Si tende normalmente ad assegnare gli stereotipi sulla base dell’esperienza pregressa. Così non percepiamo nulla di anormale nell’affermazione: “L’albergo più grande del mondo si trova a Las Vegas.” Peccato che assegnare un simile primato alle 7.115 stanze del Venetian sarebbe stato si, corretto tra il 2006 e il 2015, come conseguenza di una corsa agli armamenti che ricorda vagamente quella per l’altezza dei grattacieli. Con la singolare differenza che nel caso di strutture ricettive vaste, ma non eccezionalmente elevate, risulta sempre possibile procedere in un secondo momento all’ampliamento strutturale così come fatto nel deserto del Nevada, aggiungendo ali, piani e addirittura interi edifici. Il che ha permesso ad uno storico rivale da quel particolare punto di vista di riemergere e riuscire ad elevarsi, nuovamente, sulla vetta di una delle istituzioni turistiche più eccezionali dell’intero ambiente globale. Nonché le meno conosciute, almeno fuori dal suo particolare contesto nell’Estremo Oriente, di nuovo a causa dei rigidi ruoli indissolubili dalle assodate percezioni del senso comune. Ed in effetti non molti dalle nostre parti, immagino, avranno sentito parlare dell’altopiano di Genting. Ed il suo albergo più importante, il First World Hotel & Plaza nato con l’esplicita intenzione di superare in ampiezza le strutture comparabili al momento della sua originale inaugurazione: quando contava all’apertura nel 2001 “soltanto” 6.118 stanze, prima della ristrutturazione intercorsa 14 anni dopo, che l’avrebbe portato all’attuale record assoluto di 7.351 ospitate dietro le caratteristiche mura del complesso, decorate da una pletora di strisce multicolore. Che potrà mai essere superato? Che nessuno vorrà mai riuscire, effettivamente, a superare? Poiché la domanda lecita a questo particolare punto tende a diventare cosa ci sia, esattamente, ai 1.800 metri del Monte Ulu Kali nella catena Titiwangsa, situato ad appena una cinquantina di chilometri a nord della capitale Kuala Lumpur, per poter riuscire ad attirare tali quantità di persone. Un casinò: risposta che di nuovo, potrebbe sorprendere considerato come ci troviamo in uno dei più importanti paesi a maggioranza musulmana dell’Asia Orientale, per questo soggetto al divieto categorico del gioco d’azzardo ed ogni attività connessa alla commercializzazione delle scommesse. Ovunque, ma non qui… Campeggiano in effetti numerosi cartelli, all’ingresso degli edifici limitrofi e molti dei recessi maggiormente popolari del tentacolare resort montano, ove si riporta il divieto categorico d’ingresso ai devoti della religione islamica. Unica concessione richiesta, al famoso fondatore di questa città eminente, dall’allora Primo Ministro Malese, Tunku Abdul Rahman, nell’idea di creare un sito per questo tipo di attività indiscutibilmente haram che potesse risultare responsabile dal punto di vista della morale pubblica di quel paese. Il che ha fatto dell’altopiano di Genting da molti punti di vista una sorta d’enclave, e di colui che seppe porne le basi l’eroe di molti, anche e soprattutto considerata la sua provenienza da un contesto limitrofo, la Cina. Sto parlando dell’uomo d’affari Lim Goh Tong e la travagliata vicenda della sua complessa vita…
gioco d’azzardo
L’incombente distopia situazionale del palazzo più imponente a Macao
Scaturendo dal suo massiccio uovo dorato, la torre di cristallo emerge tra le nubi con stranissimo profilo a martello, alto esattamente 256 metri. Come un fiore, come un Faro, come la distanza tra il dire e il fare. Oltre i calibri dei condomini anneriti dallo smog, situati ad un’elevazione comparabilmente limitata dal livello stradale, il suo profilo sfrangiato sembra non soltanto voler grattare il cielo, ma tagliarlo via letteralmente, dallo scorcio che riesce a profilarsi oltre il punto di fuga prospettico dal surrealismo e un certo livello di minaccia latente.
