Chi ha tracciato le titaniche figure nel deserto dell’Arabia Saudita?

È una questione raramente considerata, nel breve curriculum sugli studi umanistici che accompagna spesso la formazione di quella che viene definita cultura generale. Eppure, come sappiamo, esiste un lungo periodo di vuoto tra il momento in cui i nostri primi antenati fecero la loro comparsa lungo il percorso evolutivo della vita sulla Terra e i più antichi e concreti resti di una qualche civilizzazione che siano giunti intatti fino alla nostra Era. Ecco perché, in determinati ambienti, sussistono le teorie più disparate per giustificare questo o quell’antico monumento: “L’inferenza ci dimostra che in base al livello tecnologico posseduto dagli imperi del Mondo Antico, è impossibile che 4.000, 5.000 anni fa qualcuno abbia costruito qualcosa di tanto grande e magnifico. Ergo…” Alieni. Esseri sovrannaturali. Misteriose razze di giganti. E sarebbe facile liquidare un simile atteggiamento come mera conseguenza dell’ignoranza, quando la realtà dei fatti è che si tratta, essenzialmente, di un fallimento della scienza archeologica e dei suoi traguardi.
Perché l’uomo frutto dell’educazione tipica dell’Occidente moderno & contemporaneo quando vede qualcosa, deve necessariamente subordinarlo alla propria visione individuale. Non come i beduini che negli anni ’20 dello scorso secolo i quali, interrogati dai postini aerei della Royal Air Force costretti dal proprio mestiere a sorvolare quelle sabbiose terre, definirono gli strani simboli circostanti la zona vulcanica di Harrat Khaybar come un “Prodotto degli antichi popoli” senza null’altro portare al pendente dibattito accademico sulla questione. Tale esistenza, dunque, continuò ad essere menzionata occasionalmente nelle tesi di laurea, le conferenze tematiche e figurare negli itinerari di questo o quel professore, sufficientemente avventuroso da porsi alla testa di una spedizione nelle zone sempre difficili del Medio Oriente; non capita tanto spesso, del resto, di avere l’opportunità di studiare quelli che possono soltanto essere definiti come dei veri e propri disegni fuori misura tracciati con le rocce disposte ad arte, talvolta circolari, altre configurati come dei rettangoli o veri e propri aquiloni, dell’ampiezza paragonabile a quella di un campo da football o persino oltre, sfidando agilmente le proporzioni dei famosi geoglifi della piana di Nazca, senza tuttavia la loro evidente valenza figurativa rivolta al mondo della natura.
Ecco, dunque, l’inizio di questa fantastica storia: con il Prof. David Kennedy dell’Università dell’Australia Occidentale (UWA), esperto di tracce lasciate dall’Impero Romano, che intraprende l’ennesimo viaggio nei dintorni della città sacra di Medina, chiedendo senza riuscire ad ottenerlo il permesso di sollevarsi in elicottero sopra l’harrat, per poter scorgere nuovi schemi nella disposizione di queste figure. Per vederselo, ancora una volta, rifiutato. Se non che al ritorno in patria, su suggerimento di un collega, non riceve l’intuizione di fare un qualcosa di molto simile a quel gesto che conosciamo assai bene, ogni qual volta dobbiamo preparare un itinerario o visitare una nuova città: così apre Google Maps, e scopre qualcosa di assolutamente monumentale. Che negli ultimi passaggi dei satelliti noleggiati dal colosso informatico americano, determinate zone dell’Arabia Saudita hanno ricevuto una mappatura in alta definizione. E che tramite le foto risultanti, si riescono a individuare i disegni che tanto a lungo l’avevano coinvolto ed affascinato. Siamo ad ottobre del 2017, quando sulla base dei nuovi dati acquisiti, egli pubblica un articolo in materia sulla rivista scientifica di settore Arabian archaeology and epigraphy, ottenendo un’invidiabile visibilità online. Ovviamente, i giornalisti di Internet perennemente in cerca di click erano più che mai pronti a gettare ulteriore benzina sul fuoco delle ipotesi selvagge e i cosiddetti Antichi Alieni. Ma i suoi cinque minuti di celebrità erano destinati ad avere anche un effetto positivo, come scoprì all’improvvisa comparsa di un messaggio nella sua casella E-Mail: “Buongiorno, siamo l’Arabia Saudita. La sua richiesta di sorvolo è stata approvata…”

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Furia dell’ipnotico vulcano nella notte indonesiana

