Uno dei principali punti di riferimento storici della città di Tokyo, frequentemente al centro delle cartoline e riprodotto in infiniti gadget, guide turistiche e memorabilia, è la torre Eiffel. Non in senso letterale, laddove la struttura costituisce essa stessa un’allusione, l’allegoria tangibile della necessità di avere un trampolino sopraelevato per le comunicazioni via radio. Unito al desiderio di un qualcosa che fosse al tempo stesso memorabile nella spezzata linea dello skyline cittadino. Bianca e rossa, e interessante nella forma, essa non mantenne tuttavia l’esclusività di essere la sola rilevante struttura paraboloide del Giappone per più di 18 anni. Quando qualcosa di simile, ed al tempo stesso drammaticamente diverso nel suo sghembo candore, sorse presso la località di Tondabayashi, un sobborgo periferico della grande città di Osaka. Metropoli da sempre contrapposte, tali due, nell’ideazione di uno stereotipo del centro urbano giapponese e le priorità delle rispettive amministrazioni contemporanee, ma mai poste drammaticamente agli estremi come nella specifica interpretazione di questa tipologia di strutture. Così come la TT risulta essere utilitaristica e ragionevolmente funzionale, si capisce già dal nome simile a una dichiarazione d’intenti che qui siamo d’innanzi ad un qualcosa di totalmente diverso: Chōshūha Bankoku Sensō Giseisha irei dai heiwa kinen tō (超宗派万国戦争犠牲者慰霊大平和祈念塔) Ovvero “Cenotafio a torre senza denominazioni per le vittime di guerra con lo scopo di pregare per la pace” che si dimostra per l’appunto essere un vero e proprio monumento, costruito da un’organizzazione privata, per lo scopo di aumentare la somma positiva del karma del mondo. E proprio in funzione di ciò, rispondente a crismi estetici del tutto privi di precedenti. Il misterioso committente in questione infatti, di cui non si parla quasi mai nelle guide turistiche o gli elenchi delle attrazioni locali, altri non sarebbe che il terzo capo ereditario di una singolare religione ispirata al Buddhismo Zen, dedicata al culto della vita come forma d’arte il cui nome è Perfect Liberty Kyōdan (教団) o il Culto della Pace Perfetta. Abbastanza coerente nella sua dichiarazione programmatica, e dotata di risorse finanziarie presumibilmente grazie all’elargizione dei propri membri, da acquistare negli anni ’70 uno spazioso lotto di terra nella rilevante località, accedendo alla prerogativa tipicamente nipponica di costruirvi sopra qualsiasi cosa possa passarti per la mente. Ovvero in questo caso, la trasposizione all’altezza di 180 metri di una particolare scultura in argilla intitolata “La verità è tutt’uno” creata dal secondo sommo sacerdote, Tokuchika Miki. Una creazione imponente, strutturalmente insolita e nell’opinione di alcuni vagamente simile ad un bizzarro termitaio poligonale, che sembra fare della propria irregolarità un punto di forza. Al punto da offrire un singolare punto di rottura con qualsiasi equilibro visuale dell’architettura contemporanea, in cui nulla tende ad essere un’allegoria, lasciando tale prospettiva d’intenti al mondo meramente confinante dell’arte senza uno scopo. Ma quale sarebbe il modo giusto di costruire un monumento, esattamente, quando l’obiettivo che persegui è commemorare le vittime di tutte le guerre?
luoghi di riferimento
La cerulea, circolare arte delle targhe commemorative sui palazzi d’Inghilterra
Come un macigno posto lungo il corso di un grande fiume, la memoria dell’uomo viene erosa dallo scorrere insistente delle decadi ed i secoli trascorsi, diventando progressivamente meno nitida ed approfondita nei dettagli delle vite trascorse. Intere vicende di persone che hanno frequentato i sentieri alterni della vita, lasciando impressa una testimonianza pratica dei loro trascorsi tra le moltitudini presenti e future: artisti, filosofi, uomini politici e simili membri di una società indivisa, in cui ci è sempre apparso come invito implicito ed inevitabile, la diretta associazione tra le loro gesta e i luoghi in cui hanno trascorso i loro giorni tra le schiere dei viventi. Dal che le innumerevoli testimonianze architettoniche, intese come iscrizioni, epigrafi ed epitaffi, riportati non soltanto lungo i viali ombrosi dei cimiteri, bensì innanzi agli occhi della principale concentrazione di persone, il tentacolare ambiente cittadino coi suoi plurimi e continui cambiamenti. Di muri, ed invero interi edifici, continuamente demoliti e sostituiti con altre di maggiore solidità strutturale, fatto salvo che la loro svettante presenza sia stata in qualche modo coinvolta nel complicato avvicendarsi di cause ed effetti che siamo abituati a definire Storia. Già, ma come distinguere questi ultimi dalle moltissime alternative, esteriormente identiche, che formano l’urbano labirinto delle circostanze? È qui che entra in gioco, per lo meno in un contesto geograficamente britannico, l’idea e l’intraprendenza del politico di fazione liberale William Ewart (1798-1869) che esattamente sei anni prima della sua dipartita ebbe l’idea d’istituzionalizzare, ed in qualche modo rendere immortale e imprescindibile, la sopra descritta tendenza totalmente implicita nella conservazione della labile memoria collettiva degli eventi. In senso lato, nulla di nuovo, eppur condotto con un’uniformità di metodologie ed intenti tali da essere effettivamente privo di precedenti. Tramite il coinvolgimento iniziale della Royal Society of Arts (RSA) per la creazione di una serie di targhe murarie riportanti il nome, qualifica e durata della vita di una certa serie d’insigni personaggi, da affiggere presso le case dove avevano vissuto la propria giovinezza, o altri luoghi ove avevano trascorso periodi particolarmente influenti della loro carriera. A partire dalla prima, in seguito andata perduta a causa di una demolizione poco accorta nel 1889, dedicata al poeta Lord Byron nel luogo della propria nascita 24 Holles Street, Cavendish Square. La più antica ancora esistente, atipicamente eretta quando il suo soggetto era ancora in vita, è invece quella del politico Napoleone III a King Street, St. James, nella residenza che si dice lasciò in tutta fretta nel momento in cui ricevette la notizia dell’abdicazione del re Louis-Philippe nel 1848. Questi primi segnali istituzionali, dunque, avevano alcune caratteristiche destinate a restare inscindibili dal concetto stesso del loro ambito, tra cui la forma perfettamente circolare plasmata da una mattonella encaustica, ovvero colorata senza l’uso di vernici bensì mediante l’impiego di diverse tipologie di ceramiche cotte allo stesso tempo. Negli anni successivi e mentre le targhe prodotte aumentavano vertiginosamente di numero, tuttavia, numerose variazioni sul tema sarebbero state sperimentate, con l’idea del tutto comprensibile di contenere i costi di produzione…