Nel giorno in cui l’espressione programmatica e corrente del cyberpunk sta per ritornare alla ribalta grazie alla pubblicazione dell’atteso videogioco eponimo, è difficile non ricordare come l’intento di partenza di quel movimento, alle sue origini letterarie degli anni ’80, fosse mirato a evidenziare una serie di elementi in forte contrapposizione: la ricchezza delle multinazionali rispetto all’esigenza di arrangiarsi per gli hacker e i samurai delle strade derelitte; la tradizione delle antiche discipline orientali contro la più sfrenate soluzioni digitali dei tempi moderni; il pessimismo, quasi dickensiano, per intere generazioni perdute di fronte alla promessa di un futuro impossibilmente migliore. Transumanismo e cibernetica a parte, tuttavia, sarebbe disingenuo voler fingere che almeno dal punto di vista visuale ed apprezzabile, tale intento segretamente didascalico non si sia rivelato anche profetico, in qualità di commento storico a tecnologie e tendenze che stavano iniziando a palesarsi, con estrema pervicacia, già un trentennio a questa parte, in alcune delle metropoli più variopinte ed interessanti dei nostri tempi. Vedi a tal proposito l’estremo sincretismo di Macao, la più longeva delle colonie europee in Asia, destinata a rimanere tale fino al 1999, prima di tornare in qualità di costola cinese nel Celeste Impero, con qualifica formale non diversa da Hong Kong. Se volessimo del resto riassumere in una singola espressione la fondamentale differenza tra questi due luoghi, potremmo anche scegliere d’utilizzare la singola espressione “gioco d’azzardo”, proibito presso l’isola ex-inglese, e permesso invece qui sulla penisola, che si affacciano a una manciata di chilometri sul palcoscenico del Mar Cinese Meridionale. Ma se la città rinominata dai portoghesi rispetto all’antica definizione di Àomén (澳门) può essere detta la monumentale realizzazione dedicata ad una tale basica pulsione degli umani, ciò è anche attribuibile alla singola figura e l’intento imprenditoriale del grande Stanley Ho, l’unico detentore per gli oltre 50 anni a partire dal 1961 di una licenza atta a costruire e gestire in tale terra la remunerativa struttura di un casinò. O parecchi, come sarebbe giunto a fondarne sotto l’etichetta della compagnia Sociedade de Turismo e Diversões de Macau (STDM) ancora oggi amministratrice di 22 tra le 41 siffatte istituzioni tra i confini della città.
Consultando tuttavia le fonti coéve, appare chiaro come verso l’inzio degli anni 2000 la splendente fama della “Las Vegas d’Oriente” stesse iniziando a sfumare assieme alla reputazione in essere, causa un graduale peggioramento e sovraffollamento di alcune delle strutture più rinomate, diventate luoghi di prostituzione e messa in pratica per alcune delle attività meno apprezzabili degli strati sociali in cerca di un facile, per quanto imprescindibile guadagno. Serviva quindi una ventata di rinnovamento che non fosse solamente dovuta all’apporto d’investimenti stranieri e tale metaforico fenomeno atmosferico avrebbe avuto modo di palesarsi, ancora una volta, grazie alla sapiente mano del suo più anziano amministratore. Così l’onorevole Dato Seri Ho, ormai detentore di uno dei titoli onorifici civili più elevati che possano essere assegnati ai non appartenenti di una casa reale, chiese ed ottenne il permesso di far costruire agli architetti di Hong Kong Dennis Lau e Ng Chun Man un qualcosa che potesse essere degno di rivoluzionare lo skyline, ed assieme ad esso le aspettative dei turisti, convergenti tra i dorati confini di Macao. E quel qualcosa sarebbe stato proprio, da molti e appariscenti di vista, l’impressionante Grand Lisboa Hotel.