Se c’è un’inerente vantaggio negli ultimi progressi tecnologici nel campo delle riprese video digitali, questo può essere di certo individuato nell’opportunità di puntare un obiettivo sul finire del crepuscolo, verso qualcosa di alto, e scuro, e distante, aspettandosi che la sua sagoma figuri chiaramente sul fondale grigiastro del vasto cielo. Chiamatelo pure, se volete, il benefit dell’amplificazione artificiale del contrasto, ma anche perché no, l’effetto stesso delle svariate centinaia di metri di scie infuocate, che liberando fumo e scintille disegnano i profili di una brace vasta quanto la montagna stessa. E se ci trovassimo, col nostro piccolo progetto videografico, in prossimità di un qualsivoglia luogo al mondo, una situazione come questa avrebbe l’occasione pressoché immediata di fare notizia, comparendo in breve tempo su innumerevoli giornali e pagine web. Ma in corrispondenza di una particolare contingenza geografica, come lo svettante massiccio che spicca tra le onde, nello stretto che divide le isole di Java e di Sumatra, tutto questo appare pressoché normale, come periodica effusione dell’enorme, mai dimenticato Krakatoa.
Ecco perché questo impressionante video, realizzato dall’appassionato di fotografia vulcanologica Martin Rietze, pur essendo stato realizzato verso l’inizio della settimana scorsa, non ha avuto modo di fare la sua comparsa nei telegiornali di mezzo mondo: in un luogo remoto all’altro capo del globo, un vulcano erutta fiamme in mezzo al mare. Costituendo una ragione di pericolo, per… Nessuno? Strano come molti siano preparati a mettere da parte la storia, e con essa eventi come il cataclisma del 1883, la più grave eruzione registrata a memoria d’uomo, quando l’antenata di questa stessa montagna esplose con l’equivalente di 200 megatoni di TNT di potenza, collassando su se stessa e dando origine a uno tsunami che costò la vita a 36.417 persone. Antenata nel senso che, di quella stessa montagna-isola un tempo nota all’Occidente come Crackatouw, Cracatoa e Krakatao, successivamente a un tale evento non rimase pressoché nulla che potesse emergere al di sopra dei flutti. Se non che, nel giro di pochi mesi appena, qualcosa di nuovo cominciò ad emergere al suo posto. Oggi lo chiamano Anak Krakatau, il “figlio di Krakatoa” e benché misuri ad oggi circa la metà degli 813 metri un tempo raggiunti dalla più alta delle vette del suo genitore, esso appare più che mai intento a perseguire la stesso obiettivo di pendere, come una spada acuminata, sulle teste degli sporadici benché popolosi villaggi situati nei più immediati dintorni della sua svettante presenza rocciosa.
Benché occorra, nei fatti, applicare un distinguo: eventi come quello dell’attuale attività eruttiva, in realtà in corso dalla metà del mese di ottobre scorso, costituiscono un evento fortunato, poiché permettono di limitare l’accumulo di pressione attraverso gli anni, permettendo che il sito problematico si trasformi ancora una volta nell’equivalente sovradimensionato di una pentola a pressione. Sarebbe tuttavia difficile, nel caso specifico, non alzare lievemente un sopracciglio e pensare: “Sono pazzi, questi turisti!”

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La spiaggia che assorbe la luce assieme al mare d’Islanda

