Nel romanzo del 1905 di Jules Verne, Kipps: storia di un’anima semplice, il protagonista incontra la sua amica d’infanzia ritrovata, e futura spasimante Ann in presenza di “un Labirintodonte verde e oro, così magnifico sopra le acque del lago”. Non propriamente un ennesimo ritorno alla Preistoria, a cui le precedenti opere di questo antesignano del fantastico di avevano abituato, bensì la fedele descrizione di un punto di riferimento statuario davvero esistente, all’interno del Crystal Palace Park. Ovvero quello spazio designato, presso il rilievo londinese di Sydenham Hill, come punto d’arrivo del trasloco della singola costruzione vittoriana temporanea più incredibile, nonché una delle maggiori costruite al mondo. Se il protagonista provinciale delle tante disavventure della narrazione avesse a questo punto accompagnato la ragazza fino ai margini del parco, oltre la via d’accesso principale che conduce alla zona di Greenwich, i due si sarebbero a questo punto imbattuti in un semi-nacosto ingresso verso i “misteriosi” sotterranei dell’ambiente metropolitano. E proprio qui, al termine di una lunga scalinata, avrebbero potuto fare l’ingreso in una sala degna di essere chiamata fiabesca, da ogni accezione di quel termine liberalmente utilizzato senza vere cognizioni di fatto. Ma chi avrebbe mai creduto che uno spazio tanto simile alla cripta di una cattedrale bizantina potesse trovare la collocazione, sotto il cemento ed il selciato di un comune viale? 18 colonne di mattoni ottagonali, sormontate da una volta a botte dal disegno geometrico di rombi interconnessi. Tratteggiato grazie all’utilizzo di maioliche in alternanza, color crema ed arancione, con rosoni situati nelle vie di fuga, raffiguranti dellle immagini dell’Astro Solare. Quella stessa stella diurna che, secondo un popolare modo di dire, non sarebbe mai realmente tramontata sui possedimenti del grande paese sotto l’egida di Queen Victoria. Così come volutamente ricordato, dalle molte meraviglie tecnologiche, scientifiche ed ingegneristiche, di quello che sarebbe stato ancora per svariate decadi uno dei punti di riferimento londinesi più famosi su scala nazionale e nel mondo, qui raccolte da un esperto comitato nell’equivalenza finemente ornata di una trasparente basilica di 84.000 metri quadri. Ma così come la gloria degli Imperi non può durare per sempre, lo stesso vale per le serre colossali, non importa quanto attenta e puntuale possa essere stata la loro costruzione…
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L’enorme grattacielo che incorpora il massiccio peso della storia a Kuala Lumpur
Ed è una mera semplice realtà dei fatti, che la storia riconosca un primo e un ultimo in classifica, ma praticamente a nessuno importi tutto quello che si trova in mezzo. Arrivare secondi, in senso oggettivo, può costituire un ottimo risultato. Ma fuori dalla sfera introspettiva ed autoreferenziale, può sostanzialmente equivalere ad una goccia di mercurio nell’infuriar della tempesta generazionale. 10 gennaio del 2024, di fronte allo stadio Cangkat detto “dell’Indipendenza” (in bahasa/tamil: merdeka) presso 50150 Kuala Lumpur, Territorio federale di Kuala Lumpur: alla presenza del Re, del Primo Ministro e gli altri principali rappresentanti dello stato, la principale metropoli peninsulare del Sud-Est Asiatico ha visto inaugurare l’ultimo e più significativo esempio di un qualcosa che gli è sempre risultato particolarmente affine. Il tipo di megastruttura, alta e stretta, che possa figurare lungamente negli annali statistici ed ingegneristici come uno dei grattacieli più imponenti al mondo. La torre che, persino nell’affollato skyline della città popolata dalle celebri Petronas e l’Exchange 106, risulta oggi idealmente capace di gettare la propria su chicchessia. Questo perché essa costituisce, allo stato attuale, il secondo edificio più alto al mondo dopo il Burj di Dubai. Sebbene circa 23% dei suoi 678,9 m siano sostanzialmente occupati dalla struttura più che altro scenografica di un’antenna o guglia, che in epoca pre-moderna sarebbe stata probabilmente