Dal piccolo oblò della camera centrale scruto l’alba, osservando lo scorrere del tempo sul fondamentale orologio meccanico installato in prossimità della scala. Tutto intorno a me è metallo, e con rigidità dettata da una scuola di pensiero ormai facente parte della nostra vita, faccio un cenno al mio assistente, unico altro membro di questo equipaggio solitario. Uno scalino dopo l’altro, quietamente, salgo fino alla sala della lanterna superiore, coi tre erker o abbaini sporgenti, ciascuno accessibile mediante una singola porta da tenere rigorosamente chiusa onde prevenire “contaminazione” del segnale luminoso centrale. Aziono una leva, tiro una catena; sferragliando, il complicato sistema di paratie apribili noto come Otterblende vira in senso antiorario di 25 gradi. Ora il mio compagno d’isolamento accede alla saletta che volge a settentrione, per aumentare la componente vermiglia del fascio di luce principale. Un altro giorno di lavoro ha inizio. L’alterazione del segnale è necessaria per il cambio stagionale dei parametri di visibilità. Ma in un certo senso, dopo quasi tre mesi in questo eremo svettante, sembra servire a ricordare all’Universo che ci siamo ancora…
Fin dai tempi antichi, navigare a vista verso la foce del fiume Weser, fino alla prospera città portuale di Bremerhaven, comportava per le imbarcazioni un rischio non indifferente di naufragio. Ciò per la conformazione dei fondali in essere, in un sistema di pericolose secche note col profetico toponimo di Roter Sand: le sabbie rosse, costate la vita ad una quantità notevole di marinai. Situazione giudicata non più sostenibile verso la metà del XIX secolo, quando gli stati federali decisero di ancorare in tale luogo una serie di navi nei punti critici, strategicamente illuminate con potenti lampade che fossero visibili al traffico in arrivo e partenza. Ma ciò aveva, prevedibilmente, un costo proibitivo e si giunse presto alla necessaria conclusione che fosse opportuno collocare qui un qualche tipo di struttura permanente. Una torre del faro, in altri termini, che potesse rendere sicura la via.
Vederla oggi fa sempre una certa impressione. La struttura che si erge, ormai da un secolo e mezzo, direttamente in mezzo ai flutti del mare aperto, avendo costituito lungamente un simbolo paragonabile alla Statua della Libertà newyorchese: il punto di riferimento iconico, visibile per primo, quando ci si avvicinava alle desiderate coste di un intero continente. E l’ultima visione all’orizzonte, quando si puntava la prua verso territori distanti. Una colonna d’Ercole dei nostri tempi. Volutamente dipinto a strisce bianche e rosse sopra l’anello nero che affiora, ricordando la bandiera prussiana, il faro rastremato di Roter Sand misura complessivamente 52,5 metri, di cui soltanto 24,5 sono effettivamente visibili. Il che denuncia chiaramente la sua caratteristica più significativa di poggiare sul fondale stesso, analogamente a quanto avviene per le odierne pale eoliche a largo di molti paesi europei. Siamo qui di fronte, in altri termini, alla prima vera struttura offshore della storia. Considerate a questo punto, da un’angolazione ingegneristica, la complessità di costruire qualcosa di simile senza l’apporto delle più avveniristiche risorse tecnologiche dei nostri giorni. Invero l’opera in questione, all’epoca della sua prima progettazione nel 1878 per il tramite dell’ingegnere civile Carl Friedrich Hanckes, capo della direzione delle costruzioni portuali, avrebbe costituito uno dei miracoli del suo tempo. Richiedendo, tra le altre cose, un colata di molte tonnellate di cemento che poggiasse direttamente sulla nuda roccia, quasi 30 metri sotto le sabbiose distese che costituivano il fondale del Mare del Nord…
ottocento
Così costruimmo un’alta torre con i teschi dei nostri nemici. Ben presto, comprendemmo la portata del nostro errore…
