Il camion che non schiaccia la schiena del suo creatore

Breve storia nordamericana: all’inizio del secolo scorso, c’era l’Alaska. La distesa della tundra verdeggiante totalmente intonsa, nel corso dell’estate, poi coperta di candida neve, dalla quale riemergeva ancor più splendida e perfetta dell’anno prima. Quindi arrivarono, in un giorno particolarmente avverso, loro due: il gabbiano e la volpe. Non che fossero del tutto assenti, in precedenza: gruppi limitrofi delle rispettive popolazioni, sparuti a causa dell’assenza di fonti di cibo, comparivano qui e là nel territorio. Cosa era cambiato, dunque? Noialtri uomini avevamo trovato il petrolio. E i siti d’estrazione, le compagnie di scavo, i piccoli villaggi degli operai, avevano scatenato su questa terra un fascino precedentemente mai considerato. L’attrazione esercitata, su tutti gli animali, dalla divina spazzatura. Gli uccelli candidi volarono, e i mammiferi carnivori accorsero, presso questi luoghi a più riprese, disperdendosi una volta sazi attraverso il vasto vuoto circostante.  Dove iniziarono a modificare pesantemente l’ecologia, con le loro prede sempre più decimate e le uova di altre specie volatili letteralmente fatte scomparire, a un ritmo superiore di quanto potessero essere deposte. Mentre malattie precedentemente ignote, come la rabbia, si diffondevano a macchia d’olio. I sottili equilibri faunistici della natura erano stati sovvertiti. E per quanto riguardava la flora, le cose non andavano affatto meglio. I pesanti mezzi usati dalla nuova e fiorente industria, infatti, con un peso minimo di varie tonnellate, distruggevano con il loro passaggio lo strato sottostante di vegetazione, che in seguito riusciva a ricrescere soltanto dopo molti anni, con una varietà biologica inferiore. Finché a qualcuno non venne in mente di gettare grandi quantità d’acqua lungo i percorsi più battuti, creando strade di ghiaccio in grado di resistere fino alla successiva primavera. E… Poi? L’industria moderna e contemporanea, come è noto, tutto può fare tranne scegliere tranquillamente di fermarsi, al volgere di una particolare stagione, rinunciando ad ottime prospettive di guadagno fino ai grandi freddi successivi. Così il dramma continuò imperterrito, fino all’opera tutt’ora mantenuta in alta considerazione dell’insegnante di scuola, trasformatosi in imprenditore, William Hamilton Albee.
Costui, persona di cui le cronache non ci trasmettono parecchie informazioni, si era trasferito intorno al 1930 presso la zona dello stretto di Bering, dove amava compiere delle escursioni per andare a pesca in compagnia dei popoli Yupik, comunemente ed erroneamente definiti con il termine di eschimesi. Fu allora che gli capitò di vedere, per un puro caso, la scena che avrebbe profondamente modificato il corso della sua vita. Un gruppo di abitanti del villaggio infatti, di ritorno da un’escursione in mare, si trovavano allora in procinto di tirare a riva la grande imbarcazione, carica del pesante e prezioso pescato della giornata. E proprio mentre l’uomo proveniente dal meridione si chiedeva come avrebbero potuto costoro smuovere un simile peso, specialmente con le pesanti bardature e l’equipaggiamento artico di cui ciascuno di loro era dotato, li vide tirare fuori da una bisaccia alcune pelle di foca gonfiate soltanto parzialmente con l’aria. Le quali, una volta disposte sotto lo scafo, rotolavano facendolo avanzare, inglobando letteralmente qualsiasi ostacolo dovesse frapporsi sulla via. “Eppur si muove!” Esclamò allora. Oppure, “Eureka!” Fatto sta che in quel preciso istante, decise che sarebbe ritornato nella sua nativa California. Dove mettere immediatamente a frutto la portata della sua idea. Tuttavia, la vita gioca strani scherzi. E lui non sarebbe riuscito a dare seguito al progetto prima di altri 16 anni. L’impresa che mise finalmente in piedi, a partire dal 1951 ed investendo tutti suoi risparmi, prese il nome di Rolligon Company, sotto il cui nome si affrettò a brevettare quanto aveva precedentemente ideato. Quindi, si recò presso gli scettici produttori di pneumatici statunitensi, finché non trovò presso la Goodyear orecchie pronte ad ascoltarlo, nonché una filiera che fosse in grado di produrre ciò che adesso desiderava più di ogni altra cosa: ruote, o per meglio dire dei grossi sacchi flessibili, da usare come metodo di locomozione adatto a tutti i terreni. Il primo veicolo Rolligon, a quel punto, prese forma materiale. Si trattava essenzialmente di una sorta di triciclo, spinto innanzi da un sistema di rulli motorizzati privi di trasmissione o semiassi, un’altra innovazione di Albee, totalmente incapace di sprofondare, non importava quanto fosse morbido il terreno d’impiego. Non possiamo realmente dire, in quella fase, quanto la coscienza ecologica facesse parte del sentire di questo grande inventore del ‘900. Ma l’utilità del suo specifico approccio veicolare colpì subito almeno due importanti clienti: l’industria petrolifera e l’Esercito degli Stati Uniti. Strane scene, a quel punto, iniziarono a comparire nei cinegiornali…

