Molte sono state in questi anni le battaglie vinte o perse, da un punto di vista commerciale ed in merito alla popolarità raggiunta, grazie all’algoritmo di YouTube. Serpeggiante essere, pappagallo esploratore, lucertola scattante, che inoltrandosi tra i fusti paralleli dell’enorme quantità di dati che oltrepassano ogni giorno i cancelli dell’Empireo digitale, ci conduce giorno dopo giorno verso l’una, oppure l’altra direzione. Così che una volta registrati su quel sito privo di confini, se clicchiamo un video divertente realizzato in casa e poi montato con Adobe After Effects (o programma equivalente) il giorno dopo ce ne proporranno 10, oppure 15; oppure metti il caso che cerchiamo un celebre cartone anime degli anni ’80 sulla guerra spaziale tra mezzi bellici antropomorfi, o ancora scene di vita vissuta asiatica all’interno di una scuola: due dozzine e mezzo di spezzoni troveranno spazio, domattina, dentro il feed proposto all’apertura del nostro Internet Explorer, Firefox o Chrome. Ed infine può succedere, se siamo fortunati e in giorni assai particolari, che le tre diverse cose si combinino, come nella congiunzione dei pianeti o l’iper-trasformazione di un possente Goldrake delle circostanze, per indirizzarci verso quello che più di ogni altra possibile cosa, difficilmente ci saremmo aspettati… Vedi questo splendido canale, frutto del lavoro di sei ragazzi e due ragazze della città di Hong Kong sotto la guida del loro leader Pixel, il cui nome collettivo è Game Effects ed il tema una nutrita serie di cortometraggi ed opere recitative, registiche e di montaggio, sul tema straordinariamente affollato della cultura Pop contemporanea. Ma c’è qualcosa, qui, di veramente speciale: vedi per esempio il loro ultimo video, creato in occasione dell’evento fissato per il 5 gennaio 2020 nella loro città di una maratona a tema Gundam, uno dei franchise giapponesi più rilevanti a livello internazionale, organizzata per commemorare il 40° anniversario dall’andata in onda del capolavoro generazionale di Yoshiyuki Tomino, la cui prima stagione (o “serie” che dir si voglia) narrava dello spietato e spesso sanguinoso confronto bellico tra Amuro Ray, combattente civile trasformato abile in pilota da guerra dalle ardue circostanze dell’era spaziale 0079, e nientemeno che Char Aznable, asso mascherato del Principato Spaziale di Zeon, ancorché segretamente suo principe in esilio, ufficialmente scomparso dopo l’assassinio del suo stesso padre. Personaggi iconici, nell’intero continente d’Asia, almeno quanto quelli della prima trilogia di Guerre Stellari nel Mondo Occidentale, al punto che sarebbe difficile immaginare un qualche tipo d’esitazione in patria nel riconoscere quanto qui rappresentato da questi sette creativi d’eccezione: l’ennesima battaglia tra il Gundam e lo Zaku II, rispettivamente appartenenti a eroe ed antagonista, ricavati per l’occasione con il cartone in proporzioni Super Deformed (in pratica, la testa sovradimensionata per acquisire le proporzioni di un bebé) ed armati, niente meno, che con spada laser e ascia termica gonfiabili, dello stesso tipo che verrà fornita ai partecipanti della maratona hongkongese per enfatizzare il carattere commemorativo ed in qualche maniera commerciale di un tale evento. Così che, per i rispettivi piloti (Pixel stesso e quello che potrebbe essere, a giudicare dalla caricatura ufficiale, il membro del gruppo noto come 6dots) si affrontano non soltanto nella corsa m anche in una serie di scambi di colpi senza quartiere, culminanti con l’inserimento di una sorta di modalità “turbo” da parte dell’eroe, che lo fa balzare fuori dalla sua armatura per lanciarlo a pieno titolo nelle leggende del cortile della sua scuola. E a questo punto sarà interessante scoprire, per tutti noi, come questa non sia affatto la prima volta che i due guerrieri si affrontano dinnanzi alle telecamere del Web…
cartone
Il modo più rapido per trasformarsi nell’omino della Lego
