L’asse geomagnetico del pino che sinuosamente ambisce all’equatore terrestre

In un possibile universo alternativo in cui gli alberi potessero affondare le proprie radici nel gelido ghiaccio dell’Antartico, potendo in qualche modo trarne il necessario nutrimento, sussisterebbe un arbusto contrario ad ogni tipo di nozione pregressa in campo botanico: il tronco affusolato e rugoso, ben coperto dalle foglie triangolari a forma d’aghi spiraleggianti che s’intrecciano tra di loro. Una forma che partendo perpendicolare verso il cielo, come si confà ad ogni altro esponente di questa particolare categoria vegetale, ben presto compie un’elegante curva, deviando progressivamente in diagonale. Fino a ripiegarsi, assurdamente, a 90 gradi, avendo continuato la sua attività di crescita in maniera perpendicolare al suolo. Ora in questo scenario ipotetico e surreale, sarebbe lecito aspettarsi l’occorrenza di un qualche fenomeno rilevante, come forti raffiche di vento o l’intervento intenzionale di un animale. Persino, perché no, l’uomo. Ma se di Araucaria columnaris, il vetusto pennone noto nel linguaggio comune come pino colonna o pino di Cook (dal nome dell’esploratore stesso, non le isole) in quel posto assurdo ne crescessero a decine, tutti assieme o in diversi momenti successivi, questo loro aspetto ne costituirebbe un filo conduttore del tutto imprescindibile ed evidente. Costituendo una caratteristica congenita di queste piante, universalmente attrezzate dal proprio corredo genetico a sfidare il concetto basilare di “foresta”. Vi sono in effetti diverse teorie, tutte allo stesso modo valide e perciò inerentemente confutabili, in merito al meccanismo attraverso cui la pianta risulti incline ad (ahem!) inclinarsi. Pendendo non soltanto verso meridione come anche fatto da talune specie di palma del Nuovo Mondo (ad es. la Yucca brevifolia della California) al fine di massimizzare l’esposizione alla luce, ma anche e in modo particolarmente distintivo, nella direzione totalmente opposta qualora siano ancora situate agli antipodi, ovvero presso il continente da cui provenivano originariamente. Essendo nella fattispecie originarie delle isole della Nuova Caledonia, colonie francesi dal XIX secolo, situate 1.500 Km ad est dalla costa australiana. Il luogo presso cui secondo l’aneddoto maggiormente accreditato, James Cook ne aveva prelevato degli esemplari quasi cento anni prima, trasportandoli fino alle isole Hawaii, dove crebbero e continuarono a moltiplicarsi attraverso gli anni. Venendo conseguentemente trapiantate in molti altri diversi paesi del mondo, in forza delle loro qualità decorative assolutamente degne di nota. E permettendo a distanza di tempo, come confermato anche in uno studio del 2017 di Matt Ritter e colleghi, che non soltanto il pino colonnare punta normalmente “verso l’equatore”, un comportamento letteralmente ignoto in qualsivoglia altra tipologia d’albero, cespuglio o filo d’erba, bensì tende statisticamente a farlo in modo progressivamente più rilevante, tanto più si trova distante da quest’ultimo. Con una pendenza media di 8 gradi 55, superiore del doppio a quella della torre di Pisa. E casi limiti ancor più notevoli e rilevanti…

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Perché nella Nuova Caledonia i parrocchetti hanno le “corna”

