Le operazioni procedono secondo il programma. Un passo alla volta, un minuto dopo l’altro, la colorata narrowboat (imbarcazione “stretta”) avanza nel sentiero lungo del canale. La campagna scorre al ritmo di cadenzato di una scenografia teatrale. Mentre sulla destra il suo motore, clop, clop, clop. Un uomo lo conduce, senza drammi, né fatica, usando la carota e qualche volta una frustata. Non sul dorso del grosso cavallo da tiro, s’intende, bensì al terra per portarlo momentaneamente a trasalire. Idealmente… Fermarsi. Ma persino questo, è relativamente raro! Giacché arrestare l’implemento, di una tale soluzione utile al trasporto di persone o cose, è un’operazione dispendiosa in termini di tempo, energie, voglia di collaborare nell’empatico, talvolta recalcitrante cervello equino. Ecco perché attraverso le prime tre decadi della canal mania durata quasi due secoli, quel periodo storico in cui l’Inghilterra creò la prima rete al mondo di sentieri acquatici attraverso il territorio di una nazione, c’era una contingenza particolarmente rara & sconveniente. Quel momento cupamente necessario, in cui un sentiero lungo-fiume si trovava ad interrompersi d’un tratto. Ed il cavallo doveva, necessariamente, Passare dall’Altra Parte. Clop, clop, stop. Allora slega il tiro, fai fermare quella barca. Spingi il proprietario degli zoccoli sopra il corto ponte e quindi fallo scendere dall’altro lato. Tutto questo mentre tendi a interrogarti: possibile che non esista un metodo per semplificare le cose?
Il modo chiaramente c’era e viene in genere attribuito all’ingegnere della prima Rivoluzione Industriale Rennie the Elder, i cui disegni trovarono l’applicazione per il tramite di John Fletcher nel 1792 presso il canale di Lancaster verso la città mercato di Kendal, in Cumbria. Ma non è impossibile che già i Romani, utilizzatori di muli per il traino d’imbarcazioni lungo i fiumi naturali della Britannia, avessero concepito ed impiegato qualcosa di simile entro i suoi confini ed oltre. Da ogni punto di vista meramente pratico, un tipo di ponte. Eppur fornito di un’espediente tanto semplice quanto efficace nel raggiungimento del nesso operativo al nocciolo dell’intera faccenda. Un attraversamento del serpente, come viene talvolta chiamato, ma anche changeline o roving bridge, si compone dunque di una coppia di rampe ai due distinti lati, una spiraleggiante e l’altra parallela al canale, che il quadrupede trainante sperimenta come una mera deviazione del suo tipico sentiero obbligato. Per poi trovarsi, senza interruzioni o deviazioni di sorta, nella stessa direzione di marcia e all’altro lato del punto di passaggio che oltrepassa il natante. Benedetta, ingegnosa asimmetria che serve alla logistica dei casi persistenti…
imbarcazioni
Un ufo alla deriva e la difficile missione per stimare il tempo di estinzione del Polo Nord
Spiacevole ma significativo si sarebbe rivelato il fato degli equipaggi della Erebus e la Terror, le due navi partite nel 1845 dall’Inghilterra, nella ricerca del leggendario passaggio a nordovest che avrebbe eliminato la necessità tanto frequente di circumnavigare il globo. Quando in agosto di quell’anno i rispettivi capitani, certi di poter varcare la baia di Baffin, rimasero bloccati in mezzo ai ghiacci. Trovandosi a dover abbandonare i rispettivi scafi, intraprendendo un viaggio a piedi destinato a culminare con il proprio annientamento tra i ghiacci dell’estremo settentrione terrestre. E non si può fare a meno di tornare con la mente, almeno in parte, a quel drammatico inizio della storia delle esplorazioni polari, quando si apprende il progetto intrapreso ormai da oltre mezza decade ad opera della fondazione francese Tara, tra gli ultimi “guardiani dell’oceano” che riescono a ottenere fondi dalle commissioni per il clima nazionale ed europea. Un’evoluzione, se vogliamo, dei viaggi ad alto rischio già compiuti nel 2004 e nel 2006 oltre la linea del 66° parallelo, dove gli alberi smettono di crescere, a