Il vecchio cuore nella ruota della leggendaria moto a trazione anteriore

Se si considera la questione da un particolare punto di vista, la tipica moto presenta molti elementi non propriamente indispensabili al suo funzionamento. Quali sono i benefici arrecati all’esperienza di guida da semplici inezie quali un carburatore, la trasmissione, un sistema di marce o persino la frizione? I cavalli non possiedono simile caratteristiche, eppure siamo pronti ad associarli alla figura del centauro, che implicitamente veneriamo nell’ambito di questa particolare espressione dei trasporti individuali umani. Una creatura che ha sorpassato l’implicito limite degli esseri a due gambe. Per diventare qualcosa, o qualcuno d’infinitamente più veloce e resistente alla fatica. Almeno finché non termina la benzina. E non ci sono dubbi che il guidatore medio della strana motocicletta oggetto della nostra trattazione, la sincretistica Megola prodotta nel 1921 dai tedeschi MEixner, COckerell, e LAndgraf (a quanto pare il portmanteau MeGOla non piaceva o era già preso) si sarebbe reso conto dell’incombente verificarsi di una tale contingenza, vista la necessità frequente di “pompare” il contenuto del serbatoio principale sotto il suo sedile verso la piccola borraccia rettangolare situata a destra della ruota anteriore stessa. Questo per il piazzamento alquanto insolito del suo motore in corrispondenza del mozzo di quest’ultima, al tempo stesso un punto forte, ed importante limite, dell’approccio progettuale dei suoi creatori. Il che non definisce ancora l’effettiva portata rivoluzionaria del modello, quando si considera la natura e l’effettivo funzionamento di tale impianto. Superficialmente catalogabile nel gruppo dei motori radiali per la distribuzione a stella dei suoi cinque cilindri, a partire da un punto centrale in questo caso corrispondente al mozzo stesso dell’implemento. Perché analogamente a quanto fatto da taluni dispositivi di propulsione appartenuti agli aerei della prima guerra mondiale, in questo singolare caso, qui era l’intero assemblaggio a ruotare assieme allo pneumatico finalizzato a incorniciarlo, mentre borbottando egregiamente si occupava di spingere innanzi la restante parte della moto e il suo adattabile utilizzatore. Pensereste infatti, forse, che l’esperienza di utilizzo di una Megola possa essere in qualsiasi modo ricondotto a quello di un biciclo contemporaneo? Sappiate che ciò è molto vero e al tempo stesso, in maniera non del tutto prevedibile, molto difforme dalla verità dei fatti. Tanto per cominciare, a causa del fatto che l’ingegnoso marchingegno con la sua strana configurazione non poteva, in alcun modo fermare del tutto la sua marcia a meno di uno spegnimento completo. Motivando l’inclusione per niente ironica nel manuale d’uso e manutenzione del diagramma a forma di otto che il coraggioso uomo a bordo avrebbe dovuto percorrere, idealmente, durante le soste obbligatorie di fronte alle “luci robotiche” degli incroci. Che poi null’altro erano che i primitivi semafori del primo quinto del secolo scorso. Un’epoca in cui la carenza di traffico, se non altro, lasciava spazio sufficiente all’implementazione di simili strani, ed in qualche modo funzionali esperimenti…

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L’ingegnosa tecnologia della tanica che cambiò il modo di approvvigionare un’armata

