Le auto del futuro secondo un cinegiornale del ’48

Con la guerra alle spalle e una vittoria conseguita grazie allo straordinario potere della tecnologia, gli Stati Uniti sul finire degli anni ’40 erano pieni di fiducia negli eventi dell’immediato, nonché remoto, futuro: la Nazione avrebbe conosciuto la ricchezza di tutti, l’alfabetizzazione perfetta, una rete stradale e dei trasporti del tutto priva di difetti. Tutti avrebbero potuto esprimersi liberamente, alla ricerca di quel principio sacro e universale d’autodeterminazione, sopra il quale governava il senso universale dei popoli finalmente uniti. Pace, cessazione dei bombardamenti e sempiterna sazietà. Una visione del mondo e delle cose che difficilmente può esimersi da modificare a più livelli lo stile di vita della gente, da una maggiore propensione a spendere, alla consapevolezza più che mai giustificata che lasciare un metodo di lavoro imperfetto era possibile, perché il domani avrebbe riservato un metodo diverso per guadagnare. Ed è proprio questo che pensavano anche loro, gli ingegneri e designer automobilistici di più larga fama. Se si spinge lo sguardo indietro fino agli anni ‘2o e ’30, si ha modo di conoscere uno stile motoristico dotato di una bellezza antica, con automobili dalle linee eleganti, ancora simili a carrozze che fossero state magicamente private dei cavalli. Ma dal dopoguerra fino alla prima metà degli anni ’60, soprattutto in Nord America è un tripudio di forme improbabili con pinne, protuberanze, vere e proprie ali sul portabagagli. Con le normative di sicurezza ancora in stato embrionale, ma le catene di montaggio già perfezionate ad un livello comparabile alla tecnica contemporanea, i diversi grandi marchi parevano sfidarsi a chi sapesse creare in mezzo con l’estetica più strana e innovativa, ovvero maggiormente in grado di risultare accattivante quando fotografato dalle riviste di settore, la vera e propria Internet di allora. Ed è questo lo scenario in cui, nel 1948, l’intramontabile mensile Popular Mechanics fece produrre per il cinema questo breve segmento, intitolato in modo pienamente descrittivo: CARS of the FUTURE! Se visto oggi, una vera e propria finestra sullo stile e il gusto estetico di allora, commentato da una magistrale interpretazione della “voce” dei vecchi tempi, quel commentatore spersonalizzato con dozzine di volti e lingue madri in tutto il mondo, che pareva esprimersi a metà tra l’annunciatore di un circo e l’imbonitore delle folle in occasione di colorite fiere di paese. Ma sopratutto con loro, 3 modelli di veicoli dannatamente affascinanti ed al tempo stesso, chiaramente destinati al fallimento di pubblico, visto come non somiglino per niente alle auto che oggi viaggiano sopra l’asfalto.
È un’attenta selezione di quelle che potrebbero definirsi auto utilitaria (oggi la chiameremmo city car) grossa familiare con carlinga in alluminio e fiammante fuoriserie sportiva, ciascuna rappresentante con la massima puntualità la visione delle cose di un particolare progettista, egualmente determinato a lasciare il segno sulla storia futura dell’automobilismo. E tutte egualmente caratterizzate da un’influenza marcatamente aeronautica, perché tutti amavano volare in quegli anni! Con linee morbide, apparentemente pronte ad accompagnare l’abitacolo fin sopra le nubi delle oltremodo lievi circostanze.
Guardare ed apprezzare simili creazioni motoristiche, giudicandole per ciò che sono senza attribuzioni di contesto, è già di per se un’attività meritevole d’attenzione. Perché permette di conoscere il pensiero e l’approccio risolutivo dei tecnocrati all’epoca dei nostri nonni, che ancora lavoravano a stretto contatto con la carta, il righello e la matita, piuttosto che affidarsi all’aiuto procedurale dell’ormai dilagante mezzo informatico, che evita gli errori ma appiattisce il sentimento. Ma è soltanto approfondendo nei dettagli ciò che abbiamo visto e stiamo vedendo, io credo, che si può giungere a comprendere la vera portata della brusca inversione di marcia sopraggiunta nella storia dell’automobilismo, appena poche decadi dopo quell’arbitrario momento. È un fallimento del tutto imprevisto che riprende, per certi versi, quello dello stesso sogno americano…

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L’ombra di Yasuke, grande samurai africano

