Il ballo delle ruote che stanno cambiando la gioventù africana

Prendi il tipico praticante di uno sport d’azione, come il pattinaggio urbano, e togli tutti gli orpelli in qualche maniera “accessori”. Niente protezioni per le braccia o ginocchiere. Neanche l’ombra di una tuta da corsa, o altra forma d’abbigliamento in qualche modo specifico del suo settore. Nessuno sponsor sul casco ed anzi, purtroppo, nessun casco. Addirittura! E poi dove sarebbe, l’essenziale Energy Drink da bere al termine della discesa oggetto del suo ultimo video pubblicitario… Ciò che resta, in base al luogo in cui si svolge tale scena, può anche essere l’astro nascente del proprio contesto, a patto d’incontrare il giusto percorso tra le alterne svolte della vita. Ovvero quelle strade, vertiginosamente discendenti e curvilinee, di un luogo come Kigali, città maggiormente popolosa e capitale del Ruanda, dove Abdul Karim Habyarimana, come tanti altri giovani nativi del suo stesso natìo Burundi, sembrerebbe essersi trasferito in giovanissima età. Con il suo bagaglio familiare di difficoltà pregresse, disagio economico e speranza di rivalsa, ma anche e soprattutto un sogno, fortemente personale: diventare una star dei rollerblade, gli iconici pattini in linea inventati negli anni ’80 negli Stati Uniti e da lì capaci di diffondersi, attraverso multiple generazioni, nei più remoti angoli del globo. Mentre nel frattempo, si mantiene dando lezioni private re-invenstendo parte degli introiti per l’acquisto di equipaggiamento per i bambini meno fortunati. Eppure non dimostra, questo atipico e spericolato ventottenne, nessun tipo d’inclinazione a trasferirsi altrove, come lo stereotipo del giovane ambizioso di quel continente, quanto piuttosto di riuscire a farsi strada e costruire una realtà creativa e in qualche maniera sostenibile, proprio lì nell’Africa Orientale, non eccessivamente lontano dalle coste dell’enorme lago Vittoria.
Il che potrebbe o meno far la differenza, nel procedere dei suoi prossimi anni di vita, quando si prende atto di COSA, effettivamente, Karim sia intenzionato a diventare: ovvero in termini di una metafora, il letterale rombo di tuono umano che percorre le corsie tra le montagne di Kigali e di Jali capaci di connettere i tre distretti di quel centro urbano in disseminato di colline, letterale San Francisco ante-litteram della sua terra. Dove alquanto prevedibilmente, le più familiari norme di sicurezza stradale sembrano venire caratterizzate da un’inclinazione alquanto rilassata, soprattutto quando la sagoma di un simile scavezzacollo, senza nessun tipo di preavviso, si palesa innanzi al cofano, poi balza a lato come una pantera, afferrando saldamente il proprio paraurti posteriore. Poco prima di balzare ancora ed inchinarsi, senza rallentare in alcun modo, come Neo di Matrix che ha schivato l’ultimo proiettile del suo nemico. Una storia raccontata, con piglio registico degno di nota, dalla giornalista e regista francese Liz Gomis assieme al direttore Aurélien Biette, per il canale indipendente franco-tedesco ARTE attraverso un ciclo di 8 cortometraggi, ciascuno non più lungo di 6-7 minuti, individualmente dedicati ad altrettanti protagonisti della nascente cultura africana dei cosiddetti rider. Che non sono (solamente) fattorini come dalle nostre parti, bensì anche praticanti delle più disparate attività su ruote dei nostri tempi, tra cui skateboard, pattini e ciclismo. Il cui ruolo nella società risulta essere, dalle interviste della serie, molto più importante della prima impressione che potrebbero riuscire a darci…

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L’iniqua condanna del cammello portatore di tragedie

