Lo spavento presidenziale di fronte alla temibile creatura lagomorfa della palude

Campione dell’America democratica con un messaggio d’inclusione e rivalsa, dopo i lunghi anni della guerra del Vietnam e lo scandalo del Watergate, che definì entrambi degli errori nel suo discorso al giuramento sulla Costituzione, Jimmy Carter giunse alle porte della Casa Bianca con il fermo intento di proteggere un paese finalmente unito, economicamente solido e forse anche, per quanto possibile, ridurre il numero dei suoi nemici senza posa. Nei precisi quattro anni in cui rimase al potere tuttavia, prima di essere travolto dall’ondata di sostegni al carismatico Ronald Reagan, non mancarono accese critiche alle sue idee e scelte politiche, talvolta basate su di un filo logico, qualche altra, su improbabili e altrettanto insoliti catalizzatori. Nessuno dei quali, nella misura in cui fu registrato dalla storia, più della vicenda metaforica ed alquanto surreale del terribile “coniglio mannaro”, così chiamato per analogia col recente successo cinematografico dei Monthy Python e il Santo Graal, quando il 20 aprile del 1979 avvenne l’imponderabile e l’imbarcazione presidenziale, impiegata per una battuta di pesca presso la località di Plains in Georgia venne momentaneamente presa d’assedio da una creatura al tempo stesso familiare e spaventosa, di aspetto gradevole ma caratterizzata da un latente quanto innegabile senso di minaccia. Era un Sylvilagus aquaticus o coniglio dalla coda a batuffolo di palude, come avrebbe potuto facilmente identificarlo qualcuno di abituato a vivere all’aperto, sebbene la rapidità delle vigenti circostanze, unita all’esigenza di fare immediatamente qualcosa, avrebbe potuto infrangere la sicurezza di chicchessia. Ma non quella, si narra, del presidente Carter che, sollevando sopra la sua testa la pagaia della piccola barca a remi, la calò con forza nell’acqua, producendo un suono ed uno spostamento liquido fortunatamente sufficienti a scoraggiare la rabbiosa creatura. Il che sarebbe stato sia l’inizio che la fine della vicenda, se non fosse per la maniera in cui l’addetto stampa dello Studio Ovale, Jody Powell, narrò ingenuamente l’episodio ad alcuni giornalisti durante una serata a base di alcol generando un caso che sarebbe stato destinato a coinvolgere la nazione. “Come ha potuto il nostro presidente, rischiare di nuocere a una creatura protetta?” Seguito dall’ipotesi religiosa: “I valori cristiani dello schieramento democratico passano di nuovo in secondo piano, mentre un leader tanto di rilievo non si preoccupa di pagaiare un povero coniglio.” E chiaramente all’estremo opposto dello spettro, non mancò l’inclemente postulato: “Non ordinando alle sue guardie del corpo di sparare al coniglio, Jimmy Carter si è mostrato debole. Ciò ha causato ondate di instabilità mondiale ed indirettamente, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la crisi degli ostaggi in Iran.” Eventualità apparentemente poco probabile, ma che sarebbe stata almeno in apparenza corroborata da alcuni documenti in russo visionati dal celebre giornalista dell’epoca della guerra in Corea, Robert Novak. Spuntò fuori anche una fotografia del temibile aggressore, destinata ad ispirare una pletora di parodie che avrebbero smesso di essere prodotte soltanto a settimane di distanza, mentre riferimenti all’episodio continuano ancora ad essere una parte inscindibile della cultura popolare statunitense. Tanto che oggi si è ancora soliti affermare: “Chi si prende gioco di un coniglio, non è mai stato aggredito da un coniglio.”
E del resto, avevate mai sentito parlare di un leporide tanto a suo agio dentro l’acqua, da poter pensare di aggredire a nuoto un’imbarcazione? Se così non fosse, ve ne svelo subito la ragione: in qualità di silvilago del Nuovo Mondo, genìa in effetti ben più simile alle nostre lepri, l’essere protagonista di questa vicenda è caratterizzato da un’appartenenza esclusiva all’area nordamericana, dove costituisce una vista piuttosto comune in determinati stati ed il secondo lagomorfo più cacciato nello scenario contemporaneo. Con buona pace dei suoi molti, opportunisti cavalieri bianchi all’acquisizione transitoria di rilevanza politica, attraverso le alterne vicende di una Nazione…