L’orrore della guerra, per tutte le sue implicazioni materialistiche immanenti, è un ricordo che svanisce molto presto nella mente delle ulteriori generazioni, possibilmente accantonato in favore di concetti maggiormente utili all’organizzazione di uno stato semplice da amministrare. Forse per questo è tanto tipica la costruzione di monumenti, statue, memoriali in grado di attraversare intonsi le pesanti decadi, offrendo un punto di vista persistente sui sacrifici e le gesta dei nostri padri. Soltanto non succede, nella maggior parte dei casi, che sia stato il nemico a farlo! Come a Niš, città situata in quella che oggi potremmo definire la Serbia sud-occidentale, ove da oltre due secoli sorge, in una forma progressivamente rovinosa, il più notevole esempio di necropoli verticale al mondo. Da ogni aspetto pratico una torre, il cui scopo originale non era certo quello di onorare alcunché; fatta eccezione, se vogliamo, per l’autorità del sultano a Constantinopoli. Supremo dominatore, secondo il prospetto dell’Impero Ottomano, dell’intera parte orientale d’Europa incluso questo martoriato paese. Almeno fino ad un evento che nessuno, formalmente, avrebbe potuto prevedere. Benché fossero in molti ad averne percepito l’eventualità, quando finalmente il 15 dicembre del 1801, un gruppo di giannizzeri a Belgrado ritenne fosse giunta l’ora di dichiararsi indipendenti, cominciando dall’assassinio del proprio pascià e per buona misura, un certo numero di duchi e capi regionali di nazionalità Serba, che supervisionavano l’amministrazione del paese occupato. Fu sotto molti punti di vista, l’inizio della fine, con una serie di battaglie condotte dai locali sotto il comando di un abile comandante, l’ex-mercante di bestiame Đorđe Petrović, destinato a passare alla storia con il soprannome di Karađorđe. Colui che credeva, come l’Imperatore di Francia, al diritto del popolo all’indipendenza ma sotto una monarchia assoluta intitolata a lui soltanto. Il che non piacque alquanto prevedibilmente al sultano Mahmud II, che superato il lungo periodo della crisi politica e gli assassinii che l’avevano portato al potere, inviò nel 1809 il suo Pascià Hurshid Amed per sedare la persistente ribellione, alla testa di un’armata dalle molte migliaia di soldati armati di tutto punto. Ci furono diversi scontri, dunque, in cui gli abili comandanti serbi, conoscendo meglio territorio, prevalsero contro gli Ottomani: a Ivankovac e Misar, respingendo gli armigeri ostili fino al presidio fortificato di Čegar, presso quella che prende oggi il nome di città di Niš. Ma gli approvvigionamenti erano complicati, anche per le divisioni di vedute all’interno dell’esercito ribelle, tanto che mentre i circa 10.000 serbi assediavano i turchi all’interno della loro fortezza, questi ultimi ricevettero un rinforzo di 20.000 soldati dalla Rumelia. Immantinente i feroci combattimenti si spostarono sulle colline antistanti, ove un giovane e coraggioso comandante dell’odierna Svilajnac, già trionfatore delle prime fasi del conflitto, si trovò circondato con gli uomini della propria brigata all’interno di una trincea insanguinata. Frangente disperato nel quale, ben conoscendo le terribili torture e l’impalamento che la casa di Osman riservava ai suoi traditori, egli ebbe l’ispirazione d’impugnare la propria pistola. E pronunciando le salienti parole: “Salvatevi, fratelli, se potete e volete farlo. Chi resterà al mio fianco morirà!” Sparò contro un deposito di munizioni, causando una catastrofica e roboante detonazione.
I coraggiosi progettisti che non avrebbero affidato il compito di un cavallo a una locomotiva
Quattro fischi risuonarono all’unisono, sotto il cielo plumbeo di un ottobre carico di aspettativa. Quattro fischi e un singolo nitrito. Giacché alcuni credevano, non senza un certo spazio all’ottimismo, che proprio quest’ultimo avrebbe avuto l’opportunità di prevalere. D’altra parte negli esperimenti scientifici, il controllo è un elemento il cui compito è restare indipendente dagli effetti di una specifica serie di agenti o variabili soggetto di approfondimento. La sua inclusione permette di disporre di un riferimento da confrontare con il resto dei soggetti, assicurando la correttezza del risultato finale. In quel fatidico 6 ottobre 1829, il matematico ed inventore Thomas Shaw Brandreth di Liverpool premiato in precedenza dalla Royal Society non sembrava rendersi conto di essersi accaparrato tutte le caratteristiche non propriamente invidiabili di quel ruolo. Come partecipante a pieno titolo alle famose Prove di Rainhill, un concorso indetto dalle ferrovie inglesi su suggerimento del grande ingegnere vittoriano George Stephenson, al fine di determinare quale sarebbe stata la locomotiva degna di proiettare il Regno Unito nel nuovo secolo dei trasporti. Un dispositivo a vapore… Davvero? Va considerato, a tal proposito, come ci troviamo ancora in un’epoca in cui l’approccio funzionale a muovere grandi quantità di materiali o persone da un punto all’altro del paese non era stato chiaramente definito. Tanto che per il tratto tra Liverpool e Manchester era stata lungamente considerato, come soluzione, l’impiego