mortifere, quando non proprio dall’onda d’urto delle bombe di prove, come nel caso già citato della Bomba Zar.

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