Le ruote trasformabili dei carri armati del futuro

Passati sono i tempi del fortunato sodalizio tra l’agenzia per le tecnologie belliche statunitensi DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency) e la prolifica azienda robotica Boston Dynamics, rinomata produttrice di automi dall’aspetto fantascientifico e video virali dall’invidiabile successo sul web. E con essi, il riflettore continuamente puntato verso uno dei più discussi utilizzatori dei finanziamenti pubblici per la Difesa, spesso troppo orientato verso applicazioni lontane nel tempo perché l’uomo della strada, interrogando se stesso sull’utilità di simili invenzioni, possa approvare pienamente l’utilizzo a tal fine del suo contributo più o meno volontario nei confronti dell’erario di stato. Costituisce perciò un gradito ritorno alla forma di un tempo, soprattutto per tutti coloro che non hanno pagato di tasca propria, la nuova dimostrazione di alcuni minuti, relativa ai progressi fatti dai diversi fornitori nel quadro di un progetto iniziato nell’ormai distante 2014, relativo alla trasformazione di uno dei più assodati paradigmi del campo di battaglia. Nome in codice: GXV-T (Ground X-Vehicle Technology) ovvero la dimostrazione, lungamente attesa, che il fatto di avere più armatura armatura e quindi una mobilità minore, nei veicoli da combattimento, costituisca un sinonimo di maggiore sicurezza per il pilota e gli altri soldati coinvolti. Laddove l’interpretazione offerta dalla divisione dal Tactical Technology Office all’interno della tentacolare agenzia parla, stavolta, di mezzi più simili a dei fuoristrada, capaci di eludere il nemico in diversi e funzionali metodi, prima di portare a termine mansioni ricognitive o veri e propri assalti nei confronti di obiettivi reputati fondamentali. Non ultimo tra i quali, una mobilità aumentata, grazie ad approcci come le avveniristiche ruote messe in evidenza poco sopra, capaci di mutare in pochi secondi ogni regola precedentemente acquisita del gioco. Il sistema operativo delle Reconfigurable Wheel-Track, per adesso montato su un comune fuoristrada della serie Hummer adibito al trasporto truppe nei territori soggetti a uno stato di conflitto armato permanente, è un qualcosa che un tempo avrebbe dovuto essere visto di persona, al fine di fugare ogni dubbio di trovarsi dinnanzi ad un fantastico effetto speciale. Eppure esso compare senza alcun dubbio sotto l’occhio della telecamera, che a meno d’improbabili e complesse rielaborazioni, mostra in questo caso l’evidente realtà: mezzo modificato, che ne monta prima quattro e poi soltanto due nel semiasse posteriore, avanza con sicurezza per qualche metro, poi si ferma per un attimo e le ruote in questione cambiamo forma, da un cerchio perfetto a quello che in geometria viene chiamato triangolo di Reuleaux, ovvero una curva piana e convessa contenuta in due ipotetiche rette rotanti. Una delle quali potrebbe anche essere, nel presente caso, il terreno, se non che gli attrezzi in questione smettono a quel punto di girare, mentre gli pneumatici stessi, all’improvviso indipendenti, diventano facenti funzioni di un vero e proprio cingolo, come in determinati apparati per la mobilità invernale dei fuoristrada civili.
L’effetto è palese quanto immediato: la superficie di contatto della ruota col suolo aumenta esponenzialmente, mentre la capacità di sterzata del veicolo diminuisce di conseguenza, e così pure la sua velocità. Ma è proprio questa l’intenzione dei tecnici realizzatori dell’idea: poter disporre di un ipotetico super-Hummer (o mini-carro armato) capace di muoversi con la stessa agilità sulle superfici asfaltate o le superfici diseguali, qualcosa che neppure i potenti M1 Abrams, formidabili carri armati perfezionati al termine della guerra fredda, possono oggi vantare nel proprio registro d’azione. Benché essi possano raggiungere facilmente, in effetti, la velocità di 70-80 Km/h su strada, chiunque abbia avuto a che fare con loro sa bene che cosa succede nel caso in cui il pilota tenti a quel punto d’impostare la curva troppo impegnativa: una frequente, quanto inevitabile fuoriuscita di uno o entrambi i cingoli dalla loro sede, con conseguente immobilizzazione del mezzo. Qualcosa d’inaccettabile, nella concezione iper-moderna del GXV-T, secondo le linee guida della suprema responsabile, il maggiore dell’Esercito Amber Walker. Ma le idee rivoluzionarie che lei ha evidenziato, nel corso dell’ultimo anno in cui ha curato la supervisione del progetto, sono molteplici e tutti altrettanto degni di essere commentati…

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Ultime da Boston: cane robotico che lava i piatti

