L’aggregazione delle civiltà nel Mondo Antico è sempre stata un catalizzatore per la costruzione di opere capaci di resistere al passaggio dei millenni. In parte come tappe di un costante viaggio tecnologico e creativo, nonché come strumento utile alla congiunzione delle spirito e la mente, il raggiungimento di uno stato collettivo incline alla risoluzione dei grandi problemi dell’esistenza. D’altra parte “ciò che unisce”, popoli distanti nello spazio e nel tempo come gli Egiziani, i Cinesi, i Greci, i Romani, gli Aztechi… Forse non è altro che una condizione concettuale nota in campo psicologico come il pregiudizio di conferma: essi passarono alla Storia come grandi architetti, poiché tutto il resto è stato nel frattempo trasportato via, dall’incessante vento delle epoche intercorse. Un’affermazione in alcun caso vera, quanto quello di uno dei regni classici del deserto d’Arabia, nato attorno al III secolo a.C. da un gruppo di tribù beduine provenienti dallo Yemen, capaci di sopravvivere sotto il sole ardente, là dove nessun altro era capace d’individuare l’acqua. Da cui il termine in lingua akkada di nabatu, “brillare intensamente”, e il conseguente etnonimo di Nabatei, connesso a un regno con la capitale nell’odierno stato di Giordania. E non c’è forse maggior creatore di beni tangibili, di colui o coloro che conobbero la vita nomadica, prima di scegliere il sentiero esistenziale che risiede nella costruzione di grandi città. Particolarmente quando progressivamente quando in grado di arricchirsi, grazie al posizionamento strategico lungo un’importante linea di collegamento commerciale, la Via dell’Incenso che partiva dall’estremità della penisola dai molti beni predisposti all’esportazione. Luoghi come Petra, patrimonio dell’UNESCO fin dal 1985, celebre per le facciate delle tombe situate nelle rocce d’arenaria finemente scolpite dai generazioni d’artigiani sacri. Ma così come qualsiasi impero non può essere riassunto da un singolo luogo, circa 500 Km più a sud gli stessi Nabatei costruirono un sito paragonabile per antichità ed importanza, che oggi molti tendono purtroppo a dimenticare. Forse per la difficoltà di ottenere un visto turistico con la qualifica di visitarlo, essendo questo situato entro i confini dell’Arabia Saudita, dove in base ad un particolare brano del Corano viene giudicato maledetto e soltanto in epoca recente, branche del governo maggiormente progressiste stanno cominciando a favorirne l’approfondimento archeologico mediante l’impiego di mezzi contemporanei. Sto parlando di Hegra, da cui ogni traccia d’insediamenti precedenti è stata ormai da tempo immemore spazzata via. Tranne le incombenti presenze di maestose tombe, paragonabili per la loro magnificenza ai più imponenti beni artistici e culturali dell’umanità di un tempo. In verità abbastanza remote, da possedere quel fascino isolato che si attribuisce in modo stereotipico ai dintorni di massicci centri urbani, come le piramidi nella piana di Giza, che gettano la propria ombra su palazzi costruiti con cemento e vetro…
necropoli
Così costruimmo un’alta torre con i teschi dei nostri nemici. Ben presto, comprendemmo la portata del nostro errore…
L’orrore della guerra, per tutte le sue implicazioni materialistiche immanenti, è un ricordo che svanisce molto presto nella mente delle ulteriori generazioni, possibilmente accantonato in favore di concetti maggiormente utili all’organizzazione di uno stato semplice da amministrare. Forse per questo è tanto tipica la costruzione di monumenti, statue, memoriali in grado di attraversare intonsi le pesanti decadi, offrendo un punto di vista persistente sui sacrifici e le gesta dei nostri padri. Soltanto non succede, nella maggior parte dei casi, che sia stato il nemico a farlo! Come a Niš, città situata in quella che oggi potremmo definire la Serbia sud-occidentale, ove da oltre due secoli sorge, in una forma progressivamente rovinosa, il più notevole esempio di necropoli verticale al mondo. Da ogni aspetto pratico una torre, il cui scopo originale non era certo quello di onorare alcunché; fatta eccezione, se vogliamo, per l’autorità del sultano a Constantinopoli. Supremo dominatore, secondo il prospetto dell’Impero Ottomano, dell’intera parte orientale d’Europa incluso questo martoriato paese. Almeno fino ad un evento che nessuno, formalmente, avrebbe potuto prevedere. Benché fossero in molti ad averne percepito l’eventualità, quando finalmente il 15 dicembre del 1801, un gruppo di giannizzeri a Belgrado ritenne fosse giunta l’ora di dichiararsi indipendenti, cominciando dall’assassinio del proprio pascià e per buona misura, un certo numero di duchi e capi regionali di nazionalità