Lo scomparto segreto del tavolo automatico da Mahjong
Non tutti i giochi nascono uguali: ve ne sono di placidi ed eleganti, fatti di movenze cadenzate accompagnate da ritmi lenti. Mentre altri sono frenetici, dominati dalla cacofonia dei suoni e il vocìo dei loro partecipanti. E ci sarebbe molto da dire, sul caratteristico stile dei giocatori di Mahjong o Mah Jong (麻将) il gioco che ha avuto origine durante la Cina della dinastia Qing (1644-1912) per poi espandersi e conquistare tutta l’Asia Orientale, seguìta dagli Stati Uniti e in tempi più recenti, persino determinate regioni d’Europa. La maniera in cui le tessere in legno, metallo o resina (un tempo si usava l’avorio) facenti funzione delle carte da gioco nostrane, sbattono sonoramente tra di loro, mentre i giocatori chiamano in a gran voce i loro tris, kang e le combinazioni supreme, chiamate onori. Qualcuno potrebbe persino affermare che la caratteristica modalità d’interazione che fa parte della cultura di quel paese, in qualche modo, abbia colorato e modificato il senso di questo gioco, rendendolo un portale di accesso per un modo di essere che fondamentalmente, non ci appartiene. O in qualche maniera non riconosciamo. Così che risulta essere piuttosto raro, nonostante la sua popolarità, trovare questo gioco all’interno di un Casinò dell’Asia. Almeno, per ora: poiché come in qualsiasi altro campo, potrebbe venirci in aiuto la tecnologia. Che semplifica ed elimina, talvolta, i problemi, come quello altamente caratterizzante di una partita con i 144 parallelepipedi, nel corso della quale al termine di ogni mano, occorre ripristinare il muro. Che non è tanto una divisione difensiva tra i popoli come quella costruita, a suo tempo, dai fedeli sottoposti del primo imperatore, bensì un doppio quadrato sovrapposto, costituito da un segmento per ciascun lato corrispondente a un diverso giocatore, da cui quest’ultimo dovrà pescare ad ogni turno. Per la cui costituzione i molti volti che si renderà necessario, il dispendio di minuti risulta essere tutt’altro che indifferente. Soprattutto quando si considerano i possibili incidenti, come tessere cadute a terra, persone che ne prendono troppe o troppo poche dal mucchio centrale, possibili accuse verso qualcuno che potrebbe aver sbirciato il seme o il numero di un determinato pezzo di gioco. Con conseguente aumento esponenziale del senso di chaos ed incontrollabile sequenza degli eventi, per non parlare del rumore prodotto dai giocatori. Ma i problemi non sono soltanto questi: mescolare a tal modo le tessere, semplicemente, non è in alcun modo professionale. Tanto che agli albori dell’epoca moderna, non era semplicemente pensabile la figura di un aristocratico che giocava a Mahjong.
Quale sarebbe dunque, la succitata bacchetta magica (o ventaglio piumato dello stratega) che potrebbe aspirare a risolvere tutto questo? Nell’opinione di una vasta gamma di aziende produttrici, tutte orientate sulla stessa linea con la tipica costanza dell’industria cinese, si potrebbe riuscire a trovarla in uno dei grandi misteri della fisica, ovverosia il magnetismo. Tramite l’approccio dimostrato da quella che potremmo descrivere, con un certo grado di associazione, come una vera e propria lavatrice orizzontale. Il tavolo automatico da Mahjong, una realtà oggi diffusissima, benché letteralmente sconosciuta prima degli anni 2000, è un sistema elettrico ed elettronico che attraverso una variegata selezione di artifici, permette di superare la ponderosa necessità sopra descritta. Al che i quattro “punti cardinali” umani della partita, al termine di ogni mano, non dovranno far altro che premere l’apposito pulsante al centro del piano, vendendo sollevarsi una sezione paragonabile al prototipico tappo della vasca da bagno. Per poi procedere (auspicabilmente con pacatezza) a spingere giù le tessere nel buco risultante, come nel processo di un vulcano geologico all’incontrario. Al che, premendo il secondo dei pulsanti presenti sulla piccola plancia, degli sportelli nascosti in corrispondenza di ciascun lato si apriranno rapidamente. Lasciando emergere, come per magia, la sfavillante presenza di un muro già pronto alla prosecuzione della partita. E pensate che nei modelli più avanzati, è persino presente uno scomparto trasparente per il lancio dei dadi, metodologia ufficiale per determinare chi avrà l’onore della prima giocata! Eliminando in questo modo, un’ulteriore fonte di discussioni o disordini a danno della quiete generale.
Resta perciò indubbio che il tavolo automatico da Mahjong sia un valido ausilio all’implementazione di uno stile di gioco maggiormente spedito e pratico nelle procedure. Nonché la valida presenza di un “arbitro imparziale” (addirittura, robotico) che s’incarica di eliminare potenziali “errori” più o meno voluti che possano compromettere il risultato della partita. Ma non viene anche a voi la curiosità di scoprire quale sia, esattamente, il suo funzionamento?