Mentre ogni settimana le notti si allungano, e il tepore autunnale inizia a dissiparsi trascinato via dai venti della nuova stagione, i giorni di ottobre avanzano rapidamente verso il giorno cardine di una particolare serie di credenze. Che sia Halloween, Ognissanti, oppure il Dia de los Muertos, non importa quanto il brivido che ha origine da profondo del cuore, per estendersi fino alla punta delle dita dei piedi umani. Quando il significato dell’attesa cambia, e persino gli alberi sembrano assumere toni più cupi. Perché tutto è possibile, se si erode il sottile velo tra credenza e realtà. Incubo. Trasformazione. Metamorfosi. Un ritorno al senso di stupore e meraviglia che per sua stessa implicita definizione, trae l’origine dal mondo a volte misterioso dei bambini diventati ormai qualcosa di totalmente diverso. Il caso è raro e anche per questo, mai documentato: ci si sveglia un giorno con un senso di mal di testa, per l’emersione del bottone di montaggio del blocco “cappello”. Quindi s’ingrossano le braccia, mani, gambe, tendendo ad assumere un aspetto insolitamente squadrato. Le spalle si sollevano. Le ginocchia spariscono. Le mani si trasformano in crudeli pinze semi-circolari, in grado di ruotare a 360 gradi. Gli occhi, due puntini neri, accompagnati dall’unico altro tratto somatico di una bocca stilizzata che sorride in un rictus eterno e decisamente inquietante. La quale non si muove, non può muoversi, mentre dall’improbabile creatura si provenire uno strascicato richiamo: “Montaag-gio, montaag-gio!”
E il tutto non sarebbe poi così impressionante, se misurasse appena 4 cm, nell’espressione di un qualcosa che conosciamo fin troppo bene. L’elemento nato come fattore “umano” per le costruzioni più famose della storia danese comparso per la prima volta nel 1975, chiarendo finalmente la dimensione immaginaria dei blocchi modulari per le costruzioni creati da Ole Kirk Christiansen più di 30 anni prima di quella di data, All’epoca, non prevedendo certo di diventare un giorno il personaggio a sostegno di interi franchise d’intrattenimento, inclusi film e videogames, l’omino della Lego era qualcosa di molto più semplice ed impersonale. Una mera sagoma, senza neppure i lineamenti sommari sopra descritti, né braccia e gambe articolate o di nessun tipo. Poiché il cardine del sistema era il mondo delle cose, e perciò sembrava controproducente ridurre il numero di blocchi principali per produrre un qualcosa che comunque, non avrebbe avuto la capacità d’interfacciarsi più di tanto con il resto. Finché il figlio dello stesso Christiansen, Godtfred, non comprese qualcosa di straordinariamente fondamentale e forse all’epoca, meno palese che ai giorni nostri: l’assoluta identità tra gioco ed immedesimazione, ovvero l’importanza di fornire un’ancora ai piccoli, e non tanto piccoli utilizzatori del suo prodotto, prolungando l’esperienza di gioco ben al di là del semplice assemblaggio del contenuto della loro fervida fantasia. Fu un processo per lo più graduale, passando dai set degli anni ’50 dedicati alle categorie operose della società moderna, quali poliziotti, pompieri, addetti alle ferrovie, ad alternative più caratteristiche e fantasiose, quali reinterpretazioni pseudo-storiche del Medioevo dei galeoni dei pirati caraibici all’epoca delle grandi esplorazioni. E fu proprio allora, inevitabilmente, che l’omino iniziò ad arricchirsi di alcuni segni specifici di riconoscimento, quali bende sull’occhio, cappelli stravaganti, uncini e gambe di legno. Eppure senza mai perdere la sua inquietante ed innaturale conformità: tutti alti uguali, la pelle gialla come un Simpson, la posa rigida e impostata. Per tornare all’analogia da calendario, un po’ come gli scheletri del folklore messicano, in grado di superare ed in qualche modo costruire l’antitesi del concetto stesso d’identità. È incredibile quanto si possa cambiare, sfruttando semplicemente l’effetto di un costume ritagliato ed incollato a partire da qualche anonimo foglio di cartone!
