La piccola folla radunata presso la banchina del principale porto industriale della regione di Ostrobothnia non sembrava, per qualche ragione, particolarmente ottimista. Un moderno veliero di quel XVIII secolo, secolo di esplorazioni e progresso scientifico privo di precedenti, la Katanpää giaceva ormai presso la costa da un periodo eccessivamente lungo. Le vele ammainate, il fasciame opacizzato, lo scafo notoriamente, irreparabilmente, incrinato. Principale fonte d’introiti per la famiglia di mercanti e trasportatori di materie prime un tempo prospera, ma oggi priva delle risorse necessarie a farla tirare a secco per procedere alla riparazione. Almeno, fino ad ora: in un angolo dell’unica zona sgombra dalle moltitudini, presso una bitta di ormeggio solitaria, due individui sembravano impegnati ad assistere un’insolita trasformazione. Come l’opposto della metamorfosi di un lepidottero, il terzo addetto delle circostanze veniva fatto entrare all’interno di un ingombrante, mostruoso scafandro. Del colore di una groppa di vitello marrone, la testa appuntita e terminante in un lungo tubo anch’esso realizzato in cuoio impermeabile, tre finestre in corrispondenza di occhi e bocca. Le braccia comparativamente tozze ed in opposizione, un paio d’eleganti stivali che non avrebbero sfigurato per un cavallerizzo di epoca tardo-rinascimentale. “Non preoccuparti, presso avranno modo di ricredersi” Disse in quel momento il capitano Leufstadius con un tono carico di sottintesi, rivolgendosi al più giovane tra i coraggiosi marinai della sua ciurma, sottolineando l’esposizione con un gesto d’insolita magniloquenza. Verso l’unico disposto ad assecondare l’opportunità di rivoluzionare, dal profondo, le metodologie impiegate per procedere alla manutenzione di un battello di questa Era. D’un tratto, l’operazione preparatoria sembrò conclusa. Attorcigliando il lembo di chiusura impermeabile più volte attorno alla cintura, l’uomo nell’insolita corazza fece un gesto con la mano destra, a metà tra i pugno alzato ed un saluto beffardo rivolto alla folla. Quindi, ad un segnale del suo comandante visionario, si lanciò all’indietro oltre il ciglio del molo. Per qualche ora sarebbe scomparso, per ogni essere vivente tranne gli aiutanti del dio Nettuno. E ben presto, vari strumenti e materiali sarebbero stati fatti inabissare al suo fianco…
Ancora vivido, con la sua posa sghemba che parrebbe quasi evocare un vago senso di appartenenza, il Wanha herra (“Vecchio gentiluomo”) costituisce forse una delle eredità storiche più bizzarre, ed al tempo stesso significative del centro abitato da 23.000 anime di Raahe, sulla costa baltica di Suomi, il freddo paese celebre per i suoi mille e più laghi. Oltre ai meriti produttivi, soprattutto a partire dal tardo Medioevo, delle sue profonde miniere di ferro come quelle che sarebbero state alla base, per numerose generazioni, della costituzione di un processo d’esportazione profondamente funzionale. La vera efficienza tuttavia richiede l’invenzione di processi nuovi. E fu probabilmente a tal fine, che questo apparente antesignano del concetto di una tuta da palombaro nonché la più vicina, scenografica e probabilmente accidentale realizzazione di un antico progetto di Leonardo da Vinci, ebbe modalità e ragione di prendere forma…
immersioni
Pungente! Torna dal profondo un granchio dall’aspetto micidiale
Un oceano vario e diversificato, un abisso senza fondo e quasi totalmente privo d’illuminazione. Dove innumerevoli punti di vista virtuali, le finestre semoventi offerte dai ricercatori con le loro videocamere divulgative, mostrano abbaglianti esseri perduti nell’oscurità, creature inusitate dalla forma ed una vita particolarmente difficili da concepire. Qualche volta, inevitabilmente, gente compie l’errore perdonabile di ritornare sui propri passi. Nel vasto e inusitato spazio che è il Web. Così il titolo, fatto rimbalzare a gran voce: “Nuova specie scoperta nel Mar dei Caraibi! Siòri vènghino, a veder la belva tremebonda che somiglia a un mostro alieno da sconfiggere al completamento di un videogioco!” Omesso il nome, proporzioni, luogo esatto e circostanza dell’avvistamento in questione, perché poco conduttivi all’incremento delle interazioni del pubblico e conseguenti opportunità di guadagno (di consensi? Entrate pubblicitarie?). Oltre al “piccolo” dettaglio che l’intera sequenza d’immagini potrebbe o dovrebbe rappresentare nello schema generale delle cose un