In un aneddoto frequentemente ripetuto fuori dal suo contesto, durante un convegno di criptozoologia uno dei partecipanti mostrò ai colleghi il suo reperto di maggior pregio: una pelle perfettamente conservata, del tutto integra, dell’estinta tigre tasmaniana. Soltanto alcuni tra i presenti, sospettando la verità, sollevarono la questione della cruciale somiglianza del manto di tale animale con un altro essere dell’emisfero meridionale. Anch’esso onnivoro, dalla dimensione simile a quella di un cane di taglia media, dotato di un intelligenza vivace ed aspetti del suo comportamento ad oggi relativamente ignoti. Ma dal canto suo appartenente, senza nessun tipo di ambiguità possibile, al ramo africano della grande famiglia dei bovini, da cui il possesso di uno stomaco capace di digerire le fibre vegetali, sebbene su una scala e con una varietà minore rispetto alle mucche a cui siamo abituati a pensare. Al punto da trovarsi classificato in base allo schema di Hoffman come un ruminante selettivo concentrato, ovvero in grado di specializzarsi unicamente nel consumo di particolari foglie, frutti e semi. Ma poiché il duiker, un membro più o meno zebrato del genere Cephalophus, raramente supera i 45 cm di altezza, esso è frequentemente incapace di raggiungere anche i rami più bassi del fitto sottobosco in cui tende a trascorrere le sue giornate. Il che non gli lascia altra possibilità che integrare la sua dieta con gli altri esseri viventi che riesce a catturare e trangugiare in un sol boccone: insetti, piccoli mammiferi, roditori, lucertoli e l’occasionale anfibio degli stagni boschivi. Per non parlare della leggenda, diffusa all’epoca della sua scoperta e classificazione all’inizio del XIX secolo, secondo cui fosse capace di soffiare dentro il guscio delle tartarughe, spingendole fuori al fine di fagocitarle. Un’immagine piuttosto crudele ed a tutti gli effetti priva di prove concrete, ancorché relativamente appropriata nel comprendere esattamente innanzi a quale tipo di animale ci troviamo davanti: una creatura scaltra, all’erta, agile e non priva di un certo grado d’ingegno. In tutte le sue accezioni e colorazioni inclusa quella originaria della Liberia e Costa d’Avorio, di cui potete osservare una fotografia poco sopra. Mentre i video, su Internet, risultano essere piuttosto rari probabilmente a causa del carattere schivo ed elusivo dell’animale, ampiamente giustificato dalla quantità di esemplari uccisi in modo non sostenibile, persino oggi, nell’acquisizione della cosiddetta bush meat, importante risorsa gastronomica per le genti indigene dell’Africa Occidentale. Il che ci lascia in grado di ammirare, per lo meno nella situazione attuale, questi mammiferi euteri principalmente negli zoo, dove l’ultimo programma riproduttivo relativamente alla varietà dotata di strisce è stato abbandonato, a Los Angeles, verso la metà degli anni ’70. Osservate, dunque, una vera rarità tra gli artiodattili dei nostri giorni…
artiodattili
Toro rosso, questa non è un’esercitazione! Portate qui le bibite. E le ali?
Per centinaia, migliaia di anni essi hanno atteso in mezzo ai “semplici” bovini. Silenziosi agnelli, attenti a ogni dettaglio e indistinguibili dai loro fratelli e sorelle. Ma determinate condizioni o allineamenti astrali, nei momenti cardine delle alterne vicende, la loro unicità è venuta in superficie, inconfondibile, cromaticamente singolare. Le corna lunate che disegnano un profilo tra la gente. Splendenti d’energia riflessa, sotto un sole che non può comprendere il costrutto artificiale della pietà. Vi siete mai chiesti perché tra tutti i modelli animaleschi disponibili, il Diavolo sia stato tradizionalmente rappresentato con la coppia di protrusioni craniche tipiche di un maschio d’artiodattilo? E a voler dare un più specifico ambito d’appartenenza, proprio l’animale che diventa cibo sulle tavole di plurime nazioni terrestri! Creatura ragionevolmente rassegnata al proprio ultimo destino. E molto spesso, caratterizzata da un contegno ragionevolmente mansueto. Ma se il rapporto tra bestie sovrannaturali ed uomini si è sempre ragionevolmente configurato attraverso il culto delle immagini, non è davvero semplice ignorare… Quell’aspetto. Di colui che qui vediamo comparire all’improvviso, giù dal retro di un rimorchio agricolo. Per dare un senso alla parola: luminosità.
