La fattoria durata dieci secoli sotto un tetto d’erba delle Faroe

Del tutto improbabile: un materiale transitorio che soddisfa le necessità architettoniche di un’epoca, che scompare al più insignificante alito del vento della storia: termiti, un incendio, marcescenza, un terremoto. Cosa serve per riuscire a immortalare un edificio? Pietra, senz’altro. Acciaio, nessun dubbio in materia. L’indistruttibile approccio d’impiegare ogni risorsa disponibile in un’epoca, per renderlo del tutto impervio a una qualsivoglia tipologia d’imprevisti. Dunque non sarebbe in alcun modo praticabile, né probabile, che il semplice legno assolva a questa classe d’esigenze tramite il prosieguo delle epoche passate, fino all’occhio scrutatore della società odierna. A meno che… Se la fortuna è pienamente allineata con la vicenda di un particolare palazzo… Se le congiunzioni astrali si configurano in maniera positiva e/o propizia… Oppur semplicemente, quella lunga attesa del disastro incipiente non riesce a rendere concreta tale sconveniente manifestazione degli eventi; ciò che è stato continuerà ad essere. Nel trascorrere dei secoli, dei secoli a venire. Così com’era, letteralmente immutata da quanto ci è possibile ricordare: Kirkjubøargarður, la “Fattoria del Re”. Ovvero Cristiano III di Danimarca e Norvegia, chi altri! Che successivamente alla prima Riforma Protestante del 1538 decretò che tutte le proprietà appartenute alla Chiesa Cattolica fossero da quel momento kongsjørð, “terreni della corona” il che includeva, in modo imprescindibile, anche molti verdeggianti pascoli delle isole Faroe. Quell’arcipelago famoso per la sua fiorente agricoltura, posizionato nel punto intermedio tra Norvegia, Inghilterra e Islanda, nel mezzo esatto dell’Atlantico capace di renderle irraggiungibili e per lungo tempo una fantastica visione dei marinai. A meno fino all’insediamento delle popolazioni gaeliche e nordiche, che tra il 400 ed il 600 d.C. avevano trasportato fin qui le proprie aspirazioni, sperimentando per la prima volta l’assoluta e travolgente libertà da un qualsivoglia sovrano o istituzione religiosa. Il che non sarebbe durato per sempre (quando mai succede?) almeno a partire da quando, attorno all’anno Mille, venne istituita la prima diocesi e corrispondente vescovato presso l’isola principale di Streymoy. Ciò che le Faore possedevano in abbondanza, tuttavia, erano colline, valli, cascate e spiagge in grado di riempire l’orizzonte. Niente che servisse, in altri termini, per poter riuscire a costruire un qualsivoglia tipo d’edificio… Duraturo nel tempo. E fu così che con il proseguire dell’undicesimo secolo, secondo la leggenda gli ecclesiastici dovettero affidarsi ad un letterale miracolo: quello capace, secondo la leggenda, di trasportare fin qui durante una tempesta una grande quantità di tronchi provenienti dal continente. Abbastanza, in altri termini, per costruire un qualche cosa d’imponente. La prima nota storica, in ordine cronologico, relativa alla struttura ancora oggi fuori dal contesto della Kirkjubøargarður, è dunque rintracciabile nella cosiddetta Saga di Sverris, composta da un anonimo per narrare la movimentata vita di Sverre Sigurdsson, re di Norvegia tra il 1184 e il 1202. Un personaggio di cui viene fatta notare in modo particolare la notevole cultura, dovuta all’educazione ricevuta da questo umile figlio di un fabbricante di pettini del villaggio di Kirkjubøur, nella parte meridionale dell’isola di Streymoy. Questo grazie all’occasione di frequentare, prima di accedere alla sua storia dinastica dimenticata, agli insegnamenti offerti dagli ecclesiastici del “miracoloso” edificio, per un presunto ingresso in seminario che sarebbe in seguito stato subordinato al suo possesso di sangue reale. Era il 1177, dunque, quando il futuro sovrano vinse una battaglia alla testa del gruppo rivoluzionario norvegese dei Birkebeiners, riportando al predominio il proprio ramo cadetto della dinastia dei Fairhair. Il notevole edificio, non ancora posto sotto il dominio di un sovrano secolare, ricompare quindi alle cronache come residenza del vescovo cattolico Erlendur nel 1298, che nella sala costruita successivamente del loftstovan (salone) scrisse il suo testo maggiormente significativo ed imperituro: un’articolata lettera a re Haakon IV di Norvegia, finalizzata a spiegare in una serie di articoli le precise regole sull’allevamento di pecore entro i territori delle isole Faroe.