ritorno nostalgico ai bei tempi andati. In quanto una più attenta datazione avrebbe collocato l’esatta contingenza ad un periodo di otto anni fa, durante una delle spedizioni pregresse di quella che costituisce probabilmente al giorno d’oggi la singola nave da ricerca oceanografica più famosa al mondo. E c’è parecchio da condividere, per l’ennesima, nei commenti empatici del giovane equipaggio dell’EV Nautilus, di fronte al primo contatto con questa creatura qualche centinaio (o migliaio?) di metri sotto la superficie dello stretto di Anegada, un tratto di mare particolarmente burrascoso situato tra le Isole Vergini ed Anguilla famoso per i suoi vulcani sommersi ormai sopiti da tempo, tanto inviso ai marinai dell’era coloniale da esser stato soprannominato “Oh-my-god-a Passage”. Una forma rosea e spigolosa oltre ogni modo, con plurime ramificazioni sovrapposte dislocate alla maniera di un frattale. Ed otto zampe visibili, l’ultimo e quinto paio ben nascosto sotto il carapace che a una più puntuale analisi, si trova rivolto con il dorso in direzione dell’obiettivo del ROV (drone sottomarino) di turno. Dimostrando e dichiarando in fine al mondo di trovarsi nella fattispecie innanzi all’ennesimo risultato di qualche millennio di carcinizzazione, ovvero quel processo di convergenza evolutiva che conduce in modo inesorabile ciascun crostaceo ad assumere attraverso le generazioni la forma di un granchio. Il che non toglie, d’altra parte, l’opportunità di osservare stili e soluzioni particolarmente varie, inclusa la corazza dagli aculei strabilianti di questo animale rivelatosi all’epoca impossibile da catturare con i metodi convenzionali dell’aspiratore di esemplari a controllo remoto, e perciò classificato empiricamente come un probabile rappresentante del genere Neolithodes. Nient’altro che un granchio reale rosso, in altri termini, del tutto affine a quelli catturati in significative quantità da un industria della pesca largamente internazionale, famosa all’opinione pubblica per il tramite del reality televisivo Deadliest Catch. Sebbene neanche i più esperti protagonisti della serie sarebbero stati felici, di trovarsi a dover districare dalle reti una creatura dagli aculei dislocati in una così problematica maniera…
La tana del drago nell’occhio del Mar Cinese Meridionale
C’è una dose non indifferente di saggezza nel sapere popolare, che affondando le radici oltre i confini dell’antichità permette, molto spesso, di trovare una via d’accesso alternativa alla verità. Folklore, dicerie, discorsi tramandati, cognizioni come quelle che in un sito a largo delle isole di Paracelso, arcipelago situato tra il Vietnam e le Filippine, potesse sorgere il palazzo del Re Drago dei Mari Orientali, un Dio delle Tempeste portatore di tifoni ed altre immisurabili devastazioni ai danni dell’umanità. Ovvero il luogo dove Sun Wukong, l’importante personaggio letterario noto in Occidente come il Re delle Scimmie, al principio del suo viaggio più famoso si recò per prelevare l’arma micidiale del Ruyi Jingu Bang, un colossale pilastro dall’estremità dorata del peso di 7,960 Kg, capace di assumere la grandezza di un bastone quando veniva brandito o addirittura ridursi a quella di un’ago, per essere riposto dietro l’orecchio dell’indisciplinato eroe. Ma cosa c’era effettivamente, in questo particolare tratto di mare, da poter permettere una simile associazione d’idee? Nient’altro che un buco (azzurro) formato da processi preistorici e a dire il vero sufficientemente profondo, coi suoi 300,89 metri, da risultare il più significativo al mondo. Tecnicamente una dolina, in altri termini, benché probabilmente non formata da meri processi carsici, bensì l’ancestrale risultanza di una grande glaciazione, al termine della quale il cambiamento del livello delle acque e le temperature vigenti causarono un grande vuoto dalla forma approssimativamente conica, semplicemente troppo vasto per essere colmato dai sedimenti. Tra il dire e l’esplorare ad ogni modo, come avrebbero potuto confermare i tre compagni dell’epocale itinerario verso l’India compiuto da Sun Wukong alla ricerca dei sutra buddhisti, c’è di mezzo un’effettiva presa di coscienza del mondo accademico e l’accumulo di fondi sufficienti, poiché organizzare spedizioni verso il mondo degli abissi non è cosa facile, né in alcun modo alla portata di tutti. Il che permette di collocare un primo approfondimento alla questione soltanto a partire dalla metà