In ogni articolato frangente dell’esperienza umana, riverbera l’imprescindibile commento: il diavolo risiede nei dettagli. O in altri termini, il demonio è colui che andando contro il senso comune, si occupa di localizzare, evidenziare e risolvere i dettagli. Piccoli o grandi problemi, capaci d’inficiare la realizzazione di ottimi propositi o magistrali aspettative. Il succo, dopo tutto, era questo: per William Horace Colthorp, fondatore e futuro direttore della prima filiale della Vernal Bank, nell’omonima cittadina in una valle del remoto Utah, il costo di costruzione del saliente edificio risultava TROPPO elevato. Durante la fatidica estate del 1916, la compagnia fornitrice della Salt Lake Pressed Brick Company aveva fissato una tariffa di consegna dei circa 15.000 mattoni da impiegare per l’esterno del palazzo ad una cifra capace di raddoppiare, persino triplicare la cifra investita nel loro acquisto. Questo perché Vernal, distante dalla ferrovia, richiedeva al fine di raggiungerla un sinuoso tragitto di tornanti tra picchi montani, capace di mettere in difficoltà e usurare la maggior parte degli automezzi utilizzati allo scopo. C’erano a questo punto, soltanto due possibilità: utilizzare dei mattoni meno resistenti e piacevoli allo sguardo, acquistati presso una piccola fabbrica locale; oppure, adattarsi, improvvisare, superare l’ostacolo. Allorché Colthorp, da scaltro uomo d’affari quale doveva necessariamente essere, collegò i puntini di un’utile risvolto logistico del gennaio di tre anni prima. Quando l’USPS (Servizio Postale Statunitense) aveva lanciato, con grande fanfara della stampa e il passaparola del proprio bacino d’utenza, il nuovo servizio, del Parcel Post, offrendo l’opportunità di spedire, pressoché ovunque in uno degli allora 48 stati, pacchi del peso unitario di 5 Kg, aumentati a 20 entro agosto del 1913 e addirittura 30 l’anno successivo, salvo una permissiva qualifica di carichi giudicati “Eccessivamente pesanti o inusuali”. Una mossa compiuta con il fine d’incentivare il commercio a distanza ma che si sarebbe rivelata gesto salvifico nei confronti di tutte quelle comunità, come Vernal, che risultavano condizionate da collocazioni remote o impossibilità ad accedere ai servizi di approvvigionamento convenzionali. Si rivela a tal proposito come la ridente cittadina oggi composta da 10.000 abitanti stesse per l’appunto sperimentando in quegli anni un boom edilizio senza precedenti, facendo affidamento sugli instancabili postini per ricevere direttamente presso i suoi cantieri utili materie prime, quali chiodi, cemento, intonaco e pietre di volta. Ma nessuno aveva mai pensato di agire fino ad allora su una scala paragonabile a quella che si stava profilando nel frangete. E nessuno avrebbe mai potuto farlo in seguito, per la maniera in cui le regole sarebbero state cambiate proprio in funzione di quanto stava per accadere. Colthorp prese infatti accordi con la fabbrica, per incartare ciascun singolo mattone e posizionarli in gruppi di dieci all’interno di pratiche scatole di legno. Per un peso di ciascun contenitore leggermente inferiore ai 30 Kg consentiti, ed un prezzo di consegna calcolato per singolo oggetto pari a 7 centesimi, perfettamente abbordabile considerata l’importanza del progetto finale. Ciò che venne dopo, si sarebbe rivelato salvifico, ma anche condizionato da svariate connotazioni obliquamente definibili come “infernali”…
consegne
La rustica possenza del chukudu, scooter muscolare al servizio dell’economia del Congo
Chi ha mai detto, o anche soltanto pensato che ricostruire i crismi della società contemporanea sarebbe stato semplice, dopo il trascorrere di quel momento esiziale che segnerà la fine di ogni cosa? Dopo i conflitti armati, l’auto-annientamento, la catastrofe ambientale seguita da miseria e disordini civili per almeno due, quattro generazioni condannate a vivere di sforzi quotidiani e privazioni pressoché costanti. Così come sperimentato largamente dall’incolpevole popolazione di Goma, città di medie dimensioni sul confine orientale della Repubblica Democratica del Congo, la cui storia contemporanea è stata un susseguirsi di momenti poco conduttivi ai risvolti edificanti dell’esistenza: prima il genocidio rwandese nel 1994, seguito dalle due guerre del 1996 e 1998. Quindi lo sciame eruttivo del vulcano Nyiragongo nel 2002, sotto la cui ombra erano stati disegnati, molte generazioni fa, i confini di questo luogo idealmente ameno. Il che avrebbe lasciato, a seguito delle colate laviche, la pioggia di lapilli ed i sommovimenti tellurici, una rete infrastrutturale profondamente ed ampiamente danneggiata, compromettendo in modo significativo le potenzialità logistiche di questo demograficamente affollato e labirintico centro metropolitano dell’entroterra. Dalla più totale impossibilità di muoversi con biciclette convenzionali, semplicemente troppo