L’inganno più proficuo mai impiegato dai giostrai
Fornire dati palesemente erronei a qualcuno non è facile. Occorre creare una storia valida, corroborata dal contesto, che sia a prova addirittura dell’analisi dovuta alla disperazione. Deve poter sembrare, nella mente del pesce umano, che una volta eliminate tutte le più remote o poco probabili soluzioni, l’unica strada che rimane sia attraverso l’amo che gli viene fatto galleggiare innanzi, come un allettante ma sinistro ausilio all’autodistruzione. Sapete cosa, invece, è alla portata di chiunque? Rendere costui un proprio complice del tutto inconsapevole, all’interno di un meccanismo finalizzato all’apparente ed impossibile guadagno, quindi lasciarlo indietro proprio sul più bello, fluttuando via leggiadri con le sue finanze, l’autostima e, nel remoto caso in cui costui ne avesse ancora, ogni briciola residua di fiducia nell’umanità. Non ci vogliono doti particolari di recitazione e comprensione psicologica (benché aiutino) perché proprio questo è il punto stesso della truffa, come seconda professione più antica del mondo: lasciare che la vittima finisca ad ingannarsi da sola, a causa di quel brivido che viene dal Profondo. La Sensazione. Dai, la conoscete! Quel solenne momento interiore, in cui tutto sembra dipendere dai dadi del destino, e una persona dimentica se stessa, i suoi parenti, il suo lavoro, perché soltanto la vittoria nella situazione presente potrà restituirgli la sua naturale personalità. O almeno, così pareva con tutta la forza delle propria anima al qui presente giovane studente, accompagnato da un amico che in realtà mirava a fargli uno scherzo, nella sequenza in candid camera realizzata per una vecchia puntata del 2009 del programma inglese The Real Hustle.
Abbiamo parlato di dadi, ma non è di questo che si tratta. Troppo semplice, troppo scontato. Giacché l’idea fondamentale di questa straordinaria tecnologia per estrarre il denaro dal portafogli dei troppo fiduciosi, è gettarli nella confusione, complicargli la vita fino al punto in cui ogni parola del regista all’altro lato della cassa sembri oro colato, e i presunti premi risplendano di una luce irresistibile e sacrale. Non per niente, il “gioco” (se così vogliamo chiamarlo) ha il nome segreto di Razzle, dall’espressione inglese idiomatica razzle dazzle, che si riferisce ad un qualcosa di così appariscente da confondere le apparenze, e nascondere l’occulta, fin troppo pericolosa realtà. Il guadagno inizia, come spesso capita, in una maniera apparentemente priva di grosse pretese. L’affiliato di un luna park viaggiante, talvolta assieme a un socio o una socia, allestisce un banchetto nella zona più trafficata dai visitatori, dove si promettono grandi vincite con investimenti non eccessivamente significativi. Nella finzione del programma, il ruolo dei sedicenti truffatori fu interpretato nel 2009 dai conduttori fissi Paul Wilson e Jessica-Jane Clement, capaci di recitare la parte in maniera decisamente priva di fraintendimenti. Sia chiaro che alla fine, tutti i soldi sono stati restituiti al legittimo proprietario. Ma non andiamo tropo avanti. La vittima designata, accompagnata fin lì dall’amico e complice della produzione, è stata quindi messa di fronte ad una coppia di tabelloni, occupati rispettivamente da una serie di fori numerati prima di essere posti in orizzontale, ed una tabella di conversione, per alcuni punteggi ottenibili mediante il primo di questi due implementi. Nel seguente modo, amichevolmente messo in chiaro da Paul: per la modica cifra di due sterline, tutto quello che l’aspirante vincitore dovrà fare è lanciare un certo numero di biglie in modo casuale, affinché queste ricadano in corrispondenza dei punteggi la cui somma, del tutto casuale all’apparenza, compare chiaramente sul bancone. A seguito di ogni totale azzeccato, quindi, il giocatore guadagnerà dei punti o “yarde” (talvolta l’intero ambaradan è presentato come una metafora per una partita di football americano) con l’obiettivo di raggiungere i 10 punti ed ottenere in cambio il premio selezionato tra l’ampio catalogo messo in mostra, con pezzi forti quali televisori all’avanguardia, computer portatili, console per videogiochi. Troppo bello per essere vero? Troppo bello…