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L’esperienza di capovolgere automobili nei rally finlandesi

Telecamera in soggettiva all’interno di un rally, cosa c’è di nuovo? Abbiamo avuto modo di vederli tutti, in un modo o nell’altro, grazie all’attrezzatura video montata sulle auto dai team di corse, per testimoniare la performance, e le doti di colui che pilota le vetture iscritte a ciascuna gara. Anzi, grazie ai videogiochi le abbiamo persino guidate, queste grandi automobili a folli velocità, cercando l’apice di ciascuna curva diversa in base al suolo al di sotto delle nostre virtuali ruote (con conseguenze, il più delle volte, non propriamente ideali). Cosa mai potrebbe esserci di nuovo, nel video stile-GoPro presentato giusto l’altro giorno sul canale di YL!VAA Media, probabilmente a séguito dell’acquisto dei diritti dallo stesso autore. Già, una persona piuttosto che una scuderia, e nello specifico colui che l’hai materialmente realizzato. “Ma allora…” Già, proprio così: stiamo parlando di uno spettatore. Ciò che Internet ci offre oggi, nel suo ampio catalogo d’esperienze videografiche, è un qualcosa che molti di noi probabilmente non tenteranno mai di sperimentare, benché si tratti, a conti fatti, di un’esperienza non inaccessibile, né particolarmente pericolosa. Stiamo parlando, se ancora non fosse palese, degli appassionati che vanno a mettersi presso una curva spregiudicata, e quando se ne presenta l’opportunità, fanno il possibile per aiutare. Perché il rally, per sua stessa natura imprescindibile, non è semplicemente la corsa senza limiti su un tratto stradale chiuso al traffico, la cosiddetta prova speciale, ma anche e soprattutto la metafora di un viaggio, attraverso il quale l’equipaggio di gara dovrà risolvere ogni potenziale guasto tecnico o défaillance senza poter ricorrere all’aiuto del resto della squadra. Mentre non c’è scritto da nessuna parte, che il pubblico debba starsene da parte senza far nulla. Nel corso degli anni la competizione si è dunque arricchito di questa ulteriore aspetto, che lo rende uno sport “interattivo” durante il quale non solo è difficile capire cosa possa succedere, ma lo stesso succede per quanto concerne ciò che ci si può ritrovare a fare.
Entriamo a questo punto nello specifico: lo scenario si svolge presso lo stage di Päijälä, a quanto pare uno dei principali ostacoli del prestigioso Rally dei Mille Laghi con partenza da Jyväskylä, ormai da tempo facente parte del campionato mondiale della WRC. La data è lo scorso 29 luglio, proprio durante l’edizione 2017 della gara, recentemente conclusasi nel momento in cui scrivo con vittoria della nuova promessa della Toyota Esapekka Lappi, secondo classificato Elfyn Evans di Ford, terzo Juho Hänninen di Toyota. A sfiorare il podio con la quarta posizione, nel frattempo, ci ha pensato Teemu Suninen, ultima aggiunta del team Ford. Notate qualcosa? Dei quattro piloti citati, tre hanno un nome chiaramente appartenente all’area scandinava e a dire il vero, ciò non è certamente un caso. Si potrebbe anzi affermare che si tratti di una vera e propria tradizione, per un rally notoriamente ostico da portare a termine, e soprattutto molto diverso dal resto delle gare di campionato. Le ragioni sono diverse, a partire dai dislivelli alle particolari caratteristiche paesaggistiche del territorio (non sognatevi, ad esempio, di riuscire a mancare un albero se doveste finire fuori strada) e soprattutto, fra tutti gli aspetti, c’è n’è uno che spicca in modo particolare: la notevole velocità media, con interminabili rettilinei che hanno fatto soprannominare questo ambito di gara con il nome programmatico di “Grand Prix su sterrato”. Il che naturalmente, in determinate circostanze, può portare a conseguenze alquanto problematiche, con particolari tratti che risultano, semplicemente, troppo difficili per un’alta percentuale dei partecipanti. Così esistono casi come questo, di una curva in cui finiscono fuori strada 5, 10 persino 15 automobili, l’una dopo l’altra. Mentre la gente, tuffandosi a capofitto, si affretta a recuperarle e rimetterle in pista. Uno spettacolo memorabile. Decisamente migliore della tipica dissolvenza in nero con penalità di qualche secondo, che nei videogiochi crea lo stacco attraverso cui l’auto giocante torna magicamente al centro della carreggiata. Ma va da se che siamo di fronte a un qualcosa di decisamente più difficile da simulare.