In un attimo, scese il silenzio nella sala dei ricevimenti. Il signore della guerra con il crocefisso d’oro al collo alzò il suo sopracciglio destro, appoggiando il recipiente col saké: “Volete dirmi, maestro, che il colore di quest’uomo è naturalmente scuro come l’inchiostro, che non l’avete tinto per prendervi gioco di me? Fate attenzione, potrei spazientirmi…” Alessandro Valignano, Ispettore designato di tutte le missioni gesuite in Giappone, sedeva a gambe incrociate di fronte all’uomo più pericoloso e imprevedibile che avesse mai conosciuto. Vestito in kimono, come il resto della sua delegazione, chinò enfaticamente la testa: “Nobile signore!” L’eloquio si svolgeva in uno strano giapponese, impersonale e quasi gnomico nelle espressioni, tanto quest’ultime erano state attentamente selezionate: “Ve lo confermo. Questo giovane volenteroso è giunto presso la nostra ambasciata con l’ultima nave dei rifornimenti, assieme alle bibbie e agli abiti talari per il nuovo seminario. Secondo il racconto del capitano della nave genovese, si è offerto di seguirlo spontaneamente, fin dalla remota terra del Mozambico.” Con questa affermazione, fece un cenno all’interessato, che secondo le istruzioni ricevute precedentemente, avanzò verso il centro della scena arrancando sulle ginocchia, guardandosi bene dall’alzarsi in piedi. Quindi, s’inchinò portando la fronte fino al pavimento in tatami. “Ebbene si. Il suo nome barbarico sarebbe impronunciabile per Voi, come del resto lo è stato per noi cristiani. E poiché viene dal popolo degli Yao, i vostri connazionali hanno preso l’abitudine di chiamarlo Yasuke. Già, usando il semplice suffisso generico dei nomi maschili.” Naturalmente, come tutti coloro che rientrassero sotto la sua giurisdizione, Valignano aveva fatto battezzare l’africano. Ma non vide alcuna utilità nel dirlo, affinché l’irascibile interlocutore non sospettasse che si trattava di una spia. Neppure per un attimo, del resto, egli pensò che il simbolo portato apertamente dal sovrano implicasse una sincera conversione, quanto piuttosto un altro vezzo del suo modo di essere diverso dalla collettività. “Davvero…Molto…Interessante. Bene: Tsuda Nobusumi, nipote mio: paga generosamente il servo del nostro amico. Più tardi vorrò vederlo. E parlare con lui. Per quanto concerne il resto di questo lieto incontro, ringrazia il nostro amico italiano e salutalo per me. Bere mi ha fatto venire sonno.” Il missionario gesuita, che ovviamente era lì ed aveva sentito tutto, tirò un sospiro di sollievo. Quindi, chinò anche lui la fronte fino al pavimento.
Negli anni tra la vittoria a Nagashino nel 1575, ottenuta grazie al lampo e al tuono dei moschetti, e il il giorno della sua morte, sopraggiunta a seguito di un tradimento nel 1582, nessuno avrebbe osato negare il potere pressoché illimitato di Oda Nobunaga, il conquistatore inarrestabile sorto dalla provincia di Owari. Signore di un clan secondario, che dopo essersi ribellato ai suoi alleati più potenti, gli Imagawa, aveva sconfitto un esercito 10 volte più grande grazie all’attacco a sorpresa di Okehazama, per poi annientare i Saito di di Mino impossessandosi del loro castello (che sarebbe diventata la famosa reggia fortificata di Gifu) e piegare l’alleanza degli Azai e degli Asakura, guidata da niente meno che il consorte di sua sorella, la celebre quanto sfortunata dama Oichi. Quindi, per buona misura, avrebbe bruciato fino alle fondamenta il sacro tempio del monte Hiei, dove i monaci della lega degli Ikko-Ikki si erano ritirati a lanciargli i loro anatemi. Senza alcuna pietà, in uno stato di guerra costante, guidato dal desiderio e l’ambizione incontenibile al comando. Per un intera generazione, la situazione apparve fin troppo chiara: se mai l’ammasso di feudi costantemente in conflitto tra di loro che veniva definito Giappone sarebbe mai riuscito a risorgere come una Nazione unita in senso rinascimentale, il portatore di un simile cambiamento sarebbe stato proprio lui, dopo averlo distrutto come una reincarnazione terrena del signore dei demoni Shutendoji. Se non che, un giorno….
Nobunaga era un personaggio che odiava le tradizioni, e cosa ancor peggiore, non rispettava gli antenati. Proprio per questo, il suo più fidato generale, Hashiba Hideyoshi, non proveniva da una grande famiglia ma era un uomo del popolo, che aveva iniziato lavorando come supervisore alle opere edilizie del clan, per poi diventare portatore di sandali del suo signore. Un ruolo molto ambìto, anche dal punto di vista personale. Da lì, comandare la spedizione di 20.000 uomini del 1576 contro il clan dei Mori del Chūgoku, tra gli ultimi oppositori del nuovo ordine, il passo fu estremamente breve. E pericoloso.