occupata da un campanile. Ma in questo momento storico di rinnovata stima nei confronti dei nazionalismi, vuol essere qualcosa di profondamente e significativamente inaspettato: il braccio teso verso il cielo di niente meno che Tunku Abdul Rahman (1903-1990) già politico e primo ministro del paese nonché padre nobile della sua stessa patria, dal momento in cui, nel 1956 pronunciò l’epocale discorso contro il colonialismo ed il controllo britannico del territorio malese, terminante nel grido reiterato di “Merdeka! Merdeka!” Che secondo il canone ufficiale riecheggiò tre volte, sebbene testimoni ancora in vita giurino che il grande personaggio storico l’abbia ripetuto per un gran totale di sette. Così trasferito, al giorno d’oggi, in proporzioni in senso fisico ancor più imponenti, tramite l’implicita metafora rappresentata dal suddetto grattacielo. Giacché il Merdeka 118, così chiamato dal suo numero di piani totali, vorrebbe essere la sostanziale rappresentazione, minimalista ed astratta, della sua stessa figura vista di profilo…
L’abisso decennale degli incauti da cui era stato estratto il primo granito statunitense
Sulla strada periferica di Ricciuti Drive, in quello che è ormai diventato un sobborgo meridionale della principale città del Massachusetts, un cartello ammonisce i visitatori: “Attenzione: il parco è chiuso dopo il tramonto. Zona di rimozione negli orari serali.” Ma non è chiaro cosa sia situato, esattamente, dietro quella copertura di alberi svettanti e fronzuti. Finché inoltrandosi dietro la svolta, non si scorgono gli alti macigni ricoperti di graffiti variopinti, con al centro una radura di terra erbosa e compatta. Esattamente là, dove in un tempo non così lontano, tendevano frequentemente ad annegare le persone.
Si tende oggi a guardare agli anni ’80 e ’90 come un’epoca dorata, in cui i giovani vivevano nel quotidiano senza la continua tentazione di rifugiarsi oltre la tenda del digitale. Serate fuori, socializzazione, divertimenti all’aria aperta. E soprattutto, nessun bisogno di apparire “migliori” sotto la lente implacabile dei social network e l’inquietante forma mentis che tende tanto spesso a derivarne. Osservare un periodo della storia recente con oggettività, tuttavia, dovrebbe voler dire apprenderne gli aspetti negativi assieme a quelli da commemorare sulle cartoline. Comprendere davvero la maniera in cui l’oscurità dell’anima delle persone ha sempre ricercato il modo di costruire gerarchie tra gli abitanti dei contesti condivisi. In maniera non meno terribile, quando il mondo materiale era il teatro di quel tipo di battaglia priva di una via d’uscita che potesse soddisfare le ambizioni di ognuno.
Così capitava tanto spesso, tra i liceali e gli universitari bostoniani, che qualcuno perpetrasse la necessità di sopravvivere ad un importante rito di passaggio: il salto nelle cupe acque della vecchia cava allagata di Quincy, da rocce sfaccettate che potevano raggiungere anche i 20 o 30 metri d’altezza. Al termine di una serata che iniziava tra la gioia e le risate; proseguiva al tavolo di alcolici o narcotici di varia natura; individuava il suo coronamento, tristemente inevitabile, in terribili tragedie familiari. Viene riportato a tal proposito che le vittime, principalmente i molti tuffatori che batterono la testa, scomparvero sotto la superficie, esalarono l’ultimo respiro tra le acque torbide dell’incidentale bacino, raggiunsero un gran totale di 51 tra il 1960 e il 1998 per una media di 1,3 l’anno. A un ritmo tale che in certi periodi la polizia e gli altri soccorsi, ogni qual volta accorrevano sulla scena successivamente all’ennesima sventura, finivano per ritrovare altri cadaveri, ancor prima di quello indicato dai compagni o colleghi dell’ultimo individuo transitato a miglior vita tra le scoscese pareti di pietra. Per una serie di malcapitate eppur dannatamente comprensibili ragioni. In primo luogo, la vicinanza al centro cittadino e la facilità con cui un simile tetro poteva essere raggiunto dalle persone. Seguìta dalla relativa segregazione, lontano dall’occhio scrutatore di qualsivoglia