Che cosa fareste se la vostra semplice presenza bastasse, all’improvviso, per causare la rovina di tutti coloro che vi accolgono con le migliori intenzioni di questo mondo? Se in qualche maniera, un angelo vendicatore vi seguisse da ogni parte, per punire con le proprie armi astrali i vostri amici, parenti, ospiti della giornata presente… La maggior parte delle guerre inizia con un casus, di natura particolarmente varia, che costringe le rispettive parti a realizzare come, nonostante tutto, la reciproca sopportazione sia ormai prossima all’esaurimento. Non è tuttavia inaudita l’apertura di un conflitto, non per volontà dell’uno o l’altro combattente, bensì a causa di un semplice evento accidentale. L’episodio, se vogliamo, che ha cancellato anni ed anni di reciproco impegno, precorrendo ogni sincero tentativo di appianare le divergenze. Era il 1846, per essere precisi, quando l’esploratore dell’Australia Meridionale John Ainsworth Horrocks, all’età di soli 28 anni, finì per perdere la vita alla vigilia di un’importante missione: la ricerca di terreni agricoli nei pressi del lago Torrens, non lontano dal golfo di Spencer. Proprio mentre si trovava impegnato nel prendere la mira con il suo fucile a canna liscia, all’indirizzo di uno stormo d’uccelli, quando Harry fece il gesto di chinarsi in avanti, facendo partire il colpo che l’avrebbe ferito (irrimediabilmente) alla mano e al volto. Ora questo Harry costituiva, nei fatti, niente meno che il primo cammello ad essere mai stato trasportato fino in Australia, diventando una parte inscindibile delle risorse delle prototipiche colonie in questo remoto Sud del mondo. Dietro una lunga storia di suggerimenti, sollevati da diversi membri del governo e naturalisti locali, inclini a definire tale gruppo di specie come le più potenzialmente utili e funzionali, ad agire come mezzi di trasporto nell’arido entroterra australiano. Ma il problema fu che nessuno, in ultima analisi, fu in grado di spiegare loro quale drammatico peccato originale avrebbe ricompensato, fino ad oggi, i loro lunghi e monumentali sforzi.
JUDAS COLLAR è il prodotto pseudo-documentaristico della scrittrice/regista Alison James e la produttrice Brooke Silcox, recentemente nominato all’Oscar e, almeno nel momento in cui scrivo, ancora disponibile online (non appena sarà rimosso, sostituirò il collegamento d’apertura con quello per vederne il trailer) mirato a far conoscere, in maniera emotivamente accattivante, un particolare aspetto non molto spesso discusso del sentire e del vivere australiano. In effetti molti conoscono, in merito al più nuovo dei continenti, la problematica questione delle specie non native, spesso difficili da gestire e nella maggior parte dei casi estremamente lesive per l’ambiente. Casistica rispetto alla quale i due distinti appartenenti alla famiglia dei Camelidae, il dromedario somalo (C. dromedarius) e quell’altra nave ondeggiante, riconoscibile dalla doppia gobba, tipica dei deserti asiatici (C. bactrianus) non fanno certo eccezione, data l’imprescindibile abitudine di monopolizzare le limitate risorse vegetali di queste terre, dopo esservi stati abbandonati, successivamente alla diffusione dei ben più pratici veicoli a motore. Con grande sofferenza delle specie endemiche, spesso a rischio d’estinzione. Per non parlare degli ingenti danni che simili creature risultano capaci di causare, ogni qualvolta il clima entra in un periodo di siccità, nel tentativo di raggiungere le potenziali fonti dei sistemi d’irrigazione, le pompe o addirittura i gabinetti costruiti dagli umani. Ragion per cui, a partire dalla prima metà degli anni 2000, sono state implementate una serie di misure alquanto drastiche per ridurne sistematicamente la popolazione, spesso tra le proteste degli animalisti e parte della popolazione locale. Misure che includono l’impiego di un particolare sistema di localizzazione, le cui implicazioni più profonde, sfidano i confini del concetto stesso di “umanità”…

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Immagini fantastiche dal festival dei droni di New York

New York Drone Film Festival

Si dice che alcuni particolari individui, appartenenti al culto geograficamente trasversale dello Sciamanesimo, possano sperimentare l’esperienza di separazione tra corpo e coscienza, lasciando dietro le proprie mortali spoglie per avventurarsi, come un soffio d’anima, tra i venti e le correnti del mondo per osservare, non visti né percepiti, gli eventi e le situazioni. Ed è proprio questa capacità di concentrarsi, tanto simile alla meditazione dei buddhisti, a dimostrare che una simile esperienza non è un sogno. La mente umana: uno strumento che seleziona e suddivide, cataloga, costruisce; si, da sveglia. Mentre nel momento stesso della cessazione della coscienza, e questo lo sa bene chi si sveglia all’improvviso, si scatena una tempesta d’immagini più simile a una carrellata di momenti, ciascuno totalmente scollegato a quelli precedenti. Ed è soltanto nel momento in suona la sveglia, dopo un’intera notte trascorsa involontariamente a cogitàre, che nel sollevarsi delle palpebre si attiva il meccanismo, molto antico ed altrettanto ben oliato, che s’impegna a dare un senso alla sequela dei ricordi immateriali. Così, nel mondo odierno tecnologico, possiamo simulare questo stato. Così facendo, con un dispositivo di radiocomando remoto ben stretto tra le proprie mani, e il cielo immenso che proietta il suo richiamo. Sempre verso il basso e poi di nuovo, inevitabilmente all’indirizzo di chi scruta verso il Sole ed ha il coraggio di premere GO.
Un drone può essere davvero molte cose: telecamera volante, veicolo da corsa, compagno poco loquace ma tutt’altro che silenzioso di mille o più avventure. Ma di sperimentarle tutte assieme… Nel corso di appena tre minuti che ci portano dalla caldera di un vulcano, alle profondità marine, dal gran tempio di Balor (con tanto di Tyrion Lannister ripreso di spalle) al resort sciistico di Golden Alpine nella Columbia Inglese (Canada) ove sciatori illuminati corrono come altrettante code di cometa…Non ci era, di sicuro, mai capitato. Questo video è talmente bello ed in qualche maniera appassionante che innumerevoli siti, dal recente evento della sua pubblicazione, l’hanno ripreso senza preoccuparsi eccessivamente di qualificarne la provenienza ed entrare nel merito dei contenuti. Il che è un peccato, perché simili elementi sono assolutamente primari per comprenderne la rilevanza notevole nella storia della videografia. Siamo ad un punto di svolta, precario e significativo, di ciò che costituisce il nostro documento  per i posteri più articolato e significativo, la registrazione degli eventi a mezzo telecamera e questa intera sequenza costituisce, indubbiamente, un importante mattone dell’intero edificio. Forse persino, la chiave di una volta d’ingresso per intere nuove generazioni d’appassionati potenziali. Questo perché il New York Drone Film Festival, talmente nuovo da non avere neppure un articolo di Wikipedia (um, qualcuno dovrebbe provvedere…) nasce sulla carta nel 2014, si trova attualmente alla sua seconda edizione ed è non soltanto il primo evento del suo tipo al mondo, ma anche un happening dalla notevole risonanza mediatica e l’alto numero di visitatori. Avvalendosi dell’avveniristico Liberty Science Center di Jersey City, edificio equipaggiato con la più grande cupola per proiezioni IMAX mai costruita. Che tuttavia quest’anno ha visto esauriti i posti disponibili per il pubblico nel giro di sole 6 ore, con oltre 5.000 persone accorse per assistere ai migliori tra i 350 film provenienti da 45 paesi, con l’obiettivo di determinare un vincitore per ciascuna delle 13 categorie in concorso. Un’interesse la cui origine, prendendone in esame anche soltanto alcuni, diventa più che ampiamente giustificato…