bordo dell’eponimo schooner varato nel 1987 dal grande marinaio Sir Peter Blake. Grazie ad un’imbarcazione progettata dallo stesso architetto navale, Olivier Petit, ma in base a crismi totalmente diversi. Via lo scafo col profilo di un nocciolo di oliva, verso l’adozione di una forma ellissoide che assomiglia vagamente al cerchio di una stereotipica nave spaziale. Sormontata da una cupola geodetica, con significative strategie d’isolamento termico per l’equipaggio di 18 persone contenute all’interno. Questo per l’idea alla base dell’effettivo impiego futuro di tale implemento, ispirato a una tipologia di tradizionali, ed ormai quasi secolari missioni organizzate dagli scienziati russi; allorché come l’originale Papanin del 1937, e come la recente Severny Polyus, la nuova stazione polare francese impiegherà il proprio motore e 130 metri cubi di diesel prodotto sostenibilmente al fine di raggiungere i confini della compatta calotta glaciale artica. Incagliandosi intenzionalmente, non al fine di procedere, bensì trascorrere fino a 18 mesi in tali condizioni estreme trasportata dalle correnti oceaniche, senza la possibilità di ricevere rifornimenti e con temperature in grado di oscillare tra i 30 e 50 gradi sotto lo zero. Un’opportunità unica, e altrettanto rischiosa, di approfondire in modo straordinario le regole di un tale ecosistema, facendo il possibile per individuare un modo utile a fermare l’attuale processo di deriva climatica. Che potrebbe trasformare tutto questo, entro pochissime generazioni, in un ricordo lontano…
Ritrovato dopo 80 anni il relitto del cacciatorpediniere che cambiò bandiera due volte
Prove pratiche dell’eccezionale immensità del mare: ogni spiaggia è differente, c’è sempre un pesce più grande, le migrazioni della procellaria difficilmente riescono ad anticipare il ciclo delle stagioni. E lo storico vascello della seconda guerra mondiale USS Stewart (DD-224) almeno fino all’altro giorno, non era stato ancora ritrovato. Stiamo parlando per inciso di uno scafo d’importanza storica innegabile, lungamente ambìto dai ricercatori come valida testimonianza del singolo conflitto più importante della storia umana, affondato di proposito, mediante l’uso di aeroplani e bombe americane, al termine di quella che fu giudicata la sua vita utile secondo i crismi ritenuti necessari dallo Zio Sam. Un cacciatorpediniere di classe Clemson costruito a Philadelphia lungo 95 metri, per inciso, e del peso complessivo di 1.234 tonnellate. Quindi non propriamente un soprammobile, nonostante quello che si potrebbe tendere a pensare sulla base dei presupposti. Creato in base alla necessità, ormai lungamente acclarata verso la metà del secolo passato, di poter difendere una flotta da minacce più agili e sfuggenti, come imbarcazioni siluranti, aeroplani e naturalmente, i temuti sottomarini della Marina Imperiale Giapponese. Punto di svolta fondamentale nella sua vicenda operativa, in effetti, sarebbe stata proprio la missione consistente nell’invio in Asia Orientale come parte di un corpo di spedizione nel 1922, per l’inizio di una missione che all’insaputa del suo stesso equipaggio, sarebbe durata i successivi 23 anni. Molti dei quali trascorsi senza eventi particolarmente degni di nota, tranne qualche piccolo incidente di manovra e l’opportunità di fornire aiuti ai colpiti dal grave terremoto del Kantō, facendo per la prima volta conoscenza con quel popolo dei Giapponesi che sarebbero stati, al tempo stesso la sua condanna, e la salvezza del suo destino. Come conseguenza del frangente in cui, dopo l’attacco a sorpresa di Pearl Harbor del 7 dicembre del 1941, assieme a molte altre navi di stanza nella regione la DD-224/Stewart venne integrata nel comando ABDA (American-British-Dutch-Australian) con il compito di resistere, e per quanto possibile arginare la minaccia nipponica nei confronti degli interessi occidentali nel grande Oriente. Il che avrebbe presto portato a due importanti battaglie, mirate a ritardare