fragili e leggere, al costo eccessivamente elevato di cui farsi carico per l’acquisto di veicoli dotati di sospensioni e pneumatici adeguati alle circostanze, ebbe origine una sorta di paralisi che pareva destinata a gravare sulla testa della popolazione, abbattendone l’economia e costringendo molti a ritornare a vivere nelle campagne circostanti. Mentre i membri più anziani delle famiglie cominciavano perciò a muoversi in tal senso, i loro figli e nipoti si fecero i fautori di un’approccio al tempo stesso innovativo e tradizionalista alla questione. Agevolando la trasformazione, relativamente graduale, di quella flotta spropositata di carriole e carretti usati per prolungare l’agonia logistica del loro luogo di nascita con qualcosa di già conosciuto, ma difficilmente operativo nelle quantità che stavano apparendo un giorno dopo l’altro lungo il tragitto serpeggiante di una simile rete disagiata: chu-ku-du era il suono che producevano ed anche il nome scelto per definirli, fin dai remoti anni ’70 in cui, si dice, furono inventati dal portoghese immigrato in Angola nella città di Uige, che ne aveva costruito il primo prototipo funzionale a tutti gli effetti. La risposta a una domanda che aleggiava sostanzialmente nell’aria di quell’epoca, su come avrebbero potuto i nativi africani provvedere alle necessità di trasporto delle merci e beni di un contesto sui confini della modernità, senza le flotte di furgoni ed altri mezzi di trasporto possedute dalla maggior parte dei paesi industrializzati. Quesito per rispondere al quale egli avrebbe posto assieme due piccole ruote di legno ad un asse orizzontale, sormontato da una forcella col manubrio simile alle corna di un toro. E l’aspetto complessivo vagamente riconducibile a quello di un monopattino sovradimensionato, benché fossero proprio le proporzioni a cambiarne radicalmente le potenzialità e doti funzionali inerenti. Così che, a quei tempi in quantità piuttosto limitata, aveva iniziato a girare per le strade comuni la nuova figura professionale del chukodista o chukodour, una sorta di ibrido tra facchino e tassista, il cui gesto maggiormente riconoscibile consisteva nel posizionare un ginocchio sull’apposito cuscino costituito da una pantofola di gomma fissata all’assale del mezzo, mentre l’altra gamba si occupava di spingere innanzi il suo veicolo a due ruote. Opportunamente ingombro, nella maggior parte dei casi, di una quantità di merci fino a un massimo di 800 Kg. Abbastanza per assecondare le necessità di un’economia moderna, priva di quei mezzi e strumenti che noi siamo abituati a dare largamente per acquisiti…
L’espediente logistico dei camion che si alzano per salutare il Sole
Moderna cavalletta di metallo che s’innalza, le sue zampe quasi perpendicolari al suolo. Una testa temporaneamente priva di occhi, scesi prima di effettuare il gesto e dare l’ordine: “Capo, siamo pronti. Sollevare!” Quale verso può seguirti, nel tuo lungo viaggio verso il cielo? Che pensieri ti accompagnano al momento in cui sarai di nuovo libera, dal peso e dal bisogno, dallo stato di suprema servitù procedurale? C’è in effetti un sentimento, che prende l’origine all’interno del “cervello” rimovibile di simili creature (colui o colei dotato/a, per sua autonoma immanenza, di due gambe, di due braccia… E così via a seguire) e che matura dal momento esatto in cui la coppia di esistenze si ritrovano a collaborare, ricevendo da una terza parte il carico alla base della loro operazione. Che può essere di molti tipi, ma il peggiore, da molti punti di vista, è quell’ammasso indivisibile, o Zeus non voglia che si tratti di biomassa (orribile, maleodorante. Benché un ottimo concime) o ancora oggetti piccoli e persino granulari, fluidi simili alla sabbia; roba, insomma, che una volta dentro al tuo cassone non sarà poi tanto rapida a lasciarlo.
Già perché la cavalletta, in molti tendono a chiamarla un autoarticolato. Ed il momento che sto descrivendo è la Consegna: quando l’eventuale stress accumulato, in una guida lunga centinaia, oppur migliaia di chilometri, deve trasformarsi nella forza necessaria per portare a termine l’ultima delle sfide: manovrare col velante, con il cambio ed i pedali, finché il mostro insettile non venga messo in posizione. Affinché la natura, se così siamo disposti a definirla, possa compiere il suo corso pre-ordinato. Ora mettere qualcosa dentro, ovvero dare da mangiare alle creature di quel mondo, non è mai difficile. Mentre arduo tende a risultare, sopratutto per quelle cose che non possono fare affidamento su un sistema digerente, tende a volte a risultare l’escrezione. Il che in ultima analisi, non è certo condizione necessaria nella vita del trasportatore! Quando esiste, sul pianeta Terra, quella forza che può compiere il miracolo sostituendosi a noialtri, le persone. Già, la forza che governa sopra tutte le altre: che dicono si chiami Gravità.