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Il panino fantasioso del cenciaio

PES Sandwich Submarine

Uno strano ristorante. Se così si può chiamare: sugli scaffali, dietro la vetrina, campeggiano prosciutti variegati. Ma l’unico odore che si può percepire, tutto attorno, è quello del cuoio lavorato, un po’ di polvere, i calzini usati. Totalmente delizioso! Alla vista, per lo meno e poi c’è scritto: “City’s Finest” (products) COOKED MEAT, SLICED BACON. Quindi chi saremmo noi, per mettere in dubbio una tale eloquente dicitura? Così è, se ci credi. E lui, il creatore di cortometraggi in stop-motion dal nome d’arte di PES, non solo ne è totalmente convinto, ma riesce ad operare un’illusione che trascina pure noi. Come se fosse realmente possibile, camminando per New York, ritrovarsi all’angolo tra un boulevard e un’avenue. Dinnanzi ad una Porta; laddove un tempo, in bilico tra due diverse guerre, approdarono i nostri quasi-nonni italiani, per fondare nuove tradizioni. Dimostrando che si, il sogno americano si poteva veramente palesare, almeno a chi avesse un bel cappello bianco, la valigia di cartone e un’ottima visione alimentare. Il prodotto, quando è buono, vende. Ed il prodotto più buono di tutti è certamente questo…
Si comincia, per l’appunto, dallo sport. La ricca salumeria del luogo in questione, con parecchia voglia di giocare, può vantare un’ampia gamma di “cibarie”: tutti quei palloni, curiosamente già tagliati a metà (non è certo questo, il primo panino di giornata!) Nonché qualche paio d’implementi utili a colpire, ad afferrare: i guantoni. Subito portati fino alla sapiente affettatrice, quelli tipici da boxe, di un rosso scuro che conduce a bei ricordi. Le arene gremite, i vasti stadi, le luci splendide dei riflettori; uno, due, tre passaggi – Flies like a butterfly, stings like a bee. Ed ecco palesarsi, all’altro lato della macchina…Centrini rosa? Possibile? Vallo a capire! Poi ricordati che sei soltanto al primo strato. Ti aspettano molte sorprese.
Submarine Sandwich: il panino sommergibile. C’è almeno una leggenda, sull’origine di questo nome che costituisce una chiara metafora, in uso multi-generazionale da una costa all’altra degli Stati Uniti. Si dice che Dominic Conti (1874–1954) fosse sbarcato, come tanti suoi connazionali, presso l’isolotto di Ellis Island, e poi da lì nella famosa Grande Mela. Dove, operando ed investendo, come sapevano ben fare gli emigranti della nostra terra (e non soltanto loro) lui apriva un grocery store (negozio di alimentari) proprio nel New Jersey. Presso cui metteva in vendita, quotidianamente, i suoi panini ancora senza nome. Finché un giorno del 1925 fu fondato il Paterson Museum di 2 Market Street, dove c’era in mostra, tra gli altri reperti bellici e industriali, un vecchio sommergibile del 1901, il Fenian Ram, con la tipica forma a siluro dei cartoon. Lui lo vide e subito lo riconobbe: era proprio come un ottimo panino, quella cosa lì. E viceversa, mamma mia!

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