É la classica storia di “Azienda vecchia di oltre un secolo celebra il suo anniversario. Azienda costruisce nuovamente la replica dell’auto che negli anni ’20, il suo fondatore aveva regalato al figlio di 8 anni. Quindi, l’Azienda scopre che in un mondo colpito da una pandemia globale, persino 500 esemplari di veicoli elettrici in scala 1/2 con una velocità concepita per girare nei terreni privati di una grande villa, che costano circa il prezzo di una Nissan Leaf nel loro allestimento più accessibile, potrebbero non appartenere esattamente alla categoria più facile di oggetti da piazzare sul mercato. Per cui Azienda si rivolge alla potenza di marketing virale del Web, nella speranza di trovare nuovi spazi per un prodotto un po’ superfluo, certamente decadente ma che può definirsi, a pieno titolo, una piccola opera d’arte.” Non a caso c’è un signore di mezza età, e non suo figlio o nipote, alla guida dello strano e compatto veicolo nel video di presentazione offerto sul canale della compagnia inglese The Little Car Company, in qualità di collaboratrice e produttrice di un qualcosa che in origine il buon vecchio Ettore B. aveva creato, assieme al figlio adolescente Jean per il fratello di quest’ultimo, decidendo in ultima battuta di farne costruire qualche centinaio in serie, per i conti, duchi e nascenti capitalisti di un’Europa soggetta a significativi cambiamenti. Con il nome ragionevolmente descrittivo di Bugatti Baby, laddove carrozzeria, aspetto e funzionalità generali erano stati concepiti per riprendere quelli dell’allora celeberrima Tipo 35, senza dubbio una delle vetture da corsa di maggior successo nella lunga storia degli sport a motore. Oltre 2.000 vittorie nella stima più aggiornata, uno status leggendario nel collezionismo nonostante la quantità di esemplari prodotti ed ora, all’inizio del secondo decennio del secondo millennio… Questo. Ed emerge ad un preciso sguardo una certa passione, difficile da mettere in dubbio, nel modo preciso in cui sono stati ricostruiti i più minuziosi dettagli dell’ispirazione full-size dai fari sporgenti fino agli interni, probabilmente anche meglio del giocattolo motorizzato di circa 10 decadi a questa parte, al cui propulsore a combustione è stato tuttavia sostituito un impianto elettrico di concezione contemporanea, capace di operare a un ritmo “ridotta” di 20 Km/h aumentabili fino a 45 nel più costoso dei tre allestimenti, previo inserimento dell’apposita chiave di sblocco, dando vita a quello che potremmo definire come uno dei passatempi fanciulleschi più potenzialmente pericolosi da questo lato delle piccole armi da fuoco donate ai pargoli di certi ambienti, che lo stereotipo vuol essere soprattutto statunitensi. Tralasciando ad ogni modo il rischio d’incidenti, ciò che resta è una vettura creata molto chiaramente come oggetto di prestigio, espressione di quello stesso concetto di lusso che porta a ricoprire i telefoni cellulari o le mascherine di oro e gemme preziose, benché diretto, almeno in linea di principio, alle menti particolarmente fertili delle nuove generazioni. Poiché anche se un bambino o una bambina potrebbe non sapere esattamente cosa rappresenta o è veramente stata una Bugatti Tipo 35 all’epoca della sua reale commercializzazione, tutti possono capire, grazie all’interpretazione dell’altrui lingua del corpo, quale sia il valore non sempre arbitrario delle cose. Ed è guidando, come si usa dire, che vien la fame (di entrare di diritto nella Leggenda)…
bugatti
Il valore di un’auto che ha trascorso 70 anni in un lago