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I dannati sulle isole perdute di New York

Nel 1614, quando i coloni finanziati dalla Compagnia olandese delle Indie occidentali giunsero per la prima volta in massa presso le acque di quello che sarebbe diventato l’East River, autostrada d’acqua nel bel mezzo della city newyorkese, loro erano già lì: De Gesellen, i compagni. E ci sono ancora, benché si siano riscoperte consanguinee tra di loro, diventando Brothers – fratelli. Due isolette che si guardano, in grado di attrarre l’interesse dei misantropi che passano di lì. Perché sembra impossibile, che possa esistere un luogo completamente abbandonato nel bel mezzo di una delle metropoli più grandi e celebrate al mondo, poco prima della baia in cui si trova la terza “sorella” Ellis, con il plinto che ospita l’intramontabile Statua della Libertà. Possibile che a nessun fautore dello sviluppo urbanistico programmato, o costruttore edilizio,  o altro tipo di speculatore delle proprietà immobiliari, sia mai venuto in mente di impiegare queste terre emerse in modo utile all’allora nascente società delle colonie americane? Il fatto è che di spazio, in origine, ce n’era in abbondanza. Così che per quasi due secoli, costruire i propri edifici presso un luogo scollegato dalla terra ferma non avrebbe portato alcun vantaggio degno di nota. Finché nel 1850, a qualcuno non venne in mente di spostare qui l’ospedale dell’isola più grande di Blackwell, poco più a monte in quel canale ormai altamente modificato dall’uomo. Ma con un approccio progettuale totalmente differente: alte pareti, solide cancellate, porte chiuse a chiave e ben pochi infermieri, abbastanza coraggiosi ed abili da mantenere le distanze. Volete conoscerne la ragione? Questo divenne ben presto il luogo in cui la città di New York teneva i suoi abitanti più temuti e al tempo stesso, considerati indegni di attenzione: coloro che rimanevano colpiti dalla malattia del vaiolo. In un’epoca in cui la vaccinazione era ancora guardata con estrema diffidenza, e l’umanità non possedeva alcun tipo d’immunità del branco, il concetto di lazzaretto sopravviveva immutato, essenzialmente fin dall’epoca degli antichi, offrendo un terreno fertile a ogni sorta di sgradevole iniquità. Le malattie infettive colpivano preferibilmente nei luoghi sovraffollati, coinvolgendo intere famiglie disagiate, che da uno stato d’indigenza sostanziale venivano rapidamente deportate in questi luoghi dove, tanto spesso, incontravano una morte atroce. Nonostante gli esperimenti di Pasteur del 1796 coi microbi e i vetrini, l’opinione del senso comune, nonché purtroppo il consenso tra molti professionisti della sanità, era che le epidemie nascessero dai miasmi dello sporco e del disagio, in una sorta di generazione spontanea comparabile a quella delle larve putrefacenti nella filosofia di Aristotele, che l’aveva elaborata 14 secoli prima a partire dalle inesistenti conoscenze scientifiche dei suoi tempi remoti. Una situazione che, ben presto, sarebbe cambiata. Proprio grazie alla figura di una donna destinata a rimanere, negli annali della storia, perennemente legata all’isola fratello del Nord, la più grande delle due.
La legge del karma, prodotto di un metodo assai distante di vedere il mondo e la società, è sostanzialmente diversa dal concetto di un angelo vendicatore, perché riguarda unicamente ogni singolo individuo, ed è il prodotto delle sue stesse gesta. Mentre il volere dell’Onnipotente non colpisce mai i deboli, ma proprio coloro destinati al Paradiso, perché credono maggiormente in lui. Ecco a voi un esempio, se dovesse mai servire: nel 1904, la nave a vapore PS General Slocum (che per i molti incidenti subiti, si diceva fosse maledetta) si trovava a navigare presso le due Brother Island, quando all’improvviso, un’incendio si scatenò a bordo. Delle 1.342 persone a bordo, quasi tutti membri della Chiesa Evangelica Luterana di St. Mark che si stavano recando ad un pic-nic, ne sopravvissero soltanto 321, ovvero quelli che avevano avuto la fortuna, e la capacità, di raggiungere a nuovo le vicine rive dell’isola-ospedale, attendendo lì i soccorsi inviati dalle autorità civili. Fu il più grande disastro subito dalla città di New York fino all’attentato delle torri gemelle, e resta tutt’ora il secondo per numero di vite umane perdute al mondo. Ma pur costituendo il più grave e terribile fatto di storia legato alla storia delle due isole dell’East River, non resta probabilmente il più famoso. Un primato legato invece al personaggio di Mary Mallon, cuoca, irlandese, forte di carattere e di fisico, portatrice sana della febbre da tifo. Che potrebbe aver ucciso, con la sua negligenza più o meno intenzionale, un numero stimato di fino ad oltre 50 persone.