degli anni 2010, quando una serie di studi sono stati pubblicati in rapida successione ad opera di enti oceanografici ed università cinesi, atti a documentare per la prima volta scientificamente il luogo destinato ad acquisire fama internazionale con il nome di Dragon Hole (let. Il Buco del Drago) o la dolina di Yongle (永樂) dal nome del terzo imperatore della dinastia Ming. Con la prima spedizione compiuta nell’agosto del 2015 ad opera dell’Istituto per Protezione dei Coralli mediante l’utilizzo di una particolare barca dal fondo piatto, ancorata in modo tale da restare stabile nel centro esatto del foro, mentre un sottomarino telecomandato Video Ray Pro 4 si occupava di fare quello che nessun altro, dopo il divino scimmiotto immortale, si era mai azzardato a fare: oltrepassare il punto divisorio dell’aloclino, dove l’acqua con una concentrazione salina differente manca di riuscire a mescolarsi con quella del mare circostante. Formando una barriera per l’ossigeno, i pesci ed ogni altra forma di vita tipica del Mar Cinese Meridionale…
L’improbabile campana da immersione che anticipò di quattro secoli lo studio delle Navi Romane
Nel 1926 una commissione costituita dal governo italiano, al comando dell’ingegner Corrado Ricci, affronta finalmente col criterio necessario la complessa faccenda. Al cospetto della quale per molti secoli, attraverso una serie di diversi approcci più o meno scientifici, generazioni successive di tecnici e archeologi avevano fallito miseramente: come riportare in superficie, finalmente, le due chiatte di epoca romana attribuite all’imperatore Caligola, da lungo tempo inabissate nelle acque del lago vulcanico di Nemi? Così vicine all’affollata capitale, che nei secoli tanto discusse e celebrate, che a più riprese erano state saccheggiate, danneggiate e parzialmente distrutte da maldestri tentativi di recupero, tra cui il sollevamento tramite galleggianti, gru portuali, semplice energia muscolare di persone ed animali. Finché non venne piuttosto deciso, in maniera molto semplice e diretta, di far defluire l’acqua dagli antichi canali d’irrigazione, lasciando che fosse la possanza gravitazionale del pianeta stesso ad occuparsi del resto. Ma se ci spostiamo con la mente lungo un tragitto ideale conduttivo fino a quel fatidico momento, attraverso i tanti cercatori che tentarono le auspicabili vette di gloria, sarà facile individuare come un punto di svolta quello in cui divenne finalmente chiara l’effettiva dimensione dei suddetti vascelli, misuranti esattamente 71×20 e 75×29 metri. Grazie all’impresa certamente coraggiosa, nonché stranamente avveniristica, di un celebre alpinista, militare e avventuriero italiano.
Francesco De Marchi, nato a Bologna nel 1504, aveva partecipato in prima persona alla battaglia di Pavia del 1525 e l’assedio di Firenze del 1529-30. Erudito autore di trattati, elaborò estensive di tecniche di fortificazione oltre che di filosofia e scienze naturali, approfondendo il concetto d’eruzione vulcanica e visitando direttamente svariate grotte e molte vette montuose d’Italia. Molto prima di raggiungere per primo la cima del Gran Sasso per la cosiddetta Via Normale nel 1573, il suo interesse sembrò dirigersi per breve tempo nei confronti del grande mistero laziale, portandolo ad avventurarsi negli abissi tramite l’applicazione di un’innovativa, quanto rischiosa tecnologia. L’impresa costituisce uno di quei corollari a un fatto storico di rilievo, normalmente menzionati in poche righe senza significativi spunti d’approfondimento negli articoli e le trattazioni di rito. Eppure se vogliamo prendere alla lettera il suo resoconto, descritto estensivamente nell’opera “Dieci libri sull’architettura civile”, l’effettiva metodologia impiegata sarebbe risultata in significativo anticipo sul progresso largamente noto di quel genere di tecnologia, che vede la prima campana d’immersione in senso moderno come un prodotto dell’astronomo Edmund Halley (quello della cometa) nel 1714. Questione da trattare rigorosamente col condizionale, s’intende, poiché il De Marchi racconta espressamente di aver giurato all’inventore del dispositivo in questione, un certo Guglielmo di Lorena che partecipò anch’egli all’impresa, l’assoluta segretezza nei confronti dei contemporanei e posteri futuri. Benché dal contesto e dalla situazione in essere, oltre ad un curioso aneddoto collaterale, sia possibile intuire almeno in parte l’effettiva natura della verità…