Storia recente di Sant’Elena, monte che risorge dalle profondità del suo stesso cratere

L’enorme senso di aspettativa, non necessariamente condiviso dall’intera collettività di chi poteva o doveva mettersi in salvo, le reiterate vibrazioni e deformazioni della massa solida soltanto in apparenza. E poi, alle ore 8:30 della mattina del 18 maggio 1980, la frana destinata a scatenare una catastrofica detonazione. Pari a 26 megatoni di TNT fatti saltare in aria, sufficienti a devastare un’area di foresta a forma di ventaglio dalle dimensioni di 37×31 Km, come colpita dall’impatto di un potente lanciafiamme. Interi tronchi, con decadi o persino secoli di storia, sradicati via da terra, mentre quelli più sottili furono spezzati facilmente a metà. E trasportati dallo spostamento d’infiniti metri cubici d’aria fino allo Spirit Lake ed il Fork Turtle River, creando uno strato solido di copertura che persiste ancora, sebbene soltanto in parte. E strati, su strati, su strati di cenere grigio scuro, capace di ricoprire le (poche) abitazioni nei dintorni, le automobili, le strade stesse. Interi cumuli di questo materiale, che soltanto molti anni di pioggia avrebbero contribuito, gradualmente, a far scomparire tra le pieghe della terra. Ma mentre il paesaggio continuava il suo processo di recupero, lo stesso non poteva dirsi del Lawetlat’la/Louwala-Clough, o come gli intraprendenti coloni del Pacific Northwest avevano scelto di chiamarlo “Monte Sant’Elena” orgoglioso stratovulcano di diorite risalente all’epoca del Pleistocene, epoca durante cui la placca tettonica della Siletzia, massiccia formazione basaltica sottomarina, andò ad impattare contro l’attuale zona di subduzione di Cascadia. Mentre plurime fuoriuscite di lava, nelle generazioni a seguire, avrebbero fatto il resto: 2.949 metri d’altitudine, raggiunta nella guisa di un’elegante cono innevato tanto distintivo da essere stato soprannominato a più riprese “il monte Fuji americano”, almeno finché il realizzarsi del suo devastante destino non ne trasformò radicalmente l’aspetto. Fino a quello ancora oggi osservabile di un ferro di cavallo poco più alto di 2.500 metri, evidentemente spezzato al punto che nessun passeggero all’interno di un volo di linea, che stesse guardando fuori dal finestrino al momento giusto, potrebbe mancare di riconoscerlo indipendentemente dalle sue conoscenze pregresse in materia. Eppure così devastato, eppur mai privo della propria forza ed una volontà imperitura, come la stragrande maggioranza delle formazioni vulcaniche più celebri Sant’Elena non ha cessato in alcun modo di creare e dare forma al proprio destino. Una tendenza chiaramente evidenziata dalla presenza di un terribile rigonfiamento sopra il centro stesso del suddetto cratere, come la sommità di una mongolfiera, egualmente sottoposta all’accumulo di una pressione che non cala, ma piuttosto aumenta in modo progressivo ed esponenziale. Senza potersi sollevare verso l’alto, in questo caso, nella ricerca di un qualsivoglia presupposto valido a sfogare la sua potenza. Con il risultato che possiamo osservare in questo video timelapse dell’USGS (Servizio di Osservazione Geologica Statunitense) che copre il periodo tra il 2004 ed il 2008, quando a partire da 24 anni dopo il giorno zero dell’evento, nuovi sommovimenti tellurici hanno dato luogo ad una ripresa del più antico processo vissuto dalla montagna: quello valido a tentare di raggiungere, con la propria sommità svettante, le propaggini inferiori delle nubi stesse…

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Il vasto cratere che rimane per testimoniare il tragico conflitto della Somme