Da un certo punto di vista particolarmente significativo, il più alto riconoscimento implicito per un progettista industriale può essere individuato nel furto del suo brevetto. La replica, punto per punto, dell’idea prodotta dal profondo della mente, tanto pervasiva da offuscare totalmente l’attimo all’origine della sua stessa invenzione. Proprio come se fosse esistita da sempre. In pochissime parole, esattamente quanto capitato a Vinzenz Grünvogel negli anni successivi al 1937, quando il suo capolavoro prodotto nel corso della lunga carriera presso la Schwelmer Eisenwerk Müller & Co. di Schwelm nella Vestfalia, uscì dai cataloghi di attrezzi e altri oggetti prodotti in metallo. Per sconfinare in maniera molto facile all’interno della collettiva percezione del bisogno. Complice la più grande e pervasiva tra le molte tragedie del Novecento, poiché purtroppo c’è ben poco di più pratico che possa immaginarsi, di una tanica per la benzina, nel corso di un conflitto d’armi e veicoli di varia natura.
Lo sapeva molto bene Hitler o quanto meno ne erano coscienti i suoi generali di stato maggiore, quando dotarono le truppe incaricate della formidabile operazione Blitzkrieg finalizzata a scardinare le difese dell’Europa Occidentale, per la prima volta messe alla prova fin dall’epoca della Grande Guerra, di un particolare quanto innovativo kit finalizzato ad “approvvigionarsi sul campo”: nient’altro che una scatola ed un tubo. Da usarsi di concerto, ogni qualvolta si trovavano di fronte a un’automobile civile, un benzinaio o altra possibile ed accidentale fonte, di quell’odoroso fluido ancor più rilevante, nell’odierno territorio ostile, della mera dotazione utile al razionamento. Cibo per i veicoli ed i carri armati, contenuto in quelle che ben presto cominciarono ad essere chiamate dai soldati degli Alleati con il termine di “Jerry” cans (barattoli) dallo slang dell’epoca riferito alle persone o cose di nazionalità tedesca. Ogni qualvolta ci fosse l’opportunità di catturarne alcuni per poterne trarre un immediato quanto innegabile giovamento. Questo perché la Wehrmacht-Einheitskanister (recipiente di dimensioni standard dell’esercito) presentava una serie di accorgimenti tecnici e un qualità produttiva generale tali, nel suo complesso, da rappresentare un letterale anacronismo nel contesto tecnologico della sua Era. Soprattutto quando confrontata con le soluzioni di cui erano dotati gli schieramenti dei rispettivi contrapposti paesi. A partire dalla forma, non più tondeggiante ma squadrata, affinché fosse possibile sovrapporre i contenitori, e rinforzata grazie al caratteristico disegno a rilievo simile a una lettera X, comprovato metodo per scongiurare lo schiacciamento dello spazio cavo all’interno delle due metà saldate assieme, come avveniva per i serbatoi dei veicoli stessi. Proseguendo con la singolare dotazione di non uno, bensì tre manici, in modo che le taniche potessero essere spostate con maggiore praticità da una catena di persone, verso la destinazione indicata di volta in volta. Ma le inconsuete dotazioni elaborate dalla competenza di Grünvogel andavano ben oltre quelle osservabili di primo acchito…

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L’interessante meccanismo che blocca l’erogazione della benzina

Molti dei dubbi che assillano la nostra esistenza terrena verrebbero istantaneamente superati, se soltanto l’istinto di cui siamo dotati riuscisse ad acquisire il dato che non possono esistere il “vuoto” ed il “pieno”. Specifiche cognizioni, queste, prettamente artificiali ed utili nell’analisi scientifica o matematica, così emblematicamente rappresentate da quei simboli filosofici che sono lo zero ed il tutto, laddove la natura, in se stessa, non può tollerare l’esistenza di uno spazio completamente privo, oppure saturo di materia. Poiché una molecola in se stessa rappresenta il concetto fluido, composto da un numero variabile di atomi, la cui disposizione e combinazione possono variare continuamente sulla base del contesto situazionale di appartenenza. Ecco, dunque, che cosa chiede in effetti un automobilista, motociclista o camionista, nel momento si ferma alla stazione di servizio per ordinare il riempimento ad oltranza del serbatoio che alimenta il suo veicolo a motore: “Buon uomo, potrebbe gentilmente agevolare l’interscambio dei fluidi all’interno del recipiente veicolare in oggetto, affinché parte dell’aria contenuta in esso venga sostituita da una quantità equivalente di carburante?”
Evento a cui segue il familiare gesto, a colui che è di turno, d’impugnare il dispositivo identificato con l’antonomasia di distributore manuale o il termine omologo ad altri di bocchettone, che agendo in maniera idraulica trasferisce la quantità di litri necessaria per assolvere a un così diffuso e comprensibile desiderio. Ma a dire il vero, ed è qui che nascono i dubbi, qualcosa di poco evidente può avvenire a quel punto: poiché il funzionario preposto in tuta e cappello col logo della compagnia, come è sua legittima prerogativa, può spostare le mani e la sua presenza altrove, magari andando a parlare del più e del meno coi suoi colleghi. Ben sapendo che comunque, il prezioso nettare dal variabile numero d’ottani non potrà tracimare, in nessun caso. Neppure una volta che avrà esaurito la capienza dell’auto soggetta al suo diretta impiego. Perché l’oggetto in se stesso potrà effettivamente capire, grazie all’ingegneria che contiene, il momento in cui la misura è colma… Cessando istantaneamente l’erogazione.
Ecco un qualcosa che abbiamo visto avvenire svariate centinaia di volte senza nella maggior parte dei casi, sono pronto a scommetterci, interrogarci sulla natura del suo funzionamento. “Ci sarà un qualche tipo di sensore per i liquidi” Avrete pensato. “Magari una fotocellula?” Laddove nell’umido e scuro pertugio di un serbatoio, simili approcci avrebbero una percentuale di funzionamento decisamente inferiore all’optimum. Mentre il sistema che regola tutto questo, come mostrato tanto diligentemente nel video soprastante dal presidente della Husky Corporation, compagnia americana operativa nel settore, è al tempo stesso molto più semplice, nonché funzionale. Potendo aggiungere all’ampio catalogo dei suoi pregi quello indubbio di non richiedere, tra l’altro, alcun apporto elettrico per funzionare. Il che non è certamente da poco, quando stiamo parlando di un pertugio all’interno del quale transita uno dei fluidi infiammabili per definizione. A teorizzarne il principio era stato un fisico facente parte dell’Illuminismo italiano…

