La progressiva comprensione dell’aerodinamica ha costituito uno dei processi, imprescindibili e fondamentali, affinché fosse possibile sperimentare il volo più pesante dell’aria. Quell’approccio alla sconfitta gravitazionale in cui una volta superata l’essenziale problematica del “galleggiamento” superno, macchine in grado di spostarsi a gran velocità riuscivano a sfruttare il principio della portanza, costruendosi un cuscino d’aria in grado di perfezionare quel rapporto privilegiato tra cielo e terra. Eppure anche dopo aver inviato interi equipaggi sulla Luna, gli scienziati continuavano ad avere il fastidioso senso di essere stati elusi da qualcosa, un rivelazione in grado di cambiare in modo sostanziale il rapporto funzionale dei singoli concetti operanti. Perché se un missile dalla forma aerodinamica era il miglior mezzo in grado di varcare i confini superiori dell’atmosfera, l’unico modo per tornare al suolo era mediante l’utilizzo di una capsula passiva e dotata di paracadute? Perché la dotazione di un fucile anti-orsi doveva far parte del corredo a bordo, tanto imprevedibile risultava essere l’esatto punto di atterraggio ove gli occupanti potevano trovarsi a toccare nuovamente il suolo? Trovare una risposta a queste ed altre simili domande fu la mansione assegnata dalla recentemente ribattezzata NASA, all’inizio degli anni ’60, alla compagnia aerospaziale esterna Martin Marietta, tra i molti fornitori coinvolti nello stratificato progetto del cosiddetto “corpo portante”. Un importante sviluppo sperimentale, mirato alla dimostrazione di come un aereo potesse prolungare il proprio tempo via dal suolo anche in assenza di ali propriamente dette, purché fosse la sua stessa fusoliera ad avere una forma pratica capace di generare una spinta verso l’alto regolare e costante. Certo, a patto di muoversi in maniera sufficientemente veloce e rinunciando almeno in parte alla propria maneggevolezza. Il che non sarebbe stato necessariamente un problema, visto il campo d’applicazione presunto: quello di un velivolo, con uomini a bordo, intento a discendere in un solo pezzo dallo spazio anaerobico dell’orbita terrestre. Per poter centrare, come la freccia scagliata da un esperto, una delle poche piste d’atterraggio sufficientemente lunghe da poterne ospitare il ritorno. L’idea teorizzata per la prima volta nel 1962 da R. Dale Reed, riprendendo il concetto di un antico brevetto del 1917 di Roy Schroggs, piacque da subito ai vertici dell’ente spaziale americano, tanto da giustificare la creazione di una serie di disegni dalla forma estremamente insolita e distintiva. Era stato infatti scoperto come una forma bulbosa, del tutto simile a un proiettile o una supposta, potesse spostare in avanti rispetto alla fusoliera la formazione dell’onda d’aria supersonica, creando una sorta di scudo naturale in grado di proteggere la fragile struttura dell’aeroplano dalle spaventose forze del rientro lungo il pozzo gravitazionale terrestre. Ben presto una lunga serie di alianti costruiti principalmente in legno furono impiegati al fine di dimostrare un simile principio tecnologico contro-intuitivo. Il più avanzato e riuscito dei quali si sarebbe in seguito evoluto nel fallimentare Northrop M2-F2, destinato a schiantarsi rovinosamente nel suo sedicesimo volo il 10 maggio del 1967. Ma il genio a quel punto, era per così dire fuori dalla bottiglia ed ingegneri del più alto calibro furono messi all’opera per riuscire a perfezionare i crismi funzionali dell’importante idea di partenza…
atmosfera
L’elevata prospettiva liquida degli addetti allo sghiacciamento aeroportuale
L’uomo nella cabina sopraelevata impugna la coppia di joystick con entrambe le mani, mentre al di là del vetro parzialmente appannato infuria e biancheggia la tormenta peggiore degli ultimi quattro mesi. Indefesso ed instancabile, il lungo collo del veicolo ai suoi comandi si piega ed avvicina all’oggetto che costituisce il nesso inconfondibile della questione, già pieno di passeggeri e bagagli: il grosso Airbus A330, posto diagonalmente nello spazio di parcheggio dell’aeroporto sul finire della gelida serata. Raggiunta l’estremità ideale dell’arco disegnato nella propria mente, l’addetto preme quindi il rigido grilletto alla sua destra fino al primo dei tre scatti designati, lasciando che un getto ad alta pressione fuoriesca dal bocchettone posto al centro della sua inquadratura. Lentamente, il jet di linea inizia a tingersi di un aggressivo color verde smeraldo…