autorità o guardiano designato dalle autorità cittadine. E poi c’è il fascino tentatore, di un’attività che in linea di principio poteva sembrare così facile da portare a compimento: “Se l’hanno fatto gli altri, perché rifiutarsi? Che fai, non ti butti?” Quindi circa un ventennio prima degli anni 2000, la sempre nutrita fazione americana di coloro che volevano Cambiare le Cose in Meglio pensò bene di far collocare in queste acque vecchi pali telefonici e tronchi d’albero nel tentativo di scoraggiare i tuffatori. Ma nel giro di pochi mesi, appesantiti dall’umidità, gli oggetti ben visibili finirono per scomparire sotto la superficie. Così che le vittime, purtroppo, continuarono ad aumentare…
Londra inaugura lo scavo che dirotta le acque nere dal corso del vecchio Tamigi
Joseph Bazalgette è l’ingegnere di epoca Vittoriana, un tempo in cui la professione veniva celebrata in Inghilterra al pari dei politici e i campioni sportivi, responsabile di uno dei progetti che, più di ogni altro, forgiarono l’aspetto e le vigenti condizioni della capitale d’Inghilterra nei tempi moderni. Nato a Clay Hill, figlio di un capitano di marina che aveva condotto il proprio apprendistato nell’azienda ferroviaria del celebre Macneil, entrò a far parte della commissione metropolitana nel 1849, dove iniziò a supervisionare il mantenimento e l’ottimizzazione per i sistemi sotterranei cittadini. Anni dopo, nell’agosto del 1858, si verificò l’evento principale della sua carriera: la terribile grande puzza che come una cappa, gravò sopra le strade fino al punto di causare sofferenza, malanni e l’ennesima epidemia di colera. Non era più possibile, sostanzialmente, negare che le fogne necessitassero di un radicale rinnovamento. E lavorando alacremente con concentrazione ai limiti della capacità umana, egli diede il suo importante contributo: si stima che entro la fine del XIX secolo, sfruttando i piani che in buona parte aveva personalmente disegnato sarebbero state completate 89 nuove miglia di tunnel, dotati di un sistema d’emergenza a prova di inondazioni. Giacché in caso di necessità, piuttosto che tracimare allagando strade ed abitazioni, l’eccedenza idrica sarebbe stata convogliata nel grade fiume e verso le ampie acque del Dogger Bank, risparmiando agli abitanti nuove orribili esperienze coi miasmi mefitici capaci di distruggere qualità e durata della loro vita. Arrivare ad un qualcosa di tanto efficace, con largo anticipo rispetto al resto del mondo, può d’altronde comportare dei problemi addizionali e di non facile previsione. Giacché la città di Londra, che allora aveva circa una metà della popolazione odierna, giudicò per oltre un secolo di aver fatto già più che abbastanza. Mentre ciò che doveva capitare solamente una o due volte l’anno, diventò la semplice normalità, sterminando essenzialmente ogni forma di vita acquatica che osasse avventurarsi tra i flutti dell’antico fiume sovrastato dal Parlamento. Procedendo un lungo periodo d’introspezione e valutazione dopo l’inizio del nuovo secolo, attorno al recente 2015, è stata infine costituita una commissione, destinata a elaborare il grave grattacapo da diverse angolazioni. Per giungere ben presto all’unica conclusione possibile, che un’operazione simile dovesse essere intrapresa nonostante il costo proibitivo. E una nuova, gigantesca, gigantesca cloaca ricavata a partire da quella tradizionale dello Stratford to East Ham tunnel, fino allo storico impianto di riciclo e smaltimento delle acque di Beckton, vicino Newham. Il progetto, nonostante la partecipazione d’importanti investitori privati tra cui Allianz, Amber e DIF, avrebbe avuto un costo per le casse dell’erario totalmente privo di precedenti per le simili questioni urbanistiche nei nostri giorni: all’incirca 5 miliardi di sterline tanto che in molti si sarebbero qualificati come detrattori di una simile idea. Ma di fronte all’evidenza, il Thames Tideway Tunnel iniziò un lungo viaggio produttivo destinato a concludersi, sotto molti punti di vista, con l’azionamento delle ultime chiuse verso la metà dell’attuale febbraio 2025…