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Lo sforzo pluriennale per salvare il coniglietto più grazioso degli Stati Uniti

Nelle antiche praterie del Northwest americano, dove il vento del Pacifico fa muovere i cespugli di artemisia producendo un suono che arricchisce le terse giornate della primavera, che cosa crea lo stato di diritto e di appartenenza? Forse il desiderio dell’agricoltore, che espandendo l’area ricoperta dalle sue coltivazioni, esprime il senso subitaneo del possesso e il suo diritto economico sulla natura. Oppure a tutti quei coyote, linci, coguari e lupi, che incuranti delle ultime propaggini delle tentacolari comunità umane, continuano a fare ciò che gli è sempre riuscito meglio: dare la caccia a qualsivoglia cosa sia abbastanza piccola, e indifesa, da poter costituire il pasto di un finire di giornata. Ma il vero spirito della distesa, se vogliamo, non dovrebbe appartenere proprio a coloro che senza le erbe, ed i cespugli, e la particolare composizione di un simile suolo, sarebbero ben presto destinati a scomparire… Quei minuscoli, morbidi e graziosi roditori, che al nome scientifico Brachylagus idahoensis preferiscono, probabilmente, il nome maggiormente accattivante di coniglio pigmeo nordamericano. Che non è “proprio” a rischio d’estinzione (dopo tutto, avete ben presente quanto simili animali siano bravi a riprodursi) benché una specifica popolazione, completamente isolata dal resto della specie sin dalla notte dei tempi, abbia sfiorato lo stato irrimediabile della non-esistenza, a seguito del periodo in cui si era ridotta a una trascurabile manciata d’esemplari. Certo, esistono animali che riescono a trovare il modo di adattarsi. Ed altri che semplicemente, non possono farlo, almeno senza l’assistenza di colui che è stato in grado di costituire l’origine, e la soluzione di ogni problema.
L’uomo, chi altri. Eppure sarà sorprendente apprenderlo, lo sforzo compiuto dall’inizio degli anni 2000 per tentare di salvare la sottospecie del coniglio pigmeo del bacino della Columbia, primariamente concentrato nella parte statunitense di quel territorio, rappresenta uno dei maggiori successi in termini di conservazione faunistica delle ultime generazioni. Spesso paragonato, e nei fatti capace d’includere soluzioni simili, a quello del panda gigante in Cina, ormai da tempo ritornato a illuminare i boschi di bambù dell’Asia con la sua riconoscibile livrea bianca e nera. Niente di paragonabile, s’intende, all’umile aspetto del suo lontanissimo collega nordamericano, di un color marrone uniforme e dimensioni che soltanto raramente superano i 30 cm di lunghezza e 500 grammi di peso (generalmente nella femmina, lievemente più grande) rendendolo essenzialmente questo batuffolo straordinariamente soffice e capace di entrare nel palmo di una mano. Fierezza contro grazia, possenza nel difendere i propri diritti con gli artigli d’orso, dinnanzi alla capacità di sobbalzare pochi centimetri alla volta, sino ai sicuri recessi della propria ragguardevole tana. Questo poiché il coniglietto pigmeo risulta essere, tra tutti i lagomorfi del Nuovo Mondo, una delle due uniche specie capaci di scavare la propria tana. Un adattamento probabilmente nato dall’assenza di adeguati architetti e successivi proprietari passati ad altro di possibili recessi sotterranei, dove crescere al sicuro i cuccioli e ritirarsi per la sera. Il che comporta alcuni impliciti vantaggi, come la possibilità di disporre di una vera e propria rete sotterranea per gli spostamenti, capace di coinvolgere sino a una decina di abitanti adulti. Utile a spostarsi tra le differenti aree di raccolta e immagazzinamento del cibo. Nonché funzionale a un fondamentale obiettivo, da queste parti: offrire scampo dai frequenti, e talvolta devastanti incendi che caratterizzano un così secco e sterminato bioma d’appartenenza…

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L’acuto richiamo del pika, guardiano della montagna