Aspetto cruciale nella progettazione di qualsiasi velivolo più pesante dell’aria è il rapporto tra resistenza dell’aria e portanza, ovvero la capacità da parte delle ali di veicolare l’atmosfera in modo tale da costituire il cuscinetto invisibile che allontana il mezzo, e tutto il resto del suo contenuto, dal rigido suolo che impieghiamo normalmente per camminare. Il che significa, volendo avvicinarsi al nocciolo della questione, che i margini di tolleranza nella progettazione di questo tipo di apparecchi, intesi come rapporto tra peso e potenza, ma anche la specifica geometria delle superfici di controllo, sono straordinariamente precisi ed ogni deviazione dall’idea dai canoni studiati a tavolino dagli addetti allo sviluppo può costituire non soltanto un ostacolo alla loro efficienza, bensì un letterale pericolo per chi si trova a bordo, nei dintorni o al di sotto del loro intero tragitto. Qual è il problema, dopo tutto? Non è che qualcosa di liquido o semi-denso possa cadere dal cielo, rimbalzando sopra la carlinga e il paio d’ali per ore o minuti, finché il rapido mutamento della sua materia costituente verso lo stato solido possa costituire una patina ruvidamente impenetrabile e saldamente attaccata al corpo di un oggetto metallico temporaneamente in attesa di decollare… Fatta eccezione per determinate latitudini, s’intende. Poiché fin dalla concezione del volo istituzionalizzato e commerciale, venne compreso come la precipitazione atmosferica tipicamente rappresentativa dell’inverno potesse costituire un problema da risolvere mediante l’utilizzo di approcci coerenti ed affidabili. Ovvero che potessero funzionare, per quanto possibile, sempre alla stessa maniera.
Un concetto più difficile a realizzarsi dal punto di vista pratico di quanto, idealmente, si possa essere inclini ad immaginare…
Lo strano sogno sovietico dell’aliscafo in grado di lanciare un’astronave
“Costi quel che costi” non è che un mero eufemismo, quando riferito al rapido dispendio di risorse, ingegno e finanziamenti da parte dell’Unione Sovietica a vantaggio del suo programma spaziale verso la metà degli anni ’70, quando il direttore Valentin Glushko subentrò a Vasili Mishin, con l’arduo compito di colmare circa 15 anni di gap tecnologico rispetto agli Stati Uniti. Nell’assenza di motori a razzo liquidi riutilizzabili, senza esperienza nel lavorare con grasse masse d’idrogeno. Per l’assoluta e totale mancanza di progetti spaziali alati volanti, sulla falsariga dello Space Shuttle al servizio dell’Occidente. Agli albori del programma Buran, per la creazione e il lancio di un tale velivolo dal cosmodromo di Baikonur, i diversi OKB (bureau tecnologici) furono coinvolti in parallelo per la creazione di una serie di proposte parallele. Tutte abbastanza simili per quanto concerne l’ultimo stadio di questa tipologia di missione: un aereo o orbiter capace di sfuggire all’atmosfera terrestre, senza per questo dover abbandonare il proposito di poggiare il suo carrello su una lunga pista asfaltata, pronto a decollare ancora, ed ancora. Ma l’idea forse più ambiziosa di tutte, che non avremmo conosciuto fino a molti anni dopo, sarebbe partita dall’opera congiunta dei due celebri uffici di Sukhoi ed Alexeyev, finalizzata al riciclo non soltanto della parte finale del mezzo bensì ogni suo singolo componente. Un proposito che persino oggi tenderemmo a giudicare eccessivamente ottimistico; eppure perseguito, all’epoca, con un’ipotesi quasi surreale nella sua esasperata concretezza. Prima di procedere a descrivere il video sopra riportato, opera dell’animatore digitale di Youtube specializzato nella storia dell’esplorazione spaziale Hazegrayart lasciatemi perciò descrivere le sue fonti: nient’altro che una singola lettera scritta da alcuni ex-ingegneri al servizio del governo di Mosca, pubblicata sulla rivista britannica Spaceflight nell’anno 1983. In cui si parlava di un’ipotesi tecnologica chiamata semplicemente Albatross, per uno “Shuttle Russo” che sarebbe decollato non da una comune pista dell’entroterra asiatico, né una rampa di lancio verticale. Bensì le onde relativamente calme del più grande lago al mondo, identificato sulle mappe con il nome di Mar Caspio. Accelerando gradualmente, progressivamente, finché un triplice assemblaggio dal peso impressionante avesse raggiunto i 180 Km/h, procedendo con il mettere in atto l’essenziale suddivisione…