L’acqua di un color turchese barbagliante, il sole che rimbalza sulle forme placide ondeggianti, di un oceano privo di confini apparenti. Oltre la prua del piccolo catamarano, innanzi ad una spiaggia chiara come l’alba, il profilo ben riconoscibile di un filare di araucaria, gli alberi simili a colonne o che ricordano i cipressi lungo un viale. Ma a spezzare la monotonia e la calma, finisce per manifestarsi un qualcosa di altrettanto verde, ma perfettamente contrastante per quanto concerne la livrea della sua testa nera e l’ornamento rosso intenso che la sovrasta. Sul finir del pomeriggio, in una tiepida vacanza estiva, un singolo volatile si staglia contro il cielo. Quindi, tre, quattro, tutti alla ricerca di un qualcosa che possa fornirgli secondo la loro metrica, svago, o nutrimento. Svago e nutrimento: questo guida l’ali dell’Eunymphicus cornutus, o il pappagallo cornuto dalla coppia di vistose propaggini sovra-nucali. Portatore di quel simbolo apparentemente acuminato, piuttosto comune in altri ambiti del mondo animale, cui corrisponde un ruolo di potere. Ma che serve soprattutto come arma per combattere, proteggendo il proprio diritto a esistere e riuscire a riprodursi in un’ambiente competitivo. Unicamente quando accompagnate, tali corna, da una massa sufficiente a far valere le proprie ragioni. Ed è poi soprattutto per questo, che una simile caratteristica nelle modalità che siamo soliti associargli, non può appartenere in alcun modo al mondo dei pennuti, dove il peso addizionale agirebbe come problematica zavorra, oltre a risultare totalmente inutile nel corso di un tipico combattimento aereo. Ecco perché la versione qui apprezzabile di un simile implemento, in quello che potremmo facilmente definire il pappagallo più raro e distintivo del Pacifico, assume qui la forma certamente atipica di un paio di penne, approssimazione del concetto di una cresta che non può mai essere abbassata lungo il collo dell’animale. E prima di procedere all’interno della nostra narrazione, sarà opportuno definire le precise dimensioni di questa sgargiante creatura, che in qualità di appartenente alla famiglia dei Psittaculidae o pappagalli d’Oceania dalla coda larga, raramente supera i 32 cm di lunghezza sia nel maschio che nella femmina, i quali risultano del resto alquanto indistinguibili l’uno dall’altro. Mentre s’inseguono, con fare irruento e imprevedibile, tra i limpidi recessi di uno degli ultimi arcipelaghi rimasti ragionevolmente incontaminati nel nostro mondo. Fino a posarsi, da solo o in compagnia, sopra un albero di lavanda o d’alchelengio, da cui cominciare a prelevare frutta con voracità instancabile, al punto che pochi di loro possono spogliare totalmente un albero. Per poi provvedere, svolazzando intorno all’aere, all’appropriata disseminazione dei suoi legnosi figli a venire. Un importante ruolo assolto dagli uccelli, categoria entro cui figura a pieno titolo la variopinta sagoma del pappagallo…

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Echi del fantasma crestato che abbaia nella giungla della Nuova Caledonia

Il passo simile a una danza, il lungo becco acuminato, la forma simile a quella di un pollo allungato fino a ben 55 cm di notevole presenza. Non particolarmente distintivo nelle sue caratteristiche almeno finché non si palesa sul sentiero la sagoma di un potenziale rivale nel controllo del territorio, suo simile dagli stessi riflessi bianchi e lievemente tendenti al blu. Nemico di fronte al quale si erge diventando il più alto possibile, aprendo le ali striate da un notevole disegno a righe bianche e nere… Poco prima d’indossare l’elmo gladiatorio incorporato, con le piume disposte nella feroce cresta tipica dei più temuti guerrieri!
Kagu è l’uccello nato per dimostrarci come le complesse categorie create dalla scienza dell’uomo non abbiano alcun significato nel flusso indistinto della natura. Kagu non è un pappagallo, non è un rallide, non è un fasianide e neppure un gruiforme, sebbene per lungo tempo fosse stato inserito erroneamente in quest’ultima categoria. Finché un’analisi più approfondita, basata sulle sue caratteristiche genetiche, non ha permesso d’individuare il suo unico parente nell’improbabilmente remoto tarabuso del sole (Eurypyga helias) che vive in territorio sudamericano. Il che costtiuisce senz’ombra di dubbio le radici di un problema dal punto di vista geografico, visto come il nostro grigiastro Rhynochetos jubatus viva, di suo conto, nella grande isola situata ad Occidente del continente australiano, la titolare Nuova Caledonia. Con un nome composto da rhis + chetos, parole che significano rispettivamente in greco “naso” e “corno” seguite del termine latino riferito all’alta cresta simile a quella di un cacatua. Per questi uccelli dalle grosse zampe che non sono certo migratori e precorrono la colonizzazione umana, stroncando sul nascere l’ipotesi che un qualche tipo di propagazione o contaminazione genetica possano essere avvenute svariati secoli fa, causa trasporto a bordo d’imbarcazioni di provenienza polinesiana. Il che lascia la notevole spiegazione di trovarsi nei fatti dinnanzi a una creatura straordinariamente antica, probabilmente risalente all’epoca in cui i continenti avevano soltanto cominciato a separarsi, riuscendo ad occupare, col suo distante familiare, l’intera placca rocciosa nota come Gondwana, amalgama primordiale di Sudamerica, India, Medio Oriente, Antartide e Australia. Assai probabilmente ben prima che assumesse molti dei suoi tratti maggiormente distintivi, tra cui soprattutto l’incapacità di staccarsi da terra agitando le sue ali, che pur essendo sufficientemente grandi mancano al giorno d’oggi della muscolatura necessaria a sostenere il volo. Questo perché il kagu (o cagou) come sono soliti chiamarli i membri dell’etnia nativa dei Kanak, occupa un’ambiente rimasto privo di predatori per una buona parte dell’intera storia umana, almeno finché i primi coloni occidentali, per errore o intenzione, fecero sbarcare in queste terre cani, gatti e topi, rinomati distruttori d’ecosistemi. Non che l’unico rappresentante vivente della famiglia Rhynochetidae ed il genere Rhynochetos se la stesse passando particolarmente bene prima di quel momento, vista la caccia non propriamente sostenibile dei suoi esemplari adulti condotta dalle tribù indigene successivamente al progressivo popolamento dell’isola, con l’obiettivo di finire in pentola prima del termine della giornata, per un destino gramo che avrebbe in tempi non sospetti già condotto all’estinzione della sua specie cognata R. orarius o kagu di pianura, in media più grande del 15% rispetto all’uccello attuale. Eppure nonostante tutto, questa creatura definita in via informale “fantasma” per la colorazione delle sue piume continua faticosamente a sopravvivere, deponendo le sue massimo tre uova stagionali da cui alleva, nella maggior parte dei casi, un singolo pulcino. Il che non costituisce, di sicuro, l’aspetto maggiormente insolito e caratteristico della rissosa creatura…