SpotMini

Il nuovo robot della Boston Dynamics è veramente qualche cosa di speciale. Silenzioso, zampe di gallina, piccoli piedi gommati e un collo d’anatra, con all’estremità una bocca degna di un piccolo dinosauro. Eppure si chiama Spot(Mini) perché molto giustamente, è fatto per vivere in casa, è vivace, scattante, agile ed aiuta l’uomo, insomma è quasi l’approssimazione senza peli di un gradevolissimo pastore tedesco. In una versione che non mangia e non deve essere fatta uscire, ma soprattutto non PUÒ fisicamente sporcare in giro, ed è per questo stato predisposto ed equipaggiato al fine di…Fare l’esatto opposto. Cioè, pulire. Siamo dunque forse all’epoca, da lungo tempo teorizzata, in cui maggiordomi e cameriere non saranno più nostri consimili trovati sul mercato di un lavoro umile ed antico, ma macchine create da altre macchine, teste di bulloni, letterali ammassi d’ingranaggi assorbi-elettricità. Che sia questo, dopo tutto, il futuro? L’oggetto in questione (se davvero non vogliamo definirlo una “creatura”) è in effetti la risultanza di un lungo processo di progressivo perfezionamento portato avanti in questi ultimi anni dall’azienda Boston Dynamics, sorta nel 1992 dalla costola di un gruppo di ricerca del MIT – Massachusetts Institute of Technology, su progetto e per volere di Marc Raibert, l’ingegnere che aveva un sogno dichiarato: portare i robot bipedi e quadrupedi ad uno stadio di funzionamento che possa a tutti gli effetti definirsi “sovrannaturale”. Il che costituiva, assai probabilmente, un riferimento indiretto alla famosa citazione dello scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke, autore di Odissea nello Spazio: “Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”. Una dichiarazione d’intenti che in effetti potrebbe trarre vagamente in inganno, visto come le ultime creazioni di questa notevole realtà imprenditoriale del nord-est degli Stati Uniti abbiano sempre teso, evidentemente, verso un aspetto facilmente riconducibile alla natura. E non è un caso se i principali esseri artificiali qui creati, a giudicare dal nome, potrebbero entrare a far parte di un mini-zoo: Grande Cane, Piccolo Cane, Ghepardo, Pulce d’acqua, RHex (!) e soprattutto Atlante (!!) l’unico vero e proprio omuncolo della congrega, nel senso effettivo di due braccia, due gambe ed una testa, e che potrebbe essere tranquillamente definito il Guardiano di questo curioso ed assortito branco di castigamatti. O in alternativa, la più perfetta realizzazione materiale del concetto favolistico del Golem; eccolo dunque, il ricercato appiglio con il regno della fantasia.
Ma il nuovo SpotMini è invece molto reale, e perciò rispondente alle regole di un mondo ben preciso: quello in cui un cellulare, fin troppo spesso, finisce per scaricarsi verso sera. Ed in cui la stessa soluzione locomotoria scelta per il funzionamento dell’animale, in questione, molto probabilmente, deve aver contribuito alla scelta di uno scenario domestico per la dimostrazione. Stiamo in effetti parlando di un dispositivo completamente elettrico e con circa 90 minuti di carica, variabili sulla base di quanto siano faticosi i compiti per cui viene impiegato. Non sarebbe tuttavia un problema, almeno teoricamente, fornire il cane-anatra di una programmazione in grado di riconoscere il momento migliore per dirigersi alla sua stazione di carica, onde essere sempre pronto a fare ordine tra il prossimo carico di piatti da mettere in lavastoviglie. Sarebbe! Ovvero, il condizionale è d’obbligo. Visto come, lo pensano più o meno tutti quanti, nel tipico video per il grande pubblico realizzato dai bostoniani a margine della loro ultima meravigliosa diavolerìa, ci sia sempre un uomo fuori dall’inquadratura, telecomando alla mano, che dirige sapientemente ogni singolo gesto dell’inconsapevole protagonista. Occorre in effetti uscire da quella concezione tipica del romanzo gotico, ma presente in una qualche misura anche nelle storie del ben più moderno Philip K. Dick, secondo cui la ri-creazione esteticamente indistinguibile di un qualcosa possa valergli l’automatica infusione del sovrano soffio della vita, OLTRE all’identità acquisita. Perché costruire un Androide di Abraham Lincoln, come avveniva nell’omonimo romanzo da lui scritto nel 1962, non significa che questo debba necessariamente muoversi, parlare e pensare come il 16° presidente degli Stati Uniti. Ce lo insegna, dopo tutto, anche l’esperienza dei videogiochi: è molto facile, con la tecnologia di oggi, costruire un cast di personaggi pienamente credibili ed estremamente dettagliati. Ma farli interagire in maniera rispondente alla logica con l’unica parte imprevedibile del loro mondo, ovvero il giocatore umano? Ciò costituisce tutta un’altra storia, veramente tutta un’altra storia….