Così ha circolato, negli ultimi tempi, una crescente serie di commenti in merito al breve spezzone trasformato in gif, come di consueto privo di contesto, di una simile creatura tra i cerchi concentrici dei social network, hub memetico-sociali e gli altri “soliti posti” del mondo di Internet. Cui può dare un certo grado di soddisfazione, sulle nostre vecchie pagine, attribuire un nome e un luogo: Cu Chi (Cicogna) ed HCM (Ho Chi Min City). Sotto l’egida ed il marchio dell’allevatore Dang Van Ghen, riconoscibile dal suo inseparabile cappello Panama marrone. Ausilio d’altra parte utile perché, contrariamente a quanto si potrebbe tendere a pensare, di animali come questi ce ne sono vari esempi. Dislocati in vari luoghi del Sud Est Asiatico, dove di volta in volta vengono chiamati “un miracolo della Natura” o “casi di uno su svariati (?) milioni di esemplari”. Poiché siamo qui al cospetto, ed è senz’altro produttivo sottolinearlo, non di un maschio qualsiasi di mucca bensì il tipico rappresentante della specie Bubalus bubalis, anche detto bufalo d’acqua per la sua affinità ed adattamenti evolutivi al pantano. Nel presente caso connotato da una qualche tipo di anomalia genetica, probabilmente sufficiente a renderlo leucistico seppur non propriamente albino. Anche perché in tal caso, il colore degli occhi avrebbe dovuto tendere a un vermiglio decisamente più intenso. Ma perché, allora, il nostro amico non si presenta semplicemente in bianco, sotto la sua fine peluria? La risposta, a quanto pare, può soltanto provenire dal suo possessore…
Il comportamento asociale del mini-cervo con le zampe più sottili di un ragno
Il muso pulsante, le orecchie tonde puntate verso l’alto, gli occhi tondeggianti spalancati ad osservare quietamente l’orizzonte. Per qualche secondo, sufficiente ad identificare la sfuggente gobba e la testa cuneiforme dell’intruso, che sporgevano di poco sopra il debole declivio oltre la macchia di banani sul confine dei campi. Un breve sguardo, seguìto da una piroetta all’indirizzo della sua compagna di qualche settimana, bastò al piccolo mammifero per chiarire la sua posizione: “È una questione di rispetto, capisci? Questo territorio è appartenuto a mio padre, ed ancor prima suo padre e il padre di suo…” (Pare che taluni piccoli ungulati, talvolta, possano alquanto ripetitivi nei loro discorsi) Quindi scalpitando con aspettativa simile ad un rullo di tamburi tra lo strato di foglie ai limiti del sottobosco, il cervo-topo dalla schiena maculata cominciò ad avanzare zig-zagando, certo di riuscire in questo modo a giudicare la distanza di quell’ospite indesiderato. Una, due, tre volte fece la spola orientandosi col sole prossimo al tramonto, quando la disposizione prospettica del territorio gli permise, finalmente, di scrutare negli occhi di colui che aveva osato praticare il più terribile dei tabù: lo sconfinamento. L’avversario lo aspettava con la testa bassa, la bocca semi-aperta a masticare quello che sembrava essere una foglia già piuttosto malmessa per l’effetto del recente temporale estivo. Dopo un attimo in cui il tempo sembrò restare fermo, con i due intenti a scrutarsi da vicino nel più assoluto stato d’immobilità, l’avversario provenuto non si sa da dove spalancò del tutto la mandibola prognata, rivelando con palese orgoglio le sue temibili armi: un paio di pugnali d’avorio non più lunghi dell’ultima falange di un dito mignolo umano. Ma più che sufficienti a infliggere ferite quando serrati con forza sul dorso del nemico di turno. “Poco importa” pensò il padrone di casa. E dopo aver fatto lo stesso, iniziò a caricare, mirando con la luce della luna rimasta ormai ad illuminare pallida la sua missione. La sua natura era, d’altra parte, era quella di un essere del tutto solitario. E nessuno, in alcun caso, avrebbe mai potuto penetrare senza invito oltre le mura invisibili della sua vasta magione…
Tragulidi o traguli, compatti ruminanti, artiodattili dalla grandezza sotto-dimensionata, jarini pandi in lingua telugu, che significa cervo-maiale. Sarukuman in tamil, ovvero “cerbiatti del mucchietto di foglie”. O più comunemente definiti dalla comunità internazionale come “caprette” usando il termine francese, ovvero chevrotain. Quel tipo di animali che tendono ad essere ignorati dalle moltitudini, ed invero in parte anche dai naturalisti e biologi, semplicemente perché vivono ai margini del consorzio umano, senza particolari aspetti giudicati interessanti nel proprio stile di vita o comportamentale. Essendo a tutti gli effetti dei normali ruminanti, fatta eccezione per la massa corporea raramente capace, negli esemplari più imponenti, di superare quella di un barboncino frisé…