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Registrata l’ultima frontiera della manta della Nuova Caledonia

Cosa fa di un pesce, quello che è? Le lunghe pinne cefaliche, simili a corna demoniache coadiuvate da una coppia d’ali grandi e triangolari. La bocca dalla forma ovale, quasi sempre spalancata per assimilare il plankton che viene trasportato dai grandi flussi del mare. La coda con l’aculeo in fondo, in grado di causare intense sofferenze per il veleno contenuto al suo interno. Di certo questo è un animale inusuale. Eppure tutti riconoscono, in maniera semplice nonché sommaria, la forma estremamente iconica delle grandi appartenenti al super-ordine dei Batoidea. Esseri che volano, metaforicamente o materialmente, soprattutto nel caso degli esemplari più piccoli che saltano sopra le onde, durante la loro migrazione che li porta fin dentro il golfo sul Pacifico del Mare di Cortez. Ma di esseri simili, come spesso succede per il funzionamento tassonomico degli ambienti marini, ve ne sono di simili a ogni possibile distanza planetaria, ivi inclusa l’area agli antipodi dei territori un tempo colonizzati dai francesi ad est del continente australiano. Nuova Caledonia (l’isola) intorno alla quale, come parte molto significativa di un vasto aerale, prospera la Mobula alfredi, manta della barriera corallina o seconda appartenente per le dimensioni a questa vasta aggregazione d’esseri, tanto simili e così distanti da ogni altra forma di vita dei loro ambienti. Essere recentemente ri-classificato con il suo nome direttamente prelevato da quello del figlio della regina Vittoria, assieme alla cugina maggiore Mobula birostris, all’interno della stessa famiglia delle ben più piccole M. Monkiana e Japonica del succitato ambiente californiano , dopo aver preso coscienza dell’effettiva somiglianza di particolari caratteristiche anatomiche e abitudini comportamentali. Fatto sta che il nostro svolazzante amico, con un’apertura alare di fino 5 metri ma un peso in grado di superare appena i 7-8 Kg, sembra preferire ai tentativi di spiccare letteralmente il volo presumibilmente impiegati dai suoi simili come parte di un complesso rituale d’accoppiamento, un diverso tipo di approccio esplorativo delle circostanze, finalizzato a un obiettivo totalmente differente: sopravvivere, nonostante i presupposti meno favorevoli di un tempo.
Prima di addentrarci ulteriormente nella questione, dunque, sarà opportuno osservare come questa specifica popolazione di mante appartenenti al Pacifico meridionale presenti un comportamento e caratteristiche diversi anche da quello della stessa specie in altre regioni geografiche, tra cui l’abitudine a formare gruppi di appena 10-12 individui, contro le letterali centinaia, se non migliaia d’individui normalmente facenti parte di un singolo gruppo di aggregazione e protezione reciproca dei predatori. Il che assieme ad altri tratti distintivi ha sempre lasciato perplessi gli scienziati, almeno fino all’ultimo studio pubblicato da Hugo Lassauce e colleghi entro il catalogo della Public Library of Science lo scorso marzo, frutto di un lungo lavoro di tracciamento portato a termine mediante l’impiego di dispositivi elettronici attaccati ai singoli esemplari. Il che ha permesso di scoprire, non senza legittimo stupore, le ripetute immersioni notturne di queste creature fino alla profondità di 672 metri, dove almeno in linea di principio, si pensava non potessero neppure aspirare ad arrivare. Il tutto non per un bisogno di scoperta ed avventura. Bensì le assolute ragioni, del tutto imprescindibili, della biologica necessità…

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