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Il valzer della bella e lo squalo

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C’era una volta sott’acqua, il re dei Sette Mari, la cui autorità si estendeva dall’Oceano Atlantico a quello Pacifico, dalle coste del Senegal alle Hawaii. Egli era saggio, e munifico, alto e meraviglioso, e aveva una lunga barba del colore delle alghe nell’era per loro gioiosa della meiosi sporica, il momento della fioritura. Finché una strega chiamata Natura, per sua propensione avversa al sovrano di un regno che minacciava di restare immutato per sempre, non lo incontrò tra le vie sommerse del Golfo del Bengala, ed alzando la sua bacchetta di manganite incrostata di smeraldi, lo colpì con una terribile stregoneria: da quel fatale giorno, egli non ebbe più gambe o braccia, ma pinne, e un’impressionante coda a forma di freccia, mentre il suo corpo si faceva affusolato ed enorme, raggiungendo la massa di 22 tonnellate. Geger lintang, presero a chiamarlo gli Indonesiani, usando un termine che letteralmente significa “Stelle sulla schiena” mentre i Vietnamiti preferirono l’appellativo Cá Ông, ovvero “il Signore dei Pesci”. Noi occidentali dei tempi moderni, sempre pragmatici benché meno propensi all’innata poesia, preferiamo invece la dicitura di Rhincodon typus, il comunemente detto squalo balena. Non c’è a questo mondo un altro essere così imponente, il più grande vivente dopo i cetacei, di cui sappiamo altrettanto poco. Con cui il dialogo è maggiormente difficoltoso, a meno di essere parte del suo originale entourage, camerieri, maggiordomi e governanti lasciatosi trasformare nelle affabili suppellettili dell’augusto castello sommerso. E la ragione, probabilmente, è da ricercarsi nel suo stile di vita, che lo porta trascorrerne una buona parte ad oltre 1.900 metri di profondità, come un orgoglioso eremita, che avesse con tale metodo scelto di nascondere i suoi lineamenti bestiali al mondo.
Ma persino il più terribile dei lupi mannari, che trascorre le notti di luna piena incatenato ai pilastri di un’immota caverna, occasionalmente dovrà uscirne e vivere i momenti gioiosi dell’esistenza. Altrimenti, egli si sarebbe semplicemente tolto la vita, giusto? E così l’enorme animale, più simile ad un’astronave che a un come nuotatore degli azzurri abissi, talvolta risale in superficie, per spalancare la bocca titanica da 310 file di denti e iniziare a fagocitare tutto quello che gli capita a tiro. Innumerevoli chilogrammi, ingenti quintali ed interminabili tonnellate, di materiale biologico sospeso nella corrente. Carne fresca, ma non nell’orribile senso di cui si potrebbe pensare: cobepodi, krill, plankton, gamberetti, uova di pesce, qualche seppia rimasta isolata. Esseri, insomma, di poca importanza. Per lo meno, nella scala metrica della nostra esistenza. Una fortuna? Senz’altro. Perché risparmia la pelle di noi galleggianti umani. Permettendo, qualora se ne presenti l’opportunità, di fare breccia nella possente scorza, per raggiungere infine la splendida mente, nascosta dietro l’aspetto di un mostro preistorico redivivo. Come nella fiaba riscritta dagli autori di mezza Europa, a partire dalla vicenda mitologica di Amore e Psiche, in cui una giovane donna si reca a far visita al nobile trasfigurato…

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