C’è una preminente formazione rocciosa nel parco di Yosemite, che molti considerano come una sorta di sfida. Non per l’ambizione di raggiungerne la cima: dopo tutto, il punto più alto in metri di El Capitan, come viene chiamato dal 1851, risulta raggiungibile con relativa facilità mediante il percorribile declivio sul “retro”, un percorso boscoso che conduce ad una delle viste maggiormente scenografiche dell’intera America settentrionale. Ma come per i critici di chi utilizza l’elicottero che visitare i campi base o medianti delle grandi montagne terrestri, non sarebbe ragionevole o giustificabile affermare di aver compiuto l’impresa, senza averlo fatto nel modo più difficile in assoluto. Il che parrebbe comportare in base al repertorio pregresso, e nel caso specifico, l’ascesa lungo quella parete di granito vecchia di 100 milioni di anni, quasi del tutto liscia e perpendicolare al suolo per via dell’effetto di erosione multi-millenaria dei ghiacciai, per un percorso privo di luoghi d’appoggio dell’altezza di 914 metri. Strade verticali come quella denominata tradizionalmente il Naso, la prima ad essere affrontata nel 1958 dal trio di alpinisti guidato da Warren Harding, fautori dello stile definito “d’assedio”, consistente nel piantare letterali centinaia di chiodi nella solida roccia della montagna. Attraverso una serie di approcci ulteriori tra gli anni ’60 e ’70, sarebbero dunque stati scoperti sentieri alternativi e meno diretti come il cosiddetto muro di Salathé, mentre la procedura elettiva più diffusa avrebbe virato gradualmente verso la variante del free-climbing consistente nell’impiego di una quantità di equipaggiamento di sicurezza variabile, ma sempre recuperato da uno dei membri della squadra e successivamente posizionato più in alto, in una serie di pitches, o segmenti separati dalla tipica lunghezza di una corda da arrampicata. Una tecnica del resto praticabile anche in solitaria, come dimostrato in quel contesto solamente nel 2016, da Pete Whittaker che raggiunse il punto più alto della roccia attraverso una variante del percorso Salathé nota come Freerider, “semplicemente” salendo ogni volta alla lunghezza più alta di una corda, per poi piazzarne un’altra al termine di ciascun pitch. Un’impresa popolata di pericoli tutt’altro che difficili da immaginare, nonché terribilmente laboriosa, avendo richiesto un gran totale di 20 ore e 6 minuti per essere portata a termine. Nulla di più incredibile, in quel momento, sembrava realizzabile in modo realistico, benché una remota teoria vigesse in materia, sviluppata in origine dai due scalatori veterani Michael Reardon e Dean Potter, deceduti in altri luoghi rispettivamente nel 2007 e 2015. Per cui sembrava persistesse una maledizione, che avrebbe per sempre impedito a qualcuno di tentare l’inumano: la salita in modalità free solo, senza chiodi, senza corde o un qualsivoglia altro ausilio salva-vita, dell’intera altezza di El Capitan. Finché non giunse per rivolgere la propria ambizione al caso, quello che taluni definiscono come il più grande atleta mai vissuto nell’ambito di una particolare disciplina. Era l’estate del 2017 dunque, quando l’antica roccia conobbe ancora una volta la presa poderosa e fatidica di Alex Honnold. Sotto numerosi punti di vista, da quel momento, nulla sarebbe stato più come prima…