Esiste tra gli animali di piccole dimensioni, una particolare frequenza al di sopra della quale ogni verso inizia ad assomigliarsi: uccelli, mammiferi e rane, il cui gesto di affermazione dell’io si trasforma, all’orecchio di chi si trovi a coglierne l’essenza, in una sorta di trombetta più o meno modulata, le cui implicazioni possono essere di vari tipo. Richiamare una potenziale partner, spaventare i rivali, avvisare i propri simili dell’avvicinarsi di un predatore… Oppure nel caso di particolari specie, tutto questo e molto altro, nella rispettabile approssimazione di un vero e proprio linguaggio. E tra le foreste e i dirupi rocciosi del Nord America, così come le vaste praterie dell’Est e le steppe eurasiatiche, un tale suono riecheggia, carico dello stesso significato, nell’apparente riconferma di uno dei fondamenti della linguistica applicata agli animali: che le configurazioni possibili di un apparato fonatorio, dopo tutto, non sono moltissime, e il metodo espressivo di specie diverse non può che finire per assomigliarsi vicendevolmente. È soltanto con l’avvicinarsi alla fonte di un tale episodio, quindi, attraverso l’impiego di potenti obiettivi fotografici, binocoli da bird-watching o perché no, i propri stessi agili nonché lievi passi, che la corrispondenza inizia a rivelarsi per quello che è: il prodotto di una effettiva somiglianza esteriore, da parte degli esponenti di un genus pseudo-cosmopolita per cui soltanto la nostra Europa Occidentale, in effetti, resta un territorio distante e sconosciuto. Così come lui/loro, incidentalmente, continuano ad esserlo per noi: gli ochotonidi/Ochotoni dalle orecchie corte e la coda pressoché inesistente, con assoluta identità di famiglia e di genere, le cui 30 specie vengono collettivamente denominate “pika”, fornendo secondo una nozione largamente non confermata l’ispirazione segreta del nome di Pikachu, famosa mascotte del mondo dei videogiochi e cartoni animati. Laddove in effetti, il suo appellativo è stato dimostrato provenire dalle due parole giapponesi pika (ピカ ; scintilla) e chū (チュー ; onomatopea indicante il verso del topo).
E nessun pika, pur trattandosi di un roditore, può essere paragonato in tutta coscienza all’abitante prototipico delle nostre campagne o indesiderato ospite delle case, essendo loro degli appartenenti a pieno titolo dell’ordine dei lagomorfi, lo stesso di cui fanno parte lepri e conigli, onnivori piuttosto che vegetariani e benché prolifici, difficilmente inclini ad improntare delle vere e proprie invasioni. Soprattutto nella loro doppia accezione d’oltreoceano, le due specie Ochotona princeps (o piccolo capo coniglio) e Ochotona collaris, il cui stile di vita altamente territoriale prevede una sostanziale segregazione delle coppie in età riproduttiva con le loro piccole famigliole, nelle rispettive zone del talus (cumulo di pietre) sul versante di una montagna o collina sufficientemente elevata. I pika in effetti, contrariamente ai succitati orecchie-lunghe dalla caratteristica coda a pom-pom, sono animali dalla vita sedentaria e particolarmente poco adattabili, per cui sopravvivere al di sopra di un’apparentemente ragionevole temperatura di 25 gradi risulta impossibile dopo soltanto poche ore, essendo stati identificati in funzione di questo come dei letterali “termometri del riscaldamento globale”. Ecco perché nella mappa distributiva del proprio areale, rispettivamente statunitense e canadese, i simpatici batuffoli di pelo si presentano come abitanti di vere e proprie isole/bioma, situate tra la cima degli alberi e le alture prive di sufficienti fonti di cibo vegetale. Di tutt’altra natura è invece la situazione di molte specie asiatiche, come i pika del Gansu, Ladak Nubra e delle steppe kazhake (Ochotona pusilla) a cui una temperatura ambientale più bassa permette di occupare direttamente le pianure, dove l’abbondanza gli consente una convivenza non del tutto dissimile da quella di suricati o cani della prateria. Un contesto in cui la capacità di farsi sentire dai propri simili, nel momento in cui dovesse avvicinarsi un possibile predatore, diventa sinonimo e principale ragione della propria stessa continuativa sopravvivenza…

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