i movimenti di conquista del nemico, cui questa solida risorsa nautica avrebbe ricevuto il compito di prendere parte: quella fallimentare, non disastrosa, per il passaggio di Macassar verso l’asset strategico che allora chiamavano “muraglia malese”, del 30 gennaio 1942. E la sonora sconfitta subita nello stretto di Badung, punto di volta nelle operazioni delle Indie Orientali, culminante con l’affondamento dell’incrociatore di comando e conseguente dipartita dell’ammiraglio olandese Karel Doorman. Nonché il serio danneggiamento del cacciatorpediniere Clemson a causa della migliore abilità dei giapponesi nelle operazioni notturne, che imbarcando acqua venne ricondotta a mala pena fino al bacino di carenaggio nel porto di Surabaya. Dove per un errore logistico, rovinò su un fianco venendo ulteriormente danneggiata, poi fu colpita da una bomba nemica. E poco prima che gli Americani si ritirassero da quel luogo diventato indifendibile dopo gli eventi tra il 19 e 20 febbraio, fu intenzionalmente affondata mediante l’uso di cariche esplosive. Fine della storia? Non proprio…
L’impresa della gru ed il viaggio mistico di 10.000 tonnellate sopra i mari
Sale, sale verso il cielo il carico impossibile, che sfida l’inumana percezione della massa come implicita derivazione della spettacolarità. Obiettivi di registrazione ed occhi spalancati fissano con energia magnetica il mostruoso vascello, recentemente fuoriuscito dai cantieri coreani di Yeongam ed attualmente impegnato a sovvertire la collocazione generalizzata di un qualcosa di praticamente altrettanto grande. È la primavera del 2015 e nulla, in questo specifico settore, sarà mai più lo stesso di prima.
Costituisce d’altro canto una comune pratica, lungo il passaggio plurimo e del tutto progressivo dei secoli occorsi, la questione in base a cui il sollevamento delle cose tende a costituire il nesso imprescindibile dell’operato umano. Un’approccio sempre valido a cambiare le cose: poiché una volta che i pesanti componenti sono stati sovrapposti, l’uno a ridosso dell’altro, correttamente conseguenti dal bisogno torreggiante di creare “qualcosa”… Non è forse allora che il coronamento di un progetto può davvero dirsi pienamente realizzato? Espletato a beneficio delle correnti, e successive generazioni del vasto mondo. Ma ci sono gradi differenti di difficoltà, persino in questo e non c’è dubbio in merito alla successiva questione: il più elevato (in senso metaforico) è riuscire ad elevare (in senso pratico) gli oggetti che hanno un utilizzo nel campo del galleggiamento con precisi obiettivi navali. Vasti scafi o addirittura interi piani preventivamente fabbricati, componenti delle semi-sommergibili che siamo soliti chiamare “piattaforme petrolifere” dei mari. Poiché se il porto può disporre delle straordinariamente utili gru a portale (gantry crane in lingua inglese) i cui pilastri e l’architrave sono soliti spostarsi grazie ad assemblaggi di ruote, cingoli o binari, ciò non può sempre risolvere il problema del caso fondamentale. Giacché può capitare, in molti e alternativi casi, che la cosa da spostare debba sovrapporsi dalla parte alternativa a quella della terraferma; ovvero sopra una struttura, essa stessa e di per se stessa, già posizionata tra le onde dell’oceano incostante. Eppure l’acqua e incomprimibile e il dislocamento una fondamentale legge di natura. Dunque perché mai dovremmo farci remore, nel proposito fondamentale di posizionare il dispositivo di sollevamento… In mare. Come fatto già da tempo e anche dalla divisione logistica delle Hyundai Heavy Industries (HHI) gigante coreano del settore, grazie al tipico sistema della gru rotante sopra vari tipi di vascelli. Che però ha da sempre posseduto un certo grado di ridondanza. Poiché nulla gira meglio su se stesso, di ciò che stato attrezzato con potenti eliche navali in contrapposizione. Ovvero gli strumenti principe dell’imponente gru a braccio inflessibile o in termini anglofoni, la floating sheerleg…