Così parlò Elektroman, il primo portavoce robotico di una compagnia moderna

Lunghe generazioni di filosofi, autori letterari, biologi ed amanti di disquisizioni prive di uno scopo apparente, si sono interrogate alternativamente in merito a cosa fosse, in modo ineluttabile, a definire l’essenza di un essere umano. Una logica pregressa in cui può risultare interessante, tra le tante figure di creazioni fantastiche robotizzate contemporanee, inserire il personaggio a cartoni animati di Bender: un immorale, avido, egoista, occasionalmente spietato androide, dalla mente sottile ma il corpo e le proporzioni simili a un barattolo di salsa di pomodoro. Il tipo di surreale giustapposizione che spesso deriva, osservandola con senso critico adeguato alle circostanze, dall’effettiva esperienza di qualcosa che è realmente esistito. Ed è così che basta volgere lo sguardo, tramite i ricordi e qualche breve documentazione d’epoca, all’occasione del 1939, quando sul palco newyorchese della fiera mondiale giunse a presentarsi un essere color del rame dotato di due gambe, due braccia ed una testa mobile con labbra animate. Poteva camminare molto lentamente pur essendo alto due metri e proporzionato come un proposto dalla sua stessa compagnia produttrice. Che dopo aver proclamato la presunta superiorità in funzione del peso notevole del suo cervello, rispondendo a tono alle domande e sollecitazioni dell’operatore, alzò il forte braccio destro dotato di un gomito realistico (niente appendici tentacolari come nel caso del sopracitato piega-tubi di Futurama) e portò alle labbra mobili una sigaretta gentilmente fornita dall’accompagnatore umano. Certo: erano gli anni ’40. Letteralmente NESSUNO poteva rinunciare al piacere d’introdurre il dolce tabacco nei propri mantici (!) o polmoni. Farne a meno non sarebbe stato in alcun modo “umano”.
Il singolare personaggio era Elektroman e i responsabili della sua creazione, gli ingegneri alle dipendenze della Westinghouse Electric, compagnia fondata sul finire del XIX secolo dall’omonimo inventore concorrente di Thomas Edison, largamente responsabile della costruzione di centrali energetiche in vari luoghi degli Stati Uniti, prima di passare alla produzione di treni, apparecchiature ed oggetti utili da usare nelle abitazioni civili come forni, frigoriferi, frullatori… Ma poiché la diversificazione, chiedetelo a Musk o Zuckerberg, è l’anima fondamentale del commercio, avvenne attorno al 1920 che realtà lavorative collegate al controllo della distribuzione energetica, appaltatori dell’azienda di Monroeville, chiedessero ai suoi insigni discendenti una funzionale soluzione utile a controllare le sottostazioni a distanza. Un dispositivo, in altri termini, capace di attivare interruttori grazie all’utilizzo delle nascenti linee telefoniche, permettendo di ridurre in modo esponenziale i sopralluoghi e conseguenti costi operativi interconnessi a tale compito inerentemente ripetitivo. L’ingegnere coinvolto fu Roy J. Wensley ed il prodotto da lui realizzato venne definito Televox. Apparecchiatura simile ad un quadro elettrico, ma capace di reagire tramite l’impiego di attuatori all’invio di un segnale auditivo a particolari frequenze, costituendo essenzialmente il concetto preliminare di una sorta di modem dell’epoca post-moderna. Un prodotto innovativo ma difficile da pubblicizzare, tanto che dopo un’approfondita consultazione ai margini della compagnia, fu permesso a Wensley di muoversi secondo il proprio gusto personale. Che lo avrebbe portato ad “umanizzare” il dispositivo, inserendolo all’interno di una sagoma cartonata dal vago aspetto di un robot stereotipico, chiamandola Herbert Televox e portandola in tournée nei vari eventi e fiere di settore. Era ancora il 1928 e ben pochi avrebbero potuto tuttavia comprendere, in quel particolare frangente, di essere all’inizio di una storia destinata a rimanere impressa nella mente mediatica dei suoi contemporanei…

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Acrobati robotici dalla fucina di Mickey Mouse