Serba, che supervisionavano l’amministrazione del paese occupato. Fu sotto molti punti di vista, l’inizio della fine, con una serie di battaglie condotte dai locali sotto il comando di un abile comandante, l’ex-mercante di bestiame Đorđe Petrović, destinato a passare alla storia con il soprannome di Karađorđe. Colui che credeva, come l’Imperatore di Francia, al diritto del popolo all’indipendenza ma sotto una monarchia assoluta intitolata a lui soltanto. Il che non piacque alquanto prevedibilmente al sultano Mahmud II, che superato il lungo periodo della crisi politica e gli assassinii che l’avevano portato al potere, inviò nel 1809 il suo Pascià Hurshid Amed per sedare la persistente ribellione, alla testa di un’armata dalle molte migliaia di soldati armati di tutto punto. Ci furono diversi scontri, dunque, in cui gli abili comandanti serbi, conoscendo meglio territorio, prevalsero contro gli Ottomani: a Ivankovac e Misar, respingendo gli armigeri ostili fino al presidio fortificato di Čegar, presso quella che prende oggi il nome di città di Niš. Ma gli approvvigionamenti erano complicati, anche per le divisioni di vedute all’interno dell’esercito ribelle, tanto che mentre i circa 10.000 serbi assediavano i turchi all’interno della loro fortezza, questi ultimi ricevettero un rinforzo di 20.000 soldati dalla Rumelia. Immantinente i feroci combattimenti si spostarono sulle colline antistanti, ove un giovane e coraggioso comandante dell’odierna Svilajnac, già trionfatore delle prime fasi del conflitto, si trovò circondato con gli uomini della propria brigata all’interno di una trincea insanguinata. Frangente disperato nel quale, ben conoscendo le terribili torture e l’impalamento che la casa di Osman riservava ai suoi traditori, egli ebbe l’ispirazione d’impugnare la propria pistola. E pronunciando le salienti parole: “Salvatevi, fratelli, se potete e volete farlo. Chi resterà al mio fianco morirà!” Sparò contro un deposito di munizioni, causando una catastrofica e roboante detonazione.
Assos e il segreto dei sarcofagi che divoravano le spoglie mortali
Sarkos: carne + fàgos: divorare! L’utilizzo continuativo di un termine composito non può necessariamente sottintendere la comprensione istintiva della sua etimologia, specialmente quando esso proviene dal greco antico, una lingua più distante dai moderni idiomi di quanto possa dirsi quella degli antichi Romani. Pur trovando la sua principale giustificazione, dinnanzi agli occhi dei filologi e gli altri studiosi del linguaggio, da un particolare brano in latino facente parte dell’opera di Plinio il Vecchio, Naturalis historia. Nel cui ventisettesimo capitolo, egli fa menzione di un particolare materiale proveniente dalle cave della Troade, la penisola che costeggia lo stretto dei Dardanelli giungendo quindi ad affacciarsi sul Mar Egeo. Ove sorgeva un tempo una città splendente, fondata da coloni della vicina isola di Lesbo, che si erano trasferiti sulla terraferma tra l’XI ed il X secolo a.C. Soltanto per scoprire, ed in seguito trarre un significativo giovamento, dalle locali e profonde cave di steatite, pietra di origine vulcanica simile al basalto utilizzabile in un’ampia gamma di applicazioni. Di cui una, soprattutto, sarebbe stata destinata a rimanere negli annali: la costruzione di tombe, intese come scatole entro cui deporre le spoglie dei propri defunti, affinché le loro anime potessero essere liberate. Ciò di cui Plinio parla nel 77 d.C, riportando probabilmente una nozione facente parte del senso comune della sua epoca, relativa al modo in cui i suddetti sarcofagi sembravano in qualche maniera accelerare la decomposizione delle salme, trasformandole in scheletri completamente scarnificati entro un periodo di appena 40 giorni; contro le decadi, o persino secoli comunemente necessari al fine di raggiungere il coronamento di tale processo. Ma qual era, esattamente, la ragione di questo strano fenomeno e perché veniva giudicato desiderabile a quei tempi? Molte sono state le ricerche compiute in materia, negli estensivi scavi archeologici condotti presso questo sito diventato prosperoso in età Ellenistica beneficiando delle riforme effettuate sul finire del IV sec. da Ermia di Atarneo, schiavo eunuco al servizio di Eubulo, banchiere della Bitinia. Nonché allievo del celebre Platone, avendo ricevuto da lui un’educazione che l’avrebbe indotto a incoraggiare la venuta di studiosi e sapienti tra le proprie mura cittadina, inclusa la figura fondamentale di Aristotele, un suo vecchio compagno di studi. Il quale a sua volta, proprio ad Assos avrebbe fondato la sua prima scuola, essendo destinato ad annoverare tra i propri allievi Alessandro Magno in persona…