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Varato in Oregon il drone più imponente della storia

Drone Ship

Lo splendido ponte del Tilikum Crossing, costruito giusto l’anno scorso sul fiume Williamette a Portland, principale città portuale del Pacific Northwest, appare stranamente deserto, mentre dinnanzi alla sua slanciata struttura si dipana uno spettacolo del tutto senza precedenti. Nello spazio ridotto di queste acque, tutto sommato non così inquinate, sfreccia infatti un misterioso trimarano lungo 40 metri, sottile e acuminato come un freccia che sia stata costruita in puro acciaio. L’imbarcazione sembra intenta ad effettuare delle manovre dall’alto grado di spettacolarità, affini a quelle portate avanti nella tipica esercitazione di marina militare. Sul suo minuscolo ponte di comando, campeggiano le figure in tuta rossa di due addetti alla supervisione, che tutto sembrano intenti a fare, tranne gestire le cose da quello che potrebbe definirsi un timone. Appare in effetti chiaro che se costoro non dovessero esser lì, le possenti eliche non avrebbero ragione di fermarsi. Girerebbero, anzi, addirittura più velocemente.
140 tonnellate ma non può volare. E perché mai dovrebbe? Drone è un termine che ha attraversato diversi slittamenti semantici nella lingua inglese, come per analogia, in tutte quelle che lo hanno preso in prestito negli ultimi anni. Riferito originariamente al maschio dell’ape, il cui ronzio, così affermavano, ricordava in qualche maniera quello dei primi aeromobili a controllo remoto, si è ritrovato associato originariamente al solo ambito militare. Verso la metà degli anni 2000, nel momento in cui la parola ha iniziato a comparire sui titoli dei giornali, costituiva sostanzialmente un sinonimo del velivolo americano MQ-1 Predator B, il primo aereo privo di un pilota ma dotato di armi a bordo. Quelle due sillabe, dunque, suggerivano un’idea d’inumana crudeltà e precisione, bombardamenti chirurgici portati avanti da un centro di comando a terra, mentre gli operatori, protagonisti di un videogame dalle tremende implicazioni, diventavano progressivamente sempre più insensibili alle sofferenze dei loro bersagli designati. Tranne quelli tra di loro, protagonisti di diversi articoli allarmisti, che cadevano preda di un nuovo tipo di PTSD (Stress Post Traumatico) tale da condizionare ogni momento della loro vita, dal primo giorno di ritorno nel mondo civile. Negli ultimi tempi invece, con la proliferazione degli elicotteri radiocomandati a tre, quattro o sei rotori, la parola ha finito per ritrovarsi attribuita sopratutto a simili dispositivi, usati nella videosorveglianza o per divertimento, acquisendo un suono per la prima volta relativamente rassicurante. Ma c’è una terza accezione di questo termine, che viene spesso tralasciata: nella letteratura fantascientifica classica, vedi ad esempio gli scritti di Doc EE Smith con la sua serie Lensmen (1948-54, riconosciuta anticipazione di quelli che sarebbero diventati Star Wars e Trek) si parlava occasionalmente di astronavi o aeromobili automatizzati. La loro caratteristica principale era di essere, come per l’appunto insetti di un alveare, perfettamente sacrificabili a un qualsiasi scopo. Il loro non avere un equipaggio a bordo, inoltre, implicava un certo grado di autonomia. Questo terzo tipo di drone, in effetti, non sarebbe stato in alcun modo telecomandato. Ma piuttosto affine, in tutto tranne che l’aspetto antropomorfo, al concetto prototipico di un vero e proprio robot.
Veramente assurdo… Si potrebbe essere tentati di esclamare! Immaginate il rischio rappresentato da un mezzo bellico come il Predator, in grado di scaricare l’inferno su un convoglio in movimento, improvvisamente reso in grado di scegliere i suoi bersagli in totale autonomia! L’ipotesi di un momentaneo malfunzionamento delle sue sinapsi appare niente meno che terrificante. Un drone completamente autonomo dovrebbe essere, dunque, privo di capacità di aggressione. Eppure utile, per definizione, a un qualche tipo di scopo militare. Come quello, sempre più importante, di scovare i sommergibili lungo le coste dei paesi d’Occidente. Ed è proprio questo che dovrebbe fare, secondo il progetto alla base della sua messa in opera, la nuova creazione della compagnia per la difesa Leidos (una filiale della SAIC) prodotta grazie al patrocinio ed i finanziamenti della solita DARPA, la celebre agenzia statunitense dedita all’applicazione delle nuove tecnologie nel campo della guerra contemporanea. Immaginate: una nave in grado di restare per tre mesi in mare, senza cibo, senza acqua, senza nessun tipo di rifornimenti. Praticamente, come il veliero fantasma dell’Olandese Volante, nefasto presagio delle leggende di marina nordeuropee. Molto rassicurante, nevvero?