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Claustrofobica ispezione dei serbatoi alari di un Airbus A380

Il problema di progettare l’aereo passeggeri più grande del mondo, come fatto a turno da entrambe le compagnie più importanti del settore negli ultimi quarant’anni, è che trasportare il maggior numero di persone possibili comporta, immancabilmente, un considerevole dispendio di potenza. Dal che deriva la necessità d’includere, all’interno del velivolo stesso, uno spazio deputato al contenimento e stoccaggio di una quantità consona di carburante. E in determinati casi non stiamo certo parlando della quattro o cinquemila litri contenuti all’interno di una comune autocisterna stradale, né di due, tre o quattro volte quella cifra. Immaginate ora 64 camion, affiancati l’uno all’altro, che a turno svuotano il proprio contenuto liquido all’interno di un singolo dinosauro di metallo. Stiamo parlando di oltre 320 tonnellate, sulle 575 massime previste al decollo, destinate unicamente al tipo e la quantità di propellente necessario affinché l’aereo possa attraversare i cieli fino alla destinazione designata. Un peso… Considerevole, abbastanza perché ogni ulteriore chilogrammo possa suscitare dubbi in merito agli effettivi meriti di una tale impresa ingegneristica. Dal che deriva che ogni soluzione per così dire ideale usata nella storia dell’aviazione, tra cui quella dei serbatoi rigidi rimovibili o le fuel bladder (sacche flessibili e autosigillanti in gomma vulcanizzata molto apprezzate negli aerei militari) diventi assolutamente controproducente, contribuendo col proprio peso addizionale all’ulteriore riduzione della capacità di carico utile del titano. Ecco quindi l’unica soluzione possibile, usata indifferentemente in molti dei velivoli più imponenti al mondo: serbatoi integrati, ovvero facenti parte della struttura stessa che li circonda, condividendo essenzialmente le stesse paratie necessarie per altre ragioni all’interno del costrutto volante. Il che significa, nei fatti, che ogni tipo d’intervento d’analisi e riparazione compiuto sul sistema di distribuzione del carburante dovrà essere compiuto all’interno stesso di questi spazi, normalmente concepiti a una misura totalmente diversa da quella umana.
Siamo di fronte ad un video piuttosto misterioso, la cui provenienza viene lasciata all’interpretazione degli spettatori, così come la qualifica del protagonista, che sembrerebbe tuttavia fare parte della squadra di meccanici di un qualche grande aeroporto. La ragione di questa specifica inferenza è ricercabile nell’aspetto lindo e quasi immacolato dello scenario, costituito da quello che dovrebbe essere l’interno di uno dei due serbatoi principali dell’Airbus, situati nella parte più larga delle ali, strategicamente conveniente per la posizione dei motori ed anche la più resistente dal punto di vista strutturale. Questo tipo d’interventi, generalmente mirata ad un’ispezione approfondita per possibili segni d’usura o danni riportati dalle pareti metalliche del colossale recipiente/spazio cavo, può infatti essere effettuata soltanto previo svuotamento completo, portato a termine mediante l’uso di speciali pompe e successivo prosciugamento fino all’ultima goccia dei residui, al fine di rimuovere il vapore emesso normalmente dal carburante aeronautico, assolutamente nocivo una volta finito all’interno dei nostri polmoni. Il che può richiedere svariate settimane di lavoro, all’interno di un gigantesco hangar che dovrà essere integralmente deputato a una simile mansione. Soltanto allora un addetto con esperienza pregressa, idealmente capace di muoversi liberamente in assenza di ponderosi respiratori, potrà verificare la salda tenuta di ogni singolo rivetto, bullone o saldatura, al fine di avvisare la squadra di tecnici all’esterno del tipo d’interventi che dovranno rivelarsi opportuni per rinnovare la certificazione di sicurezza al paziente tecnologico del caso. Si tratta di un lavoro infrequentemente discusso, la cui importanza nel settore risulta però essere assolutamente primaria,  sopratutto quando si considera il tipo di conseguenze che possono derivare da una sua mancanza, o svolgimento non conforme alle aspettative del produttore…

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