Provate a immaginare, per un attimo, la sensazione. Di una creatura che ha trascorso la sua intera esistenza nell’oscurità, pur non rinunciando agli occhi per poter individuare l’occasionale predatorie bioluminescente o gamberetto luminoso da fagocitare. Che si trova all’improvviso dentro un fascio di fotoni generato da un potente faro creato dall’uomo. Quello situato, per l’appunto, sul sottomarino compatto Limiting Factor, inviato ad esplorare la profondità della fossa oceanica del Giappone, parte dell’anello di fuoco responsabile di molte delle sue eruzioni e terremoti più devastanti. Non sarebbe almeno in parte ragionevole, per tale inimmaginabile presenza, provare l’istintiva sensazione di trovarsi al cospetto di una divinità? Specialmente quando la sonda estendibile, facente parte della dotazione tecnologica del mezzo, cominciasse a rilasciare una copiosa quantità di cibo, largamente superiore a quella normalmente rintracciabile in svariati mesi di perlustrazione a simili profondità. Pesce attento, piccola presenza, non più lunga di una decina di centimetri. Eppure in grado di riuscire a sopportare, per l’intero estendersi della sua esistenza, una pressione di 800 bar, paragonabile al peso di svariate migliaia di elefanti. Questo grazie, chiaramente, alla natura non del tutto permeabile della sua pelle mucillaginosa, e l’alto contenuto di osmoliti nell’organismo. Sostanze in grado di garantire l’ottimale funzionamento di un organismo, persino in situazioni tanto estreme, garantendo al pesce lumaca (snailfish) la sopravvivenza. Già, ma che cos’è, esattamente, un pesce lumaca… Creatura della famiglia dei Liparidi, originariamente descritta scientificamente nel 1777 e che da quel momento avrebbe accolto, attraverso le lunghe decadi d’avvistamenti, grosso modo ogni tipologia di nuotatore “abissale” che nessuno fosse in grado d’inserire in specifiche categorie distinte. Anche in forza della tipica maniera in cui esseri creati per sopportare simili pressioni, erano inclini a deformarsi e diventare tutti uguali una volta esposti senza camera iperbarica alla vastità dell’atmosfera terrestre. Aggiungete a questo l’inerente fragilità di tale stirpe, incline a frantumarsi una volta intrappolata nelle reti o altri simili implementi di cattura, per comprendere la lunga confusione tassonomica che ha circondato i nostri amici del tutto incapaci di lamentarsi. Pur rappresentando, d’altra parte, uno dei pesci più studiati della zona hadopelagica, ad oltre 6 chilometri di profondità, in forza della sua presenza cosmopolita e relativa semplicità d’avvistamento. Come dimostrato ancora una volta nella spedizione dello scorso settembre a bordo della nave oceanografica DSSV Pressure Drop, culmine di un progetto decennale, organizzata da studiosi del laboratorio Minderoo dell’Australia Occidentale e l’Università di Tokyo, interessati a confermare determinate teorie in merito alla massima profondità abitabile da una creatura vertebrata. E che nel caso preso in considerazione, si sarebbero trovati con sommo senso di stupore al cospetto di non uno, bensì dozzine di tali auspicabili presenze, ad oltre 8.200 metri di profondità, superando qualsiasi altro record ittico mai registrato prima di quel momento. Una visione… Impressionante.
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Drone mostra che per navigare a vela l’elemento umano può essere del tutto facoltativo
L’integrazione di automatismi nei processi collegati alla navigazione umana è un utile sentiero già percorso da diverse decadi, sebbene l’utilizzo di un’imbarcazione a vela sembri inerentemente interconnesso all’intervento, continuativo e reiterato, di un vero equipaggio con ben chiari accorgimenti e procedure necessari a mantenere il proprio punto d’approdo al centro della rotta predefinita. Ciò che la tecnologia rende possibile, di questi tempi, è tuttavia non solo superare tali limiti procedurali, bensì creare la realtà tangibile di uno scafo connotato da avanzati presupposti di autonomia, al punto da poter decidere di sua totale iniziativa il come e il quando di ciascun preciso intervento su comandi finalizzato a una manovra, al di fuori di un generale obiettivo definito a priori da coloro che hanno dato inizio alla tratta stessa. Un Saildrone in altri termini, intelligente robot dell’oceano, costruito sulla base di precise cognizioni provenienti da un settore non del tutto pertinente. Come sarebbe lieto di raccontarci con chiaro entusiasmo lo stesso Richard Jenkins, ingegnere, pilota ed avventuriero responsabile di aver stabilito nel 2009 il record di velocità su terra di un veicolo a propulsione eolica, il suo yacht su ruote Greenbird, capace di raggiungere agevolmente i 202 Km/h.
Mezzo il cui profilo distintivo, costituito da una vela rigida più simile ad un’ala verticale, con tanto di coda direttamente importata dal mondo aeronautico, ricompare a pieno titolo nella sua flotta di natanti, costruita e immessa sul mercato a partire dal 2013, anno corrispondente al varo dell’SD 1, ovvero il capostipite di questo nuovo, rivoluzionario approccio all’idea. Che la startup californiana portatrice di quel nome fosse in grado di assolvere al principio di mettere in mare un qualcosa d’indipendente e in grado di assolvere ad un’ampia varietà di missioni. Potendo garantire, nel contempo, l’assoluta aderenza ad ogni presupposto di economia nel funzionamento e l’impatto ambientale del suo passaggio. Il che risulta del tutto conforme, piuttosto che un ostacolo da superare, nella congiunzione di fattori e caratteristiche inerenti del mezzo, in cui ogni minimo elemento collabora alla massima efficienza del suo utilizzo. Se così vogliamo definirlo, quando la cabina di comando è situata in tutta sicurezza sulle coste di un distante continente, al fine di raccogliere la ricca selezione di dati e rilevamenti provenienti dall’antenna satellitare facente parte del corredo di bordo. Questo perché il Saildrone, per sua esplicita missione programmatica, costituisce primariamente un vascello di tipologia oceanografica, ovvero finalizzato all’agevolazione di studiare approfonditamente le caratteristiche degli Oceani terrestri. Il che, dopo tutto, ha senso: se si dice che simili recessi della Terra sono ancora meno noti delle stelle cosmiche, da noi avvicinate già più volte tramite l’impiego di sonde autonome ed alimentate dall’inerzia e l’energia solare. Perché non cercare di trarre vantaggio, dunque, più o meno dallo stesso approccio a partire da un diverso tipo di (non-spazio) porti?