12 perfette sanguisughe intrappolate nella giostra che anticipa la bufera
L’aria nella stanza al piano superiore del museo di Whitby appariva stranamente statica, come talvolta càpita nel frangente di quiete che anticipa un qualche monumentale accadimento. Il medico chirurgo George Merryweather, temporaneamente in pausa dai suoi molti impegni nel vicino ospedale, stava visionando alcuni documenti relativi all’inserimento nel catalogo di nuovi fossili provenienti dalle colonie africane, destinati ad occupare gli scaffali più alti del salone al piano terra della prestigiosa istituzione. A fianco dello spazio usato come scrittoio, sul grande tavolo da lavoro, era collocato uno strano marchingegno circolare. Oggetto all’interno del quale, una volta ogni 40 minuti, egli riversava alcuni piccoli contenitori di esche vive, per nutrire gli esseri famelici che vivevano al suo interno. “Ah, la mia piccola giuria di consiglieri filosofici” ripeteva tra se e se talvolta, immaginando un futuro di gloria e fama imperitura per i piccoli animali, acquistati a poco prezzo dalla farmacia del proprio luogo di lavoro principale. Con il proseguire del tardo pomeriggio, e all’addensarsi delle fosche ombre del tramonto, Merryweather aveva quindi cominciato a riporre i documenti in archivio, quando un suono squillante spezzò l’illusione persistente del silenzio. “Dong!” Fece la macchina, richiamando istantaneamente la sua totale attenzione. E mentre si affrettava ad infilare a forza i fogli tra quei mucchi polverosi, nuovamente si udì risuonare in un peana veemente: “Dong! Dong!” Esse sorgono, si svegliano! Lode all’ora del supremo cambiamento. “Ding! Dong!” Prima ancora che potesse risuonare il sesto rintocco, lo scienziato ridestato aveva preso nuovamente in mano la sua penna. E con gesto attento, dava forma al proprio avviso per l’amico e collega posto in quel periodo a capo della Royal Society d’Edimburgo: “Esimio Dr. Young, al momento della ricezione di questo messaggio, consulti gli almanacchi meteorologici di Whitby, nello Yorkshire settentrionale. Sono pienamente certo che, anche stavolta, potrà trovare notizia di copiose precipitazioni e forte vento. Forse la tempesta più terribile di queste parti, da quella che infuriò nella precipua baia di Robin Hood lo scorso inverno…”
Certezza…. Imprescindibile capacità di anticipare il corso degli eventi. Una visione chiara del metodo e lo svolgimento dei processi sopra cui si fondano le mutazioni dell’atmosfera terrestre. Con l’entrata nel vivo dell’Epoca Vittoriana, verso la metà del XIX secolo, l’approfondita comprensione del metodo scientifico e la presa di coscienza in merito al funzionamento della valutazione oggettiva, avevano favorito il diffondersi tra la popolazione di una serie di strumenti scientifici di varia e più o meno utile natura. Principali tra questi, diverse versioni antesignane del concetto di un barometro, l’oggetto in grado di prevenire repentine variazioni climatiche, con chiare conseguenze positive sull’organizzazione delle partenze via mare. Che tanto, troppo spesso sembrava somigliare all’estrazione di un numero fortunato dal bussolotto della lotteria di stato. Possibili risposte tecnologiche a una necessità effettivamente esistente, tra cui forse la più stravagante, eppure stranamente ed innegabilmente precisa, sarebbe derivata dalle attività collaterali di una mente fervida e creativa, appartenente all’uomo che già nel 1832 aveva ottenuto una notevole risonanza con la sua speciale lampada “Platina” capace di produrre luce da un misto economico di alcohol e whisky, per il costo di appena un penny ogni otto ore. Per dedicarsi in seguito, a una decade da quel momento significativo della propria eclettica carriera, alla risoluzione del problema dei suoi giorni, tramite un approccio che potremmo solamente definire come frutto di un’esperienza personale pregressa di assolutamente originale ed insolita natura…