In mezzo ad una serie di campi coltivati, percorrendo la strada provinciale di Bapaume, gli automobilisti hanno l’occasione di scorgere una strana e distintiva caratteristica del paesaggio. Come i bordi di un’avvallamento lunare, ricoperti da vegetazione folta e verdeggiante, sorge la parte osservabile di una profonda depressione. Ampia 100 metri e profonda 30, ovvero abbastanza perché sia istintivo attribuirgli un qualche tipo di causa naturale, benché i fatti storici raccontino una storia completamente differente. Quella di una colossale deflagrazione, fatta detonare in un fatidico momento in cui si credeva di poter cambiare il corso della storia, il primo luglio 1916. Riuscendo in qualche modo, forse non proprio quello originariamente desiderato, ad apportare un significativo cambiamento delle aspettative ragionevoli in un particolare tipo di contesti tattici, almeno fino all’invenzione del carro armato.
Visitando oggi la regione pianeggiante della Francia dove scorre il fiume settentrionale della Somme, difficilmente ci si troverebbe a sollevare obiezioni sull’antico significato del suo nome. Che proviene per il tramite del termine latino Samara dalle due parole celtiche samo (tranquillo) e quella ormai etimologicamente elisa di ar (fiume). Manifestando nella tangibile realtà dei fatti la stessa contraddizione cronologica, rispetto ai suoi trascorsi storici, di quella apprezzabile nel vasto spazio dell’Oceano Pacifico. Privo di conflitti, oggi. Non così nel periodo destinato a concludersi coi grandi conflitti globali del Novecento. E non meno rilevante, nel controllo strategico del centro Europa, questa regione a nord di Parigi sarebbe stato il teatro nel corso dei due conflitti di svariati scontri armati tra fazioni contrapposte all’espansione dell’Impero Tedesco. La prima delle quali fu anche, di gran lunga, la più sanguinosa nonché uno degli scontri più costosi in termini di vite nell’intero estendersi della storia umana. Sto parlando del confronto fortemente voluto dagli eserciti francese ed inglese, nel momento in cui le manovre del Kaiser Guglielmo II avevano massimizzato la pressione militarizzata contro la piccola, ma determinante città di Verdun. Un tentativo attentamente pianificato di scardinare le difese del generale Erich von Falkenhayn, costituite secondo i più efficienti crismi operativi di quel particolare periodo storico. I quali essenzialmente prevedevano lunghe e labirintiche trincee, intervallate da nidi di mitragliatrici e impervi rifugi sotterranei, in grado di resistere al bombardamento senza sosta dell’artiglieria nemica. Strutture che di certo, qui furono messe duramente alla prova, con un dispiegamento da parte della componente occidentale della Triplice Intesa, ed in particolare il suo esponente britannico di 1537 bocche da fuoco, utili a sviluppare quello che fu il più terribile e duraturo impiego di munizionamento esplosivo mai visto e udito prima di quel fatidico momento. Gradualmente in crescita a partire dall’anno 1915, fino al culmine di quei dodici giorni di “apertura” che gli Inglesi avrebbero deciso di chiamare la battaglia di Albert, durante cui fu sparata una quantità di colpi stimata attorno al milione e mezzo, molti dei quali calibrati al fine di spazzare via unicamente bersagli tattici come il filo spinato. Eppure destinati a non essere uditi almeno in parte da una grande quantità dei soldati coinvolti, per l’assordante effetto di due ancor più grandi, e drastiche deflagrazioni: quelle delle due miniere scavate nei dintorni del villaggio di La Boiselle, denominate con i nomi in codice di Lochnagar ed Y Sap. Lunghe e laboriose opere, fatte passare sotto le siepi, le asperità, l’asfalto stradale, scavate nel corso di mesi se non anni con un obiettivo semplice ed impressionante: quello di essere riempite d’esplosivo nella loro parte terminale, per saltare in aria assieme alle migliaia di soldati soprastanti. Con la consueta e necessaria spietatezza della guerra ormai giunta alle sue conseguenze più inesorabili…

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