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La moto che sale sugli alberi e colui che la guida

Non sarebbe fantastico, almeno una volta nella vita, sperimentare la giornata di un supereroe? A giudicare dalla quantità e qualità di alcuni dei video giunti ai vertici di Internet, nei quali il protagonista costruisce o indossa una ragionevole imitazione dell’armamentario di Batman, Deadpool o Iron Man, non sono in poche le persone che hanno provato un tale desiderio. Naturalmente, una cosa è la parte esteriore dell’intera faccenda, tutt’altra la forza effettiva dell’individuo. Ovvero, ciò di cui egli può effettivamente disporre nella realizzazione del suo progetto. Un uncino per arrampicarsi non è nulla, senza i muscoli nelle braccia per riuscire a tirarsi su. Una katana a cosa serve, se non si ha l’abilità di manovrarla adeguatamente? E il persino più potente degli jet a razzo incorporato nella propria armatura metallica non basterebbe ad alzarsi neppure di un metro, a meno di essere dotati del sufficiente senso dell’equilibrio e una notevole prontezza di riflessi. Allo stesso modo, salire su una moto da trial non farebbe di noi Toni Bou. Certamente avrete presente il paradigma del grande campione degli sport motoristici. Quella figura che per ogni generazione, giunge come una meteora infuocata tra le schiere di uno di questi particolari sport, ottenendo prestazioni così al di sopra della sua concorrenza, da essere apparentemente favorito dallo sceneggiatore del film della vita stessa.
In tempi recenti, la Formula 1 ha avuto Schumacher. Il motociclismo, Valentino Rossi. E se vi siete mai chiesti su chi potesse contare la specialità su due ruote che consiste nel mantenersi in equilibrio, attraverso alcuni dei percorsi da fuoristrada più difficili immaginabili da un commissario di gara, ebbene lasciate che ve lo presenti. Il pilota catalano, originario dell’affascinante cittadina di Piera, che fin dall’età di 6 anni ha fatto il possibile per violare la forza di gravità a bordo della sua bicicletta. E dall’età di 14, finalmente, non ha scelto di dedicarsi completamente a quella che sarebbe diventata la vera passione della sua vita. Partecipando inizialmente alle competizioni a bordo di una moto Aprilia, prima di passare a quella che sarebbe diventata il sinonimo stesso della sua carriera: l’ormai leggendaria Montesa Honda Cota a quattro tempi, di un produttore acquistato nel 1982, ovvero quattro anni prima che lui nascesse, dalla multinazionale giapponese dei motori. Ma che trae l’origine, e resta legata fin dal distante 1944, alla sua stessa regione d’origine nel nord-est della Spagna. Prendere atto delle sue gesta sportiva è un’esperienza che si sviluppa in una fulminea e rivelatoria presa di coscienza: basta osservare una tabella con gli annali dei vincitori delle due specialità del trial a livello internazionale: l’indoor e l’outdoor. A partire dal 2007, l’unico nome che si trova replicato, una volta per riga e in associazione al team Repsol, è semplicemente il suo. Campione quell’anno, campione quello immediatamente successivo…Campione nel 2009 e così via fino al presente. Nessuno, fra tutti gli abilissimi piloti di questa generazione, è mai riuscito a superarlo, neppure una volta. Il che significa, tradotto in termini numerici, che allo stato attuale ci troviamo di fronte al vincitore di 20 titoli mondiali, 10 per ciascuno degli ambiti rilevanti. Qualcosa di semplicemente mai visto, negli sport di corsa “convenzionali” dove parimenti all’abilità del pilota, contano fattori contingenti come la sfortuna di un guasto tecnico o le condizioni dell’asfalto di gara. Mentre c’è questa visione convenzionale dello sport del trial, giusta oppure sbagliata, secondo cui tutto quello che conta sia unicamente la preparazione fisica e mentale del pilota. O forse a questo punto dovremmo chiamarlo, più appropriatamente, un atleta.
Per ciascun grande campione, tuttavia, viene anche il momento di divertirsi. Specie al giorno d’oggi, in cui una sequenza di acrobazie può facilmente fare la fortuna di uno o più sponsor coinvolti, come ben sanno alcune delle bibite energetiche di maggior successo sul mercato (e anche Toni, a giudicare dalla tuta, sembrerebbe avere la sua…) E allora ecco la risposta alla domanda del cosa possa realmente fare, una simile figura, al di sopra del contesto stringente e severo di una gara precisamente regolamentata. Letteralmente, spiccare il volo…

