Così costruimmo un’alta torre con i teschi dei nostri nemici. Ben presto, comprendemmo la portata del nostro errore…

L’orrore della guerra, per tutte le sue implicazioni materialistiche immanenti, è un ricordo che svanisce molto presto nella mente delle ulteriori generazioni, possibilmente accantonato in favore di concetti maggiormente utili all’organizzazione di uno stato semplice da amministrare. Forse per questo è tanto tipica la costruzione di monumenti, statue, memoriali in grado di attraversare intonsi le pesanti decadi, offrendo un punto di vista persistente sui sacrifici e le gesta dei nostri padri. Soltanto non succede, nella maggior parte dei casi, che sia stato il nemico a farlo! Come a Niš, città situata in quella che oggi potremmo definire la Serbia sud-occidentale, ove da oltre due secoli sorge, in una forma progressivamente rovinosa, il più notevole esempio di necropoli verticale al mondo. Da ogni aspetto pratico una torre, il cui scopo originale non era certo quello di onorare alcunché; fatta eccezione, se vogliamo, per l’autorità del sultano a Constantinopoli. Supremo dominatore, secondo il prospetto dell’Impero Ottomano, dell’intera parte orientale d’Europa incluso questo martoriato paese. Almeno fino ad un evento che nessuno, formalmente, avrebbe potuto prevedere. Benché fossero in molti ad averne percepito l’eventualità, quando finalmente il 15 dicembre del 1801, un gruppo di giannizzeri a Belgrado ritenne fosse giunta l’ora di dichiararsi indipendenti, cominciando dall’assassinio del proprio pascià e per buona misura, un certo numero di duchi e capi regionali di nazionalità Serba, che supervisionavano l’amministrazione del paese occupato. Fu sotto molti punti di vista, l’inizio della fine, con una serie di battaglie condotte dai locali sotto il comando di un abile comandante, l’ex-mercante di bestiame Đorđe Petrović, destinato a passare alla storia con il soprannome di Karađorđe. Colui che credeva, come l’Imperatore di Francia, al diritto del popolo all’indipendenza ma sotto una monarchia assoluta intitolata a lui soltanto. Il che non piacque alquanto prevedibilmente al sultano Mahmud II, che superato il lungo periodo della crisi politica e gli assassinii che l’avevano portato al potere, inviò nel 1809 il suo Pascià Hurshid Amed per sedare la persistente ribellione, alla testa di un’armata dalle molte migliaia di soldati armati di tutto punto. Ci furono diversi scontri, dunque, in cui gli abili comandanti serbi, conoscendo meglio territorio, prevalsero contro gli Ottomani: a Ivankovac e Misar, respingendo gli armigeri ostili fino al presidio fortificato di Čegar, presso quella che prende oggi il nome di città di Niš. Ma gli approvvigionamenti erano complicati, anche per le divisioni di vedute all’interno dell’esercito ribelle, tanto che mentre i circa 10.000 serbi assediavano i turchi all’interno della loro fortezza, questi ultimi ricevettero un rinforzo di 20.000 soldati dalla Rumelia. Immantinente i feroci combattimenti si spostarono sulle colline antistanti, ove un giovane e coraggioso comandante dell’odierna Svilajnac, già trionfatore delle prime fasi del conflitto, si trovò circondato con gli uomini della propria brigata all’interno di una trincea insanguinata. Frangente disperato nel quale, ben conoscendo le terribili torture e l’impalamento che la casa di Osman riservava ai suoi traditori, egli ebbe l’ispirazione d’impugnare la propria pistola. E pronunciando le salienti parole: “Salvatevi, fratelli, se potete e volete farlo. Chi resterà al mio fianco morirà!” Sparò contro un deposito di munizioni, causando una catastrofica e roboante detonazione.