Ve li ricordate i pacifici, plausibili cartoni animati di una volta? Pippo, Topolino e Paperino che affrontavano problemi di una vita, per così dire, normale. Daffy il papero alle prese col problema dei cacciatori stagionali. Tom & Jerry con i loro piani articolati per sconfiggere il rivale, oppure dare adito a pulsioni facilmente comprensibili: fame, amore, desiderio di dormire. Persino Wily E. Coyote, coi suoi diabolici marchingegni, guidato da leggi della fisica a noi note, e un senso della logica perverso ma giustificato. C’erano un tempo aziende, con il compito di disegnare tali forme d’intrattenimento, le cui gesta erano guidate da un gusto ragionevole, condivisibile o persino sensato. Quindi col trascorrere degli anni, qualche cosa è cambiato: forse è stato il metodo importato dal Giappone, quel modo di divertirsi e far divertire con personaggi che s’ispirano alla gestualità e i combattimenti del teatro popolare kabuki. Oppure l’imporsi del media digitale interattivo, in cui l’idraulico italoamericano che salta sulle tartarughe non è altro che la gateway drug verso un mondo di assassini, membri delle forse speciali, porcospini iper-veloci e sopravvissuti dell’apocalisse zombie con mazza chiodata. Fatto sta che addirittura Disney, il marchio del divertimento tradizionale per eccellenza, nelle ultime due decadi si è ritrovata a diversificare l’offerta, con gli acquisti multimiliardari di Pixar (2006) Marvel (2009) e Lucasfilm (2012). Surprise, people! La ditta dei tranquilli animali parlanti e gli adattamenti animati delle fiabe, trasformata in narratrice di guerre cosmiche o conflitti universali, confronti insanguinati per dimostrare con drammatica enfasi chi siano i buoni, e chi i cattivi tra un ipertrofico cast di personaggi in qualche maniera “più” che umani. Situazione in grado di condurre, trasversalmente, a nuove sfide nell’ambito del mondo materiale. Già perché, sebbene molti tendano a dimenticarlo, nel DNA stesso della Disney c’è un qualcosa di distinto e atipico, l’elemento stesso che non può essere trovato in [quasi] nessuno dei suoi concorrenti per il tempo libero delle persone, fatta eccezione per gli Universal Studios e in misura minore, ciò che resta dell’antica Cinecittà romana: la costruzione di un luogo dei sogni, presso cui incontrare ciò che un tempo era soltanto fatto delle nebbie evanescenti della fantasia. Il che faceva capo, nella tentacolare multinazionale dell’uomo-topo con sede a Glendale, in primo luogo in un gruppo di uomini e donne selezionati personalmente dallo stesso fondatore Walt, che erano al tempo stesso ferrovieri, architetti, artisti e progettisti d’attrazioni meccanizzate. Ovvero in altri termini, la WED Enterprises (dal secondo nome del grande capo, Elias) squadra incaricata di assisterlo nella creazione del primo parco a tema Disney World di Orlando, Florida USA.
Passano gli anni, mutano le priorità. Così che portato un simile progetto a compimento, la divisione venne mantenuta attiva, con il compito iniziale di continuare a mantenerlo interessante, potenziando e cambiando quanto veniva offerto al pubblico pagante dei bambini più o meno letterali interessati a sperimentarlo. Finché nel 1986, sull’onda di una riorganizzazione profonda della struttura aziendale, la divisione incorporata dal remoto 1956 non si trova il nome cambiato in Imagineering, rispecchiando il nuovo metodo e sistema mansionario riveduto e corretto. Per la prima volta, eliminato il limitatore metaforico, questo ensemble simile a un think-tank vede applicata in pieno quella teoria del management che oggi viene attribuita principalmente a grandi compagnie del mondo tecnologico, come Google, Apple o Valve: il cosiddetto soffitto blu, ovvero una certa quantità di ore libere, all’interno della giornata lavorativa, in cui gli impiegati più creativi possano perseguire i loro progetti personali e sogni della pipa più vertiginosi, a patto che il risultato resti purissimo appannaggio dell’organizzazione. Prassi che ha portato svariate volte a veri e propri studi accademici, capaci di proporre sentieri evolutivi interessanti nel campo degli effetti speciali, del calcolo informatico e perché no, nel campo avveniristico della robotica applicata. Perché noi tutti davvero fin troppo bene, l’effetto che può fare un pupazzo parlante immerso tra le scenografie di un film a noi noto, nel ricreare l’atmosfera conduttiva ala più totale coinvolgimento di terzi. Eppure, come dicevamo, i personaggi dell’immaginario non sono più quelli di una volta: ma supereroi volanti, guerrieri istruiti nella Forza, soldati, pirati, spadaccini… E c’è sempre stato un limite, a quello che si può mostrare in maniera predeterminata, grazie a un meccanismo che dovrà ripetere le stesse gesta 100, oppure 1.000 volte nel corso di una singola giornata. Fino ad ora. Stuntronics è l’ultima proposta al mondo da parte dei suddetti scienziati pazzi, una risposta alla domanda mai posta formalmente di quanto, e come, esseri artificiali possano svolgere il mestiere difficile e pericoloso dello stuntman, trasferendolo dal mondo cinematografico all’ambiente dei parchi giochi. Tanto per cominciare; perché va da se che quando finalmente sarà stata superata la trappola della uncanny valley (la somiglianza troppo approssimativa alla realtà) ben pochi mestieri resteranno puro e semplice appannaggio dell’umanità biologica in quanto tale…