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A.D. 2015: gli eroi robotici diventano realtà

Hubo DRC

Scansiona la maniglia con il suo singolo occhio rotativo, alza il polso snodabile a 360 gradi, muove la pinza in avanti di 40 cm, poi la stringe saldamente e preme in giù. È…Aperto? Inginocchiato innanzi all’uscio del futuro, HUBO DRC, il più fantastico dispositivo antropomorfo coreano. Frutto dell’opera di ricerca e sviluppo del team KAIST (Korea Advanced Institute of Science and Technology) di Daejeon, ma il cui acronimo nel nome sta per le tre fatidiche parole Darpa, Robotics e Challenge. Si trattava di una sfida internazionale pensata per stimolare la ricerca, tenutasi dinnanzi all’intero gotha tecnologico corrente, della quale il mondo non aveva mai conosciuto in precedenza l’eguale. C’erano (quasi) tutti al Fairplex di Pomona, gli scorsi 5 e 6 giugno: Stati Uniti, Giappone, Cina, Germania, anche noi italiani con un pregevole progetto dell’Università di Genova, il Walk-Man. Ma nessuno, alla fine, ha potuto prevalere contro il rappresentante della penisola orientale della lunga dinastia Joseon. È preciso, reattivo, responsabile. Quello che non riesce a fare, per il momento, sembrerebbe affrettarsi in molti dei suoi compiti, almeno a giudicare dal presente video in timelapse, riduzione a un tempo di quattro minuti e mezzo di quello che in origine richiese esattamente 10 volte tanto. Ma quando questa macchina realmente fa qualcosa, guardarla è uno spettacolo davvero illuminante. Non per niente, a seguito di questa complessa e variegata performance, i suoi costruttori provenienti dal semplice ambito accademico hanno incassato dall’agenzia statunitense organizzatrice un assegno di ben 2 milioni di dollari, probabilmente già investito in parte per migliorare ulteriormente la manifestazione metallica più celebre al momento. E il resto, chi lo sa… Guardatelo, mentre scende dall’automobile elettrica, con leggiadrìa del tutto comparabile a quella di un anziano di 95 anni! Pensate che soltanto questa operazione, molto più complessa di quanto potrebbe sembrare in teoria, soprattutto per un essere animato da molte decine di motori indipendenti, ha richiesto innumerevoli tentativi fallimentari portando al sovraccarico lesivo di costosi componenti. Finché non si è giunti a questo compromesso, degli esattamente 100 Newton di potenza per ciascun braccio, validi a risolvere il problema in tempo utile, se non proprio fulmineo. Ciò che viene dopo, poi, è semplicemente straordinario.
Nel progetto tecnico del KAIST, s’intravede la sapienza di chi interpreta i regolamenti non tanto con la logica, come in effetti non sarebbe mai il caso di fare, ma perfettamente alla lettera, cercando il metodo migliore di superare le aspettative dei giudici di gara. “Ah, si?” Deve essersi detto silenziosamente il Prof. Jun Ho Oh, caposquadra dell’operazione: “Dobbiamo costruire un robot che sia in grado di guidare, aprire una porta, impiegare attrezzi, superare un tratto ricoperto da detriti vari e poi salire le scale?” Mumble, mumble: “E chi ha mai detto che dovrà fare tutto questo, camminando?” Quindi, ecco il colpo di genio: l’HUBO (il cui primo nome, con scelta veramente originale nel suo campo, non è in effetti l’acronimo di nulla) è sostanzialmente in grado di trasformarsi, esattamente come i mecha dei cartoni animati giapponesi, benché in modo meno drammatico e spettacolare. Nei momenti in cui deambula sul suo tragitto, infatti, piuttosto che affidarsi alla rischiosa operazione di mettere un piedi innanzi all’altro, costata rovinosi capitomboli a diversi dei suoi temutissimi rivali, il robot poggia le ginocchia a terra, sfruttando le ruote che incorpora poco più sotto per procedere sicuro verso il suo obiettivo. Quasi tutto nei suoi sistemi è stato concepito appositamente per la sfida presente, a differenza di quanto fatto da molti dei team concorrenti, che si sono limitati ad adattare ciò che avevano di pronto, oppure a potenziare in vari modi l’ormai celebre robot umanoide Atlas della DARPA stessa, che era stato fornito dopo le eliminatorie, assieme a dei finanziamenti, alle migliori squadre statunitensi (ce n’erano ben 11), al team dell’Università di Hong Kong e a quello misto USA-Germania dei VIGOR, che l’ha subito colorato di rosso e gli ha dato il nome Florian, da quello del santo protettore dei pompieri.

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