Ecco dunque la ragione, di una simile Fatica: quelle “zampe” sono parte, a conti fatti, di un dispositivo. Idraulico, possente, fatto tutto di metallo. Che una volta preso il camion dalle redini del suo padrone, sfruttando l’energia che viene da una serie di motori elettrici, lo sollevano fino a un’angolazione di 60, 65 gradi. E poi lo scuotono, con poderosa enfasi, facendo fuoriuscire tutto il contenuto del suo corpo cubitale. Semplicemente magnifico, a vedersi! E stranamente sconosciuto, fuori dal proprio settore tipico di appartenenza. Che può includere, a seconda dei casi, il trasporto di segatura, carbone, pietrisco e altri materiali da costruzione, pneumatici, grano e addirittura frutti della terra come le patate o rape, indelicati per definizione, privi di un qualsiasi filtro dai detriti fino al termine ultimo della filiera. Detriti che finiscono, tutti assieme, entro il silo o nastro trasportatore situato sotto quello che potremmo definire, in lingua inglese, come Truck Dumper o Hydraulic Dumper. Oppur nel nostro idoma, lo Scaricatore. Imparare a conoscerlo, è dovere…
Le miniere di Moria sotto la città più popolosa del Missouri
In alto sopra il corso gremito dai visitatori del sabato pomeriggio, la mongolfiera di Phileas Fogg e il fido servo Passepartout ruotava lentamente sopra una colonna, costruita in modo tale da non dare eccessivamente nell’occhio. Il rombo rapido ai margini della coscienza, un treno molto rapido, che percorre le rotaie del Morgan Steel Hypercoaster: siamo in Africa signori, ma non l’AFRICA, bensì l’omonima sezione del parco a tema World of Fun di Kansas City (Missouri) ove ne figura una per ciascun diverso continente. Un luogo il quale, piuttosto che essere dedicato al mago di Oz e la bambina Dorothy (“Ho l’impressione che non siamo più in Kansas, Totò…”) ha incontrato l’obiettivo di rappresentare, in forma d’intrattenimento per grandi e piccini, il celebre racconto di Juls Verne su Il giro del mondo in 80 giorni. Ed è a un tratto di quel giorno sotto un limpido cielo autunnale, che i rumori del traffico si fanno per un attimo distanti. Il giro delle attrazioni più rumorose si conclude in una rara sincronia e sul parco cala un attimo di relativo silenzio; seguito da un boato che parrebbe provenire dal Centro della Terra stesso. “Un t-terremoto…?” Esclama qualcuno, titubante. Ma tra gli abitanti del posto non sembra serpeggiare nessun tipo di preoccupazione: “Niente paura.” Gli risponde l’uomo anziano più vicino, memoria storica della città: “Hanno soltanto ricominciato a scavare.
Particolarmente sorpreso potrebbe risultare essere un turista, in effetti, nello scorgere le gallerie presenti sulla 8300 e la Derrough drive, entrambe usate in apparenza per immettersi all’interno della stessa montagna. Eppure, stranamente, disallineate: quasi come se là dentro, invece che un singolo pertugio, figurasse la più logica ed estesa continuazione della città stessa. Quasi come se… Subtropolis. Un luogo come tanti altri, ma più grande. Ovvero la stessa definizione, in senso lato, che potremmo attribuire alla decaduta città dei Nani tolkeniani esplorata nel primo libro della trilogia del Signore degli Anelli. Nella cui storia figura, al posto del re Durin I, il grande magnate del mondo dello sport statunitense Lamar Hunt (1936-2006) già possessore d’innumerevoli squadre, nonché fondatore dell’American Football League, la Major League Soccer e il World Championship Tennis, oltre ad aver inventato personalmente il termine Super Bowl. Ma anche possessore, assieme ai suoi fratelli, di numerose imprese nel campo dell’estrazione e industria mineraria, inclusa la gigantesca miniera del Missouri River, scavata a partire dagli anni ’40 con la tecnica ben collaudata del room & pillar, metodo consistente nella costruzione di vaste sale sotterranee, inframezzate da pilastri del tutto simili a quelli dell’antica Khazad-Dûm. Almeno finché le preziose rocce calcaree del substrato sottostante formatisi 270 milioni di anni fa, gradualmente, iniziarono a esaurirsi negli anni ’50 del ‘900, portando i dirigenti della compagnia, assieme al loro fondatore, a interrogarsi su quale potesse essere il futuro della proprietà. Il che avrebbe portato alla costruzione, in superficie, dei due parchi giochi Worlds e Oceans of Fun. Ma dev’essere sembrato un grande spreco d’opportunità, non tentare d’impiegare in alcun modo i circa 5,1 milioni di metri quadri risultanti dagli scavi dei lunghi anni pregressi, se consideriamo quello che la compagnia d’investimento immobiliare degli Hunt avrebbe avuto modo d’inventarsi, di lì a poco…