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A.D. 2015: gli eroi robotici diventano realtà

Hubo DRC

Scansiona la maniglia con il suo singolo occhio rotativo, alza il polso snodabile a 360 gradi, muove la pinza in avanti di 40 cm, poi la stringe saldamente e preme in giù. È…Aperto? Inginocchiato innanzi all’uscio del futuro, HUBO DRC, il più fantastico dispositivo antropomorfo coreano. Frutto dell’opera di ricerca e sviluppo del team KAIST (Korea Advanced Institute of Science and Technology) di Daejeon, ma il cui acronimo nel nome sta per le tre fatidiche parole Darpa, Robotics e Challenge. Si trattava di una sfida internazionale pensata per stimolare la ricerca, tenutasi dinnanzi all’intero gotha tecnologico corrente, della quale il mondo non aveva mai conosciuto in precedenza l’eguale. C’erano (quasi) tutti al Fairplex di Pomona, gli scorsi 5 e 6 giugno: Stati Uniti, Giappone, Cina, Germania, anche noi italiani con un pregevole progetto dell’Università di Genova, il Walk-Man. Ma nessuno, alla fine, ha potuto prevalere contro il rappresentante della penisola orientale della lunga dinastia Joseon. È preciso, reattivo, responsabile. Quello che non riesce a fare, per il momento, sembrerebbe affrettarsi in molti dei suoi compiti, almeno a giudicare dal presente video in timelapse, riduzione a un tempo di quattro minuti e mezzo di quello che in origine richiese esattamente 10 volte tanto. Ma quando questa macchina realmente fa qualcosa, guardarla è uno spettacolo davvero illuminante. Non per niente, a seguito di questa complessa e variegata performance, i suoi costruttori provenienti dal semplice ambito accademico hanno incassato dall’agenzia statunitense organizzatrice un assegno di ben 2 milioni di dollari, probabilmente già investito in parte per migliorare ulteriormente la manifestazione metallica più celebre al momento. E il resto, chi lo sa… Guardatelo, mentre scende dall’automobile elettrica, con leggiadrìa del tutto comparabile a quella di un anziano di 95 anni! Pensate che soltanto questa operazione, molto più complessa di quanto potrebbe sembrare in teoria, soprattutto per un essere animato da molte decine di motori indipendenti, ha richiesto innumerevoli tentativi fallimentari portando al sovraccarico lesivo di costosi componenti. Finché non si è giunti a questo compromesso, degli esattamente 100 Newton di potenza per ciascun braccio, validi a risolvere il problema in tempo utile, se non proprio fulmineo. Ciò che viene dopo, poi, è semplicemente straordinario.
Nel progetto tecnico del KAIST, s’intravede la sapienza di chi interpreta i regolamenti non tanto con la logica, come in effetti non sarebbe mai il caso di fare, ma perfettamente alla lettera, cercando il metodo migliore di superare le aspettative dei giudici di gara. “Ah, si?” Deve essersi detto silenziosamente il Prof. Jun Ho Oh, caposquadra dell’operazione: “Dobbiamo costruire un robot che sia in grado di guidare, aprire una porta, impiegare attrezzi, superare un tratto ricoperto da detriti vari e poi salire le scale?” Mumble, mumble: “E chi ha mai detto che dovrà fare tutto questo, camminando?” Quindi, ecco il colpo di genio: l’HUBO (il cui primo nome, con scelta veramente originale nel suo campo, non è in effetti l’acronimo di nulla) è sostanzialmente in grado di trasformarsi, esattamente come i mecha dei cartoni animati giapponesi, benché in modo meno drammatico e spettacolare. Nei momenti in cui deambula sul suo tragitto, infatti, piuttosto che affidarsi alla rischiosa operazione di mettere un piedi innanzi all’altro, costata rovinosi capitomboli a diversi dei suoi temutissimi rivali, il robot poggia le ginocchia a terra, sfruttando le ruote che incorpora poco più sotto per procedere sicuro verso il suo obiettivo. Quasi tutto nei suoi sistemi è stato concepito appositamente per la sfida presente, a differenza di quanto fatto da molti dei team concorrenti, che si sono limitati ad adattare ciò che avevano di pronto, oppure a potenziare in vari modi l’ormai celebre robot umanoide Atlas della DARPA stessa, che era stato fornito dopo le eliminatorie, assieme a dei finanziamenti, alle migliori squadre statunitensi (ce n’erano ben 11), al team dell’Università di Hong Kong e a quello misto USA-Germania dei VIGOR, che l’ha subito colorato di rosso e gli ha dato il nome Florian, da quello del santo protettore dei pompieri.

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