Palazzi enormi: il Pentagono battuto dall’ufficio nella patria indiana dei diamanti

Concetto al centro della principale opera speculativa dell’architetto Frank Lloyd Wright del 1939 “An Organic Architecture”, sconfinante nella letteratura di genere, sarebbe stato quello della cosiddetta città usoniana. Un edificio tentacolare ed omni-comprensivo governato da una singola famiglia, interconnesso ad altri simili nel vasto territorio degli Stati Uniti. Ciascuno del tutto autosufficiente e dotato, al suo interno, di centrali elettriche, abitazioni, luoghi di lavoro della più diversa natura. Soltanto nel 1969 sarebbe stato coniato dunque, dal suo collega italiano Paolo Soleri, il termine di arcologia per lo stesso concetto di fondo, un tipo di super-palazzo destinato a diventare la nuova unità minima dell’organizzazione abitativa umana. Ma la sfumatura che dal punto di vista teorico sembrò passare in secondo piano, nell’opera di entrambi i grandi pensatori della loro epoca, è che l’uomo ha bisogno di esprimere la propria individualità nelle ore in cui si trova libero di coltivare i propri interessi. Necessità che tende a passare in secondo piano, ogni qual volta imbocca l’uscio per andare a svolgere mansioni utili all’interno di un qualche tipo d’organizzazione professionale. E caso vuole che più influente, o prestigiosa sia quest’ultima, maggiormente appare ragionevole permettere ai suoi uffici di modificare ed integrare le proporzioni del paesaggio stesso. America, la grande, ha per questo tratto lungamente una pacifica soddisfazione trasversale nell’istituzione fuori scala del proprio Dipartimento di Difesa, all’indirizzo 1400 Pentagon degli immediati dintorni di Washington D.C. 600.000 metri quadri di corridoi e stanze, ciascuna dedicata allo svolgimento di una diversa misteriosa attività egualmente utile, ci dicono, a preservare lo status quo geopolitico dell’epoca presente. Ma quello che per gli U.S.A. è il proprio esercito, in altri luoghi può essere individuato nel commercio, letterale arma d’egemonia politica e sociale nei confronti di nazioni pronte a tutto per disporre di elementi o tratti materialistici di distinzione. Vedi a tal proposito i diamanti e tutto ciò che in essi trova pratica realizzazione, così efficientemente immessi nel mercato globalizzato da taluni poli operativi mantenuti in alta considerazione internazionale. Una qualifica calzante per la città da quasi sette milioni di abitanti di Surat, sulla costa nord-occidentale dell’India, luogo da cui provengono allo stato attuale circa l’80% dei diamanti lavorati in vendita nel mondo. Da cui è nato il progetto, iniziato nel 2015, per la costruzione di un possente polo distributivo e logistico per questo settore, in quella che sarebbe diventata presto la Surat Diamond Bourse o più in breve SDB, abnorme edificio su un terreno di 14,38 ettari, con 4.000 uffici destinati ad essere occupati da svariate centinaia d’aziende. Fino alla realizzazione, ben presto comprovata, della metratura destinata a superare abbondantemente il record statunitense, verso l’ottenimento di un palazzo dalle proporzioni di 660.000 metri quadri. Senza nessun tipo di dubbio residuo, il più vasto al mondo…

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La costruzione di un’elica da oltre 50 tonnellate

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Una scia lunga parecchi metri si estendeva ad inseguire la città. Sopra le onde dell’oceano, un mucchio di metallo pieno di petrolio, o carico di scatole, o pieno di persone in abito da sera. Questa è la natura del trasporto sovradimensionato: non dividere, ma unire con il duro ponte sopra il liscio scafo. Le terre emerse e i continenti, costruendo un filo ininterrotto che è come un viale, dove le strade non esistono e il terreno è un’ombra sul fondale, popolato da creature che non conoscono il concetto di denaro. Così com’era l’uomo, da princìpio. Perché chi aveva mai pensato che dall’Asia più orientale, uno spostamento naturale delle cose fosse fino all’altro capo dell’oceano fino in Nord America, passando per l’Europa e viceversa? Tutto è collegato, questa è una fortuna. Tutto è collegato e questa una sfortuna, qualche volta.
Eppur ciò che resta grande, non importa quali siano le preoccupazioni dell’iter globale, è il metodo scientifico che regge quel sistema, ovvero il mondo tecnologico, l’ingegneria applicata. L’opera di aziende come questa, una filiale della Maersk danese, che forgiano nel fuoco il cuore stesso della situazione. Forgiano: si fa per dire (così, del resto, c’è scritto nel titolo del video, mutuato dal programma di Science Channel “World’s Biggest Shipbuilders”) perché qui siamo di fronte a un tipo di lavorazione totalmente differente, ovvero la fusione con stampaggio, allo scopo di creare un grande oggetto che dire notevole, sarebbe poco. Niente meno che l’elica necessaria per la propulsione della nuova petroliera Tangier, dalla capacità di carico di 50.000 tonnellate. In altri termini, l’ingranaggio stesso che funziona da interfaccia con il mare, all’interno di un sistema di lavoro che si estende per letterali milioni di miglia, lungo l’intera vita operativa del vascello. E non chiedetegli quanti: gli autori del programma, assieme alla compagnia produttrice, restano pronti a garantire sui 124.000.000, essenzialmente cinque volte la distanza dalla Terra alla Luna. In altri termini, alla velocità ragionevole per una nave come questa di circa 30 Km/h, qui stiamo parlando di 800 anni come fossero dei bruscolini. Alcuni sospettano un secondo errore, mentre altri, ragionevolmente, si chiedono se questa cifra non sia quella garantita per l’integrità dell’elica soltanto, non tutta la nave; il che, visti i processi produttivi, potrebbe anche essere del tutto vero. Basta prendere in esame i materiali. O per meglio dire, l’unica e singola lega, di cui è composto il corpo di un tale dispositivo, la quale è classificabile da un punto di vista chimico nella classe dei cuprallumini, un tipo di bronzi nei quali la componente ferrosa in aggiunta al rame è stata parzialmente sostituita col tipico metallo usato in aviazione, dando al composto un’eccezionale resistenza alla ruggine e alla corrosione. Considerate che l’enorme componente, almeno stando alle scenografiche scritte fatte comparire dalla regia nel fumo emesso dal crogiolo fiameggiante, si compone per l’80% di solo rame, facendo immaginare un costo produttivo alquanto impressionante. E la cifra finale in effetti, stando a chi ha visto l’intero episodio, si colloca sull’equivalente di 250.000 dollari, una percentuale tutt’altro che indifferente dell’intero prezzo della nave. Una volta creata la lega in uno stato liquido, portando l’ammasso ad una temperatura di 980 gradi Celsius, si effettua la colata nello stampo costruito in silicati refrattari, con la precisa forma al negativo dell’elica in oggetto a questa produzione. Una progettazione estremamente dettagliata, e simulazioni pregresse, hanno permesso di contrastare la formazione di bolle d’aria, anche in forza della notevole pressione delle forze in gioco. Completata questa fase, viene il periodo di raffreddamento, che dovrà estendersi per un periodo di almeno 5 giorni. Al termine del quale…

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