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Fate spazio all’intrigante pecora gallese con gli occhi di un panda

Tra le scoscese valli della regione di Powys, al confine tra il Galles e l’Inghilterra, è possibile avvistare una razza di animali dall’aspetto particolarmente distintivo, frutto di una linea di sangue ininterrotta allevata da oltre un secolo per assolvere a uno scopo ben preciso. Bianca come una nuvola per quanto concerne il corpo, la coda e la sommità del capo rigorosamente privo di corna, questa notevole esponente del genere ovino si distingue dai suoi simili per le macchie ad alto contrasto che campeggiano in corrispondenza delle sue ginocchia, il muso, le orecchie e gli occhi. Altrettanto notevole la lunghezza del pelo dal collo in su, naturalmente minore dando maggior risalto al muso allungato dall’aspetto vagamente equino. Nel 2014, Sarah E. Beynon e colleghi pubblicavano uno studio connesso alla XXII Conferenza sul Genoma di Piante ed Animali, intitolato “La struttura e la storia delle razze di pecore gallesi” nel quale tra ben 14 alternative, veniva individuata una linea comune tra la Beulah testanera di Eppynt, Llanafan Fawr, Abergwesyn e la qui presente alternativa dotata di un pattern così distintivo, originaria soprattutto dell’omonimo villaggio “Kerry Hill” situato a poca distanza dalla cittadina di Newtown. Un tipo di quadrupede dal fisico resistente, ottima salute ed una resistenza invidiabile al clima spesso rigido di queste latitudini, particolarmente apprezzato per il carattere mansueto e la notevole rapidità di crescita, perfetta (ahimé) per farne una profittevole fonte di carne. Il che non può prescindere, comunque, da un certo valore riconosciuto alla sua lana calda e morbida, di cui un esemplare adulto arriva a produrre fino 2,75 Kg per singolo evento di tosatura, condotto in genere una media di due volte l’anno. Valore aggiunto, particolarmente apprezzato in determinati ambienti, è inoltre la frequenza con cui questi animali sembrano conseguire il primo premio nei concorsi di bellezza delle sagre e feste rurali, grazie all’innata eleganza che giungono a possedere quando adeguatamente lavate, pettinate ed abbellite secondo le prassi frutto di una ricca e continuativa esperienza nel settore.
Un’intrigante bellezza frutto di questa livrea particolare tutt’altro che insolita anche in natura, che possiamo ritrovare concettualmente riproposta in maniera simile nel panda, l’orca assassina e per certi versi anche la zebra, la cui effettiva ragione d’essere in ciascuno dei tre casi sembrerebbe derivare dall’esigenza di passare inosservati: con metodologia mimetica, per la creatura ursina mangiatrice di bambù, vista la soluzione di compromesso tra la colorazione scura degli animali boschivi e quella candida di coloro che vivono in pianura. Indubbiamente conforme ad esigenze di counter-shading per il cetaceo carnivoro, finalizzato a confondersi tra luci ed ombre in bilico sopra il confine dell’abisso. Ed otticamente utile, per l’equino d’Africa per massima eccellenza, a creare un’illusione che confonde i carnivori e potenzialmente allontana il morso soporifero della pericolosa mosca tze-tze (gen. Glossina). Tre metodi distinti ma dagli obiettivi simili, che d’altra parte difficilmente potremmo riuscire a ritrovare nello stile di vita della pecora contemporanea, ormai addomesticata da un periodo stimato attorno ai 10.000 anni. Ecco dunque comparire, nella sequenza logica degli eventi, quella cognizione spesso trascurata eppure così essenzialmente adattabile ad ogni varietà possibile di circostanza: che gli animali frutto di accurati incroci e selezioni artificiali raramente posseggono caratteristiche che siano il frutto indubitabile dell’evoluzione. Quanto piuttosto, il segno e l’influenza di quel gusto arbitrario che è l’estetica umana, che sarebbe poi il più benefico di tutti i tratti, in senso universale, per prolungare l’esistenza della propria genìa sul pianeta Terra. Dove una specie, tra tutte, domina il senso ultimo delle epoche presente e future…

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