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Le controverse avventure di una donna e il suo scudo antisommossa per linci

Di sicuro chiunque avrebbe avuto l’impulso di fare il possibile per tentare di salvarlo. Da quel destino fin troppo crudele, di morire lentamente di stenti, mentre ogni speranza residua di riuscire a liberarsi scemava gradualmente fino all’esaurimento delle forze rimastogli per gentile (o spietata) concessione della natura. Ma quanti, in effetti, sarebbero intervenuti? Avvicinarsi ad un felino come questo, soprattutto se spaventato fino alla disperazione, comporta la rassegnazione ad un possibile destino di graffi, morsi e ferite, per non parlare delle inevitabili complicazioni che nascono dalle lesioni provocate da un animale selvatico, a cui si dovesse scegliere di andare incontro nel mezzo della natura più remota. A meno di disporre di una soluzione tecnologica, o strumento risolutivo, capace d’impedire ogni possibile conflitto prima ancora che possa raggiungere le più indesiderate conseguenze. Come un rettangolo di ferro di 50 cm per 1,50 m, con staffe per le mani da una parte e un’apposita indentatura nella parte inferiore, con la dimensione perfettamente calibrata al fine di farci passare dentro la zampa della lince, mentre ci s’industria per aprire lo strumento passivo di caccia che è alla base della sua tribolazione corrente. Semplice, banale, piccolo eroismo frutto di circostanze particolarmente sfortunate, oppure…?
Nell’odierna civiltà delle immagini è davvero molto facile balzare alle conclusioni, soprattutto quando si dispone di un pregresso repertorio in qualche modo simile, o potenzialmente rilevante alla questione virale del giorno. Vedi questo video proveniente dalle vaste foreste vergini del Wisconsin centrale, a non troppa distanza dai Grandi Laghi del settentrione statunitense, in cui si può osservare questa donna chiaramente coraggiosa, dotata di un attrezzo molto fuori dal comune, fare un qualcosa che siamo abituati dalla convenzione a giudicare d’impulso: “Skye Goode, la liberatrice delle linci cadute nel tranello dei cacciatori”. Un ulteriore capitolo, se vogliamo, dell’antologia ideale formata dagli operai che tirano fuori il serpente dal boiler della caldaia, i contadini che salvano il gatto caduto nel pozzo d’irrigazione, il meccanico che districa il gufo dalla griglia del radiatore… Ciascun caso un grande classico videografico di YouTube, replicato più più volte per il pubblico ludibrio e (almeno si presume) l’assoluto benessere comune delle specie non troppo raziocinanti di questo pianeta biologicamente fin troppo disparato. Solidarietà nei commenti… O almeno questo è quello che saremmo indotti ad aspettarci, finché non si nota come ogni tipo d’interazione è stato disattivato a monte dall’autrice. E lo spettatore inizia a chiedersi, in modo imprescindibile, cosa ci facesse questa donna nel bel mezzo della foresta, attrezzata con il suo strumento dal considerevole ingombro e peso, a meno che sapesse esattamente dove andare per trovare la trappola. Per non parlare del suo abbigliamento mimetico del tipo usato dai soldati al fronte di battaglia, oppur tutti coloro che: impersonando il ruolo che più d’ogni altro ha caratterizzato l’evoluzione e la civiltà dell’uomo delle origini, nonostante le costanti obiezioni dei tempi che corrono, continuano ostinatamente a percorrere il sentiero dei… Cacciatori. Ora apparirà fondamentale, per lo stereotipo corrente, soprattutto quello perpetrato dagli amanti degli animali che vivono in città e lontano dai territori più selvaggi di un continente come quello nordamericano, dove ancora gli orsi invadono il cortile delle villette a schiera, e i cani di piccola taglia vanno in giro con la pettorina aculeata per difendersi dal morso dei coyote, riportare l’esistente gerarchia d’efferatezza “presunta”; sequenza solo vagamente logica all’interno della quale, sotto gli arcieri e fucilieri dei tempi contemporanei, e poco sopra chi semina polpette avvelenate in mezzo a una radura senz’alcun tipo di criterio, troverebbero posto gli utilizzatori del più inumano e crudele metodo per raggiunger l’ideale soddisfazione del proprio ruolo: la trappola passiva, approssimazione anti-vita della mina lasciata da un antico conflitto, che colpisce senza pregiudizi e condanna le sue vittime a un destino assai gramo.
E sebbene argomentare in merito a una simile questione esuli dal contenuto di questo articolo, poiché si tratta di una faccenda complessa, delicata e polarizzante, troverei a questo punto valido analizzare le ingegnose modalità e artifici attraverso cui, al giorno d’oggi, è stato fatto da questa consumata operatrice tutto il possibile (forse, non ancora abbastanza?) per elevare l’intrappolamento d’animali dalla pervasiva e incondizionata condanna del senso comune…

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