Persino in quel momento, ubriaco fradicio, quell’uomo aveva l’alone. Un tiepido lucòre, d’esperienza e savoir faire, quel senso del luogo e delle circostanze che i britannici, dall’altra parte del Canale, amavano chiamare smart-ness. Ma Adalbert sapeva molto bene che quella sera, finalmente, avrebbe avuto la vendetta tanto attesa. “Shick!” Singhiozzò René Dreyfus, premiato pilota francese da corsa poco meno che trent’enne, con alle spalle già una carriera di trionfi a Monaco, Rheims, Firenze, in Belgio, a Tripoli e in Nord Africa, al volante di auto che il cinematografo avrebbe chiamato, senz’ombra di dubbio, da sogno. “P-Poker alla texana, che cosa vuoi dire?” D’un tratto, il sommesso vociare della grande sala dell’Aviation Club de France, senz’altro la sala da gioco più alla moda di tutti gli Champs Elysees, sembrò calare di un tono. “Oh, vecchio amico mio! Ero certo che tu lo conoscessi già. Non dici sempre che vorresti aprire un locale a New York?” Ovviamente, nessuno avrebbe mai potuto dubitare della buona fede di Adalbert Bodé, famoso viveur della città delle luci, uomo dai molti pregi ed ancor più misteri, venuto dalla Svizzera per bucare il cuore delle fanciulle e dei loro mariti. Del resto la sua inflessione strascicata, lo sguardo vacuo e l’eccessivo entusiasmo provavano, in tutto e per tutto, uno stato d’inebriatura almeno pari a quello della controparte. “Guarda. È…È…Facilissimo. Si mettono tre carte sul tavolo, così. Poi, ciascuno ne prende due, coperte.” A quel punto, già stava iniziando a formarsi un capannello attorno al tavolo delle due celebrità nazionali. Di certo non molti, nella Parigi del 1934, già conoscevano le regole di quello che sarebbe diventato, di lì a una trentina d’anni, il gioco più amato dai migliori casinò di Las Vegas. “Ce l’hai? Le hai guardate? Perfetto. Ora immagina che stiamo già giocando. A questo punto, faremmo le nostre puntate. Poi si prende un’altra carta, così…” Ci fu un leggero tremolìo delle grandi lampade in sala, progettate per rispondere al gusto del nascente Art Decò. “E la si mette accanto alle altre. Lo vedi? Adesso sono tre. Ma in realtà, sarebbe più giusto dire, CINQUE. Perché formano, con quelle che io ho in mano, e tu hai mano, un’unica mano.” Qualcuno ridacchiò tra il pubblico, il pilota Dreyfus aggrottò le sue sopracciglia. “Si, proprio così. Lo scopo del gioco è formare delle serie vincenti, come nella versione più classica. Ma una certa quantità di carte sono in comune, e scoperte. Dopo il primo giro di puntate, si aggiunge una quarta carta sul tavolo. Così alla fine, ogni giocatore ne avrà un totale di SEI. Non è divertente?” Mormorio d’approvazione diffuso. “Shick!” Fece Dreyfus “C-Carino. Ehi, ma tu sei davvero u-ubriaco?!” Adalbert ridacchiò in modo sciocco. Quindi si versò il quarto bicchiere dello champagne più a buon prezzo di uno dei bar più cari del quartiere più rinomato, della città più famosa. “Certo!” Le labbra ritirate a mostrare i denti. Un lieve risucchio d’aria, perfettamente udibile dall’altro lato del tavolo: “Certo, che lo sono.” La folla, compreso che il momento non era ancora arrivato, si allontanò momentaneamente. Restando, comunque, fin troppo pronta a testimoniare…
E così, la serata trascorse tranquilla, almeno per il paio d’orette a venire. I due uomini parlarono a lungo di vari argomenti, della ferrovia della Pennsylvania, che recentemente aveva esteso i suoi binari fino alle propaggini meridionali dei Grandi Laghi del Nord. E del progetto ancor più ambizioso, fortemente voluto dallo zar Nicola II, di ultimare una via ferrata da Mosca a Vladivostok, attraverso la sperduta Siberia “Ah, quei russi! Non ce la f-faranno mai!” Esclamò il francese. In ultima analisi, pareva essersi ripreso un po’ dalla sbronza. Quindi, l’argomento passò alle gare d’automobili, ed alla breve rivalità intercorsa tra i due, quando Adalbert, prima di trasferirsi a Parigi, correva da privato nei campionati della Côte d’Azur. “Così, sei venuto in Bugatti. È l’auto che credo?” Dreyfus battè la mano sul tavolo: “Lo sai benissimo! Shick! Certo che si. La Tipo 22 del ’25, quella che avevo la sera. La sera di…” A questo punto, la gestualità si fece concitata. Adalbert gli fece cenno di fermarsi. Troppe persone, ancora, stavano prestando orecchio alla loro conversazione. Ma nello stesso tempo, la sua espressione si animò. Gli occhi si spalancarono, la bocca si alzò agli angoli in un accenno di sorriso: “Ottimo, fantastico!” Entrambi sapevano che cosa significava una tale ammissione. C’era una storia, dietro. Già Dreyfus, uomo di parola più che ogni altra cosa, adocchiava l’immacolato mazzo di carte. Era giunto il momento lungamente atteso: “Come promesso. Giochiamo?”