di motori a vapore fissi con lunghe funi utilizzate per tirare i vagoni. E non tutti pensavano che l’impiego di un potente Meccanismo fosse la perfetta soluzione ad ogni problema. “Dopo tutto” affermavano i molti sostenitori di Brandreth e della sua idea: “Non è forse vero che il cavallo è stato per millenni il secondo miglior amico dell’uomo? Chi meglio di lui, potrebbe allontanare il faticoso cambiamento di una sferragliante Tecnologia…” Così dicevano e guardavano, con malcelato orgoglio, un oggetto tanto ingegnoso quanto surreale nel suo contesto. Da ogni punto di vista rilevante, una compatta carrozza ferroviaria, sul cui bancale aperto agli elementi campeggiava un pratico recinto quadrangolare. All’interno del quale, stava salendo in quel momento un ottimo esemplare equino con il chiaro atteggiamento di un destriero pronto alla sfida, posizionandosi sopra quello che potremmo definire in chiari termini la ragionevole approssimazione di un tapis roulant. Ecco perché pur non essendo all’ippodromo, era stato fatto capire al quadrupede che avrebbe dovuto presto esprimere tutta la sua considerevole potenza, trasmettendo l’impulso della corsa alle resistenti ruote interconnesse agli assi del rullo. Il fatto che difficilmente la spettacolare Cycloped, come era stata chiamata l’invenzione, avrebbe potuto battere anche la più lenta delle quattro locomotive schierate in quel frangente da alcuni dei più rinomati ingegneri d’Inghilterra, tuttavia, non sarebbe neppure entrato nel calcolo dell’equazione. Visto come ad alcuni chilometri dalla partenza, la superficie mobile del mezzo si sarebbe rotta, lasciando cadere rovinosamente il cavallo nell’intercapedine sottostante…
Il peso della corona di ferro e la sua valenza storica per la monarchia rumena
All’epoca il più giovane sovrano nella storia d’Europa, Michele I accedette al trono all’età di soli 5 anni quando il padre, il principe Carlo II, venne coinvolto in uno scandalo dovuto alla relazione controversa con Magda Lupescu, che lo costrinse ad abdicare. Ed il suo regno sarebbe stato probabilmente lungo e prospero a partire dal 1921, se non fossero intercorsi un paio d’importanti problemi: in primo luogo l’inefficacia del suo consiglio di reggenti, composto da suo zio Nicola e il Patriarca Miron Cristea, che portò il genitore a far ritorno a Bucharest dalla Svizzera per subentrargli per tutto il tempo della decade a partire dal 1930. E poi di nuovo nel 1947, dopo il periodo in cui la dittatura militare che si era sovrascritta alla monarchia rumena (ormai poco più che un simbolo) portò il paese ad allearsi con la Germania nazista, quando la rivoluzione comunista supportata dall’Unione Sovietica avrebbe portato all’abolizione della famiglia reale e la conseguente fuga in esilio dei suoi titolari sopravvissuti. Ciononostante figura tenuta in alta considerazione, in quanto discendente indiretto di uno dei più importanti personaggi della storia nazionale nonché membro della dinastia Hohenzollern-Sigmaringen, Michele I sarebbe in seguito stato accolto di nuovo dal suo popolo dopo la caduta di Nicolae Ceaușescu nel 1989, fino allo storico discorso tenuto il 25 ottobre del 2011 all’età di 90 anni. Sei anni dopo sarebbe infine deceduto, evento a seguito del quale gli venne fatto un funerale con tutti gli onori degni della carica che aveva un tempo ricevuto. Chiunque abbia dunque presenziato alla cerimonia, o l’abbia vista più probabilmente in televisione, ricorderà dunque un interessante manufatto collocato sopra il feretro del ex-monarca, scintillante nonostante l’assenza di materiali o pietre preziose. Una corona, chiaramente, ma di una foggia totalmente insolita ed inusitata: poiché questa fedele riproduzione della sola ed unica Coroana de Oțel, come lascia intendere il suo nome, era stata forgiata interamente da un metallo nominalmente vile. Nient’altro che ferro, laboriosamente lavorato in modo tale da imitare i fregi presenti nei tipici copricapi dei monarchi europei. E caso vuole che la storia di un simile oggetto risulti essere notevolmente interessante, in larga parte poiché rispecchia e permette di comprendere, in molte maniere, la storia della stessa Romania.
Per approfondirne l’origine tutto ciò che occorre fare, dunque, è riportare indietro l’orologio delle decadi fino all’ascesa di colui che la fece creare, scegliendola come l’allegoria dominante del suo concetto di potere e ciò che un signore supremo dovesse rappresentare, idealmente, per i suoi fedeli sudditi e sottoposti…