L’epica battaglia dei cuochi di cartone
Preparare un pasto per le diverse centinaia di persone presenti alla grande festa campestre di Tallarook, nella parte meridionale dello stato australiano di Victoria, sarebbe già abbastanza complicato senza doversi accontentare di pentole, mestoli, forchette, ciotole ingredienti, forni, padelle, mattarelli e coltelli fatti in spessa cellulosa corrugata, ovvero quello stesso materiale con cui Amazon spedisce le sue cose. Non c’è dunque molto da meravigliarsi, in tali circostanze, che il nervosismo possa crescere fino ad un punto di rottura, con i pluripremiati chef chiamati per l’occasione (già vincitori di molti confronti precedenti) che finiscono per sottrarsi le risorse a vicenda, in un crescendo di reciproci dispetti che ben presto sfocia, come spesso capita da queste parti, in una zuffa dalle proporzioni cosmiche e spettacolari. La data è lo scorso 8 settembre e questa è la ventunesima edizione del Boxwars, un evento di “creatività e distruzione” patrocinato dall’omonimo comitato di due persone, Hoss & Ross Koger, che l’inventarono nell’ormai distante 2002, nella loro città di Melbourne, fin troppo ricolma d’invitante e splendido cartone. Come del resto, tutte le altre. Il materiale rigido dal costo inferiore al mondo, che fluendo da cartiere in luoghi raramente definiti percorre ogni sentiero a sua disposizione, per giungere in fine, benvoluto o meno, nelle nostre case dallo spazio limitato. In scatole oblunghe oppure cubiche, di molte fogge o dimensioni e poi che fare? Qualcuno lo conserva, colpito dalla sua presenza un tempo funzionale, finché la quantità e l’ingombro superano il mero senso del “un giorno mi servirà”. Altri, più spietati, lo piegano brutalmente su se stesso, poi lo gettano nel cassonetto più vicino. È una legge, essenzialmente, di natura: tutto ciò che può essere riciclato, dovrà fluire, fino ai luoghi di rinascita a vantaggio della collettività. Ma da un punto all’altro di questa filiera, tra una vita e quella successiva, è possibile trovare strade parallele per l’arricchimento degli antichi presupposti. Ciò costituisce, essenzialmente, un simile contesto battagliero.
Una Boxwars, per come è stata definita dai suoi creatori e poi perpetuata dalle sedi periferiche dell’associazione, di cui ce n’è almeno una in Canada ed un’altra in Inghilterra, ha ben poche regole fondamentali: la prima è che l’evento è assolutamente gratuito ed aperto a tutti, con un incoraggiamento a mettersi comunque in discussione, che si rivolge in particolare a coloro che non hanno esperienze creative precedenti. Poi si vieta l’impiego, per ovvi motivi, di punti metallici, puntine, fascette in materiale plastico o altri sistemi potenzialmente lesivi di rifinitura del costume. Sono ammessi solo colla (a caldo o meno) e scotch. È infine severamente vietato lasciare in giro la propria spazzatura o i “resti” di quanto si era scelto da indossare al termine della battaglia, che per di più si dovrebbe, idealmente, trasportare fino a un punto di raccolta. Viene quindi suggerito un tema. E ce ne sono stati diversi di memorabili, tra cui l’antica Roma, i pirati dei Caraibi, il Medioevo, le automobili mutanti del film Mad Max, la prima e seconda guerra mondiale, l’invasione dei robot… Altre volte, si tratta di concetti più figurativi e fantasiosi, come “la ribellione contro l’ordine costituito” oppure “la rinascita del mondo dalle ceneri della sua fine”. Ma i tre precetti più importanti dell’intera serie di eventi, definiti non a caso leggi, sono i seguenti: 1 – Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te; (ma questa già la sapevamo) 2 – L’unica competizione è nella creatività; 3 – [Massimo] Buon Senso; soprattutto quest’ultimo valore appare fondamentale, in un contesto in cui dozzine di adulti intabarrati si spintonano l’un l’altro, spingendosi a terra vicendevolmente come demoni invasati. Per le ragioni o i pretesti più diversi. Interessante è stata in modo particolare quest’ultima edizione, per la scelta di un tema alquanto inaspettato: una parodia, o riproposizione, del celebre programma di cucina della Tv giapponese Iron Chef (Ryōri no Tetsujin) in cui cuochi di fama si confrontano nella preparazione di pietanze attorno a un ingrediente comune, il quale si è qui rivelato una colossale, spaventosa aragosta marrone…