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Passato e futuro della Smart transiberiana

Sherp Proto

Giorno dopo giorno, con la pioggia e con il sole, lavori duramente. Ci provi. Più per la passione personale d’inventare, mettendo assieme parti di metallo verso un tutto superiore ai componenti, rispetto al fine ininfluente di ottenere un qualche tipo di ritorno, in fama, prestigio e/o denaro. Finché un giorno, all’improvviso, non avviene la fortuita cosa: che qualche grande testata, dapprima di settore, inizi a scrivere de “Il folle inventore”, soltanto per essere poi ripresa, come spesso capita, dalla stampa generalista locale. Infine, quella internazionale segue a ruota. Ed a quel punto: “Cosa fare?” Dev’essersi chiesto Alexei Garagashyan, il meccanico di San Pietroburgo che pilota il mostro nel presente video, recentemente assurto alle cronache dell’Internet russa e del mondo per la prima versione commerciale del suo celebre Cheburator DIF-1, ribattezzato per l’occasione con il più stringato appellativo SHERP. “…Se non cavalcare l’onda, e aspettare gli ordini, che di certo arriveranno di qui a poco!” È chiaro che non poteva essere diversamente. Quando l’ultimo figlio tecnologico della tua mente è tanto originale, immediatamente divertente, nonché potenzialmente utile, la gente danarosa si appassiona. E cosa vuoi che siano, 65 o 70.000 dollari (versione standard oppure KUNG) rispetto all’opportunità di vivere il mondo selvaggio come fosse il retro del giardino della propria stessa casa di campagna!
È veloce, più o meno, è agile, molto e sopratutto non si ferma innanzi a nulla. Meno che mai, il più grande pericolo conosciuto alle 4×4 che scelgano di avventurarsi in mezzo a simili paesaggi: il ghiaccio molto, troppo sottile. Nel video diventato famoso verso la metà della settimana scorsa, come anche in questo qui mostrato del prototipo veicolare, si può osservare il gesto di un autista apparentemente folle; il quale si avventura, senza un’attimo di esitazione, nel bel mezzo di un lago reso percorribile dal grande inverno. Senza preoccuparsi di effettuare studi di fattibilità, ovvero per lo meno, controllare lo spessore di quel velo trasparente che dovrà condurlo all’altro lato dell’abisso. E tutto sembrava andare per il meglio, finché all’improvviso, com’era purtroppo prevedibile, la membrana non si trasforma in voragine, ed inizia quel temuto affondamento che…Si è già fermato. Proprio così: per chi non lo sapesse, la SHERP è un mezzo anfibio, in grado di navigare grazie all’uso dei generosi intagli sui suoi sproporzionati pneumatici a bassa pressione, che finiscono per agire come le pale di un vecchio battello fluviale. Il che significa, incindentalmente, che essa può passare senza soluzione di continuità dal suolo solido, al ghiaccio, all’acqua e viceversa, grazie al metro virgola 6 di gomma e quattro camere d’aria simili a canotti. Una soluzione ingegneristica che ha il rovescio della medaglia di far lievitare notevolmente il prezzo, fino alle cifre su citate, per il semplice fatto che simili meraviglie nerastre dovranno essere prodotte interamente su misura, assieme all’intero impianto della struttura, la scocca e alcune componenti della trasmissione. Le caratteristiche fuori dal comune di questo insolito veicolo, lungo in totale poco meno di tre metri e mezzo, non si fermano infatti qui, tutt’altro: un’altro punto forte della SHERP è infatti il suo essere del tutto priva di uno sterzo. Proprio così, avete capito bene. Questa macchina è più rigida, dal punto di vista della convergenza, di quanto potrebbe dirsi il tipico treno merci. Ma come fa allora, a curvare?  Ah, questa è bella ed anche un po’ scontata, visto che dopo tutto siamo in Russia, la patria delle soluzioni iper-moderne che guardano all’antico. Alexei Garagashyan, in conferenza con microfono alla mano: “Curva, esattamente (grosso modo) come un carro armato.”

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