Le guerre di cartone si estendono a Lyon
Hai collocato l’ultimo televisore, hai costruito la specchiera dell’Ikea. Sei stanco ma felice, ma sopratutto: pieno di cartoni. Semi-sepolto da questo elemento corrugato che il supremo simbolo del consumismo, il frutto della linfa d’alberi sacrificati. Druidi piangono nella foresta. Tutto quel marrone condannato al cassonetto, ti circonda ed avviluppa, crea lo spirito di una visione. Osserva: Chtulhu coi blue jeans ed un arpione minaccioso, nella versione bipede e a misura d’individuo umano. Difficilmente gli dei abissali del crepuscolo, quei dormiglioni, potrebbero venirti a visitare senza un avatar per far da intermediario. E poi Alphonse Elric, l’alchimista fratellino che era un tempo stato senza un corpo, finalmente ritornato nella forma pre-trasmutazione, per di più armato e pronto a farsi rispettare nella mischia delle strane circostanze. Un paio di vichinghi che non han mai fatto male, soprattutto quando uno di loro è stato anche dotato di gustosa drakhar personale, barchetta barcollante fatta su misura, per il pregno rituale dei guerrieri. È questa, forse… La battaglia della spazzatura! Ecco Dovakhin il sangue del drago con due zanne sopra l’armatura, nominato dalle antiche profezie su Skyrim per lasciarsi addietro tutti gli altri, eroi distinti eppure uniti nello scopo di gridare FUS-RO-DAH! Ma perquà?
Era di certo l’alba di una giornata come le altre in questa palestra della Francia centro-orientale, benché di un 13 aprile ricco di sincera aspettativa. La ragione: un’occasione divertente ed inconsueta, questa messa-in-scena di un tipo d’incontri che soltanto raramente si verifica da noi in Europa (benché la situazione sia in un ripido divenire) ovvero l’anime convention il cui alias è comicon, quel punto d’incontro transitorio per tutti gli amanti delle cose fantasiose. Che tra l’origine dalle tipiche fiere-mercatino giapponesi, di pupazzi, piccole sculture plasticose o manga fatti in casa, per giungere a trasformarsi in un fondamentale strumento promozionale utile a chi pubblica o traduce queste cose, oltre a una suprema mascherata di una buona parte degli astanti. Immagina che convenienza! Vendere un qualcosa che è talmente amato dalla sua clientela, che la gente volontariamente si trasforma in cartellone pubblicitario, poi si reca in luoghi particolarmente affollati, per pavoneggiarsi innanzi al gusto della collettività. Ma non oggi, non stavolta, certamente non in occasione di questo Japan Touch “Haru” di Lyon (Giappone che tocca…La Primavera?) Il punto d’incontro-scontro scelto per la semestrale/bimestrale/trimestrale/quando diamine ti pare/ battaglia de Les Cartonnades, una recente ed affascinante invenzione del gruppo culturale French Boxwars, con sede nella prossima, relativamente piccola Dijon. 156.000 abitanti ca. contro i 496.000 della grande metropoli, ma almeno in parte, tesi a far qualcosa di creativo, dare un senso differente a ciò che sia lecito aspettarsi nella tipica fiera di paese. Due salti, un santo, una sfilata. Ed alla fine tutti assieme, nell’approssimazione metaforica di sangue e arena, per inscenare una battaglia cartonata tra guerrieri leggendari. Indossare un costume: che ottima maniera di sfogarsi. Se poi l’hai fabbricato tu personalmente, diventa pure divertente.