È soltanto una volta scesi dall’aereo e lasciata Reykjavík, percorrendo la grande Hringvegur, o strada ad anello che circonda un’intera nazione nel mezzo dell’Oceano Atlantico verso la costa meridionale della terra vulcanica per eccellenza, che si acquisisce realmente la sensazione di trovarsi su un’altro pianeta. Tra zone verdeggianti e montagne pietrose, parallelamente a ruscelli che trasformano in sottili e scintillanti cascate. Dove lo sguardo rapito non può che lasciare la strada asfaltata, verso i rilievi che formano l’anfiteatro distante da cui provengono quelle misteriose nebbie cineree, esalazioni dalle viscere stesse del Profondo. In luoghi come il vulcano di Katla, ospitante il ghiacciaio di Mýrdalsjökull, al cospetto del quale si estende il singolo insediamento più vasto dell’isola, per lo meno dal punto di vista dell’estensione. Quel “villaggio” di Vík í Mýrdal, misurante circa 70 Km da un’estremità all’altra, secondo quanto definito dalle disseminate case dei suoi appena 291 abitanti. Ed è soltanto fermandosi in questo luogo, presso una delle stazioni di ristoro o rinomati piccoli alberghi a disposizione del fiorente turismo locale, che il visitatore potrà iniziare la propria escursione più memorabile, di un viaggio e probabilmente, fase intera della sua stessa vita. Verso una striscia nera di sabbia vulcanica che pare attraversare l’Atlantico, incorniciata tra il promontorio (fjall) di Reynir, nome del primo vichingo che chiamò questo luogo “casa”, e la maestosa formazione rocciosa denominata Dyrhòlaey, un’arco abbastanza alto da permettere il passaggio di un’intera nave.
È Reynisfjara, unica spiaggia non tropicale a figurare regolarmente nelle classifiche di tali luoghi, un territorio battuto dal vento gelido e le onde incessanti provenienti dal Settentrione, dove il visitatore tende a dimenticare la propria identità e luogo di provenienza, mentre si sperimenta la furia possente della natura. Finché una vista assurda e apparentemente illogica, d’un tratto, non lo riporta ad interrogarsi sulla meccanica di quello che sta vedendo; la risacca che sale con insistenza, spingendolo a ritirarsi verso le scoscese pareti basaltiche del promontorio antistante. E poi… Piuttosto che ritornare indietro, sparisce senza lasciare traccia. Sembra di assistere all’effetto grafico di un imperfetto videogame. Poiché ciò che sale, dovrebbe prima o poi percorrere la strada inversa. Non trasformarsi in materia invisibile, ovvero sostanzialmente, lasciare la piena esistenza di questa Terra! Possibile che al di là della nebbia, quel giorno, fossero in atto forze mistiche o sovrannaturali… Come la notte lungamente narrata, in una leggenda folkloristica locale, durante la quale tre giganteschi troll attaccarono una nave da trasporto a largo del Reynisfjall, cercando di trascinarle a riva per trafugarne il carico. Se non che la coraggiosa resistenza dei marinai, spinti dalla forza della disperazione, finì per impegnare i mostri fino al fatidico sorgere dell’astro solare, il cui potere sui vagabondi capaci di rigenerarsi è fin troppo noto; pietrificazione, senza nessuna pietosa via di scampo. Tanto che essi campeggiano, tutt’ora, a largo della spiaggia e in forma di faraglioni erosi dalle onde, tra cui il vento sibila con un velato senso di scherno. Reynisdrangar, è il loro nome, e in alcune versioni del racconto si tratterebbe invece di due giganti e un’incolpevole fanciulla lasciata a trasformarsi in pietra con loro da suo marito, in cambio della promessa da parte dei bruti di non nuocere più all’esistenza e la vita degli umani. Di certo un fato tutt’altro che invidiabile, benché non privo di una certa solennità immanente.
Eppure, strano a dirsi, la spiegazione del gioco di prestigio con l’acqua tra i grani cupi è una commistione di fattori estremamente logici, nient’altro che l’espressione di quel rapporto tra causa-ed-effetto che fin dall’alba dei tempi, ricevette il compito di governare il mondo. Se soltanto una simile astrusa scenografia, così diversa da ogni esperienza pregressa, non facesse tutto il possibile per trasportare la mente a pensieri distanti…

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Il prodigio della montagna comparsa in un campo di grano

Vi sono immagini a questo mondo, dal chiaro significato storiografico, capaci di riassumere in un singolo sguardo il senso di un particolare evento e il contesto socio-geologico del suo verificarsi. In Giappone, una di queste potrebbe senz’altro essere il diagramma Mimatsu, figura in bianco e nero tracciata dall’omonimo capo dell’ufficio postale di Sobetsu-cho in un periodo di due anni, prima di essere presentata alla conferenza mondiale dei vulcani di Oslo, nel 1948. L’autore aveva, all’epoca, esattamente 60 anni e nessun studio di settore specifico alle sue spalle. Eppure, in un paese reduce dalla dura sconfitta della seconda guerra mondiale culminante nei tragici bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, proprio lui era stato l’unico a cui fosse venuto in mente di misurare, annotare e testimoniare uno dei fenomeni più rari ed atipici che gli fosse mai capitato di vedere. Nella sua opera è rappresentato un riquadro rettangolare, all’interno del quale compare il profilo topografico di ciò che potrebbe essere soltanto un rilievo montuoso. Ma disegnato più volte in maniera ricorsiva, quasi come se all’interno ne contenesse un secondo più piccolo, un terzo e così via a seguire. Soltanto a uno sguardo più approfondito, a quel punto, si nota che le cinque linee sovrapposte grossomodo corrispondenti a quelle di un pentagramma, ciascuna riportante l’altitudine a distanza di 100 metri, è stata associata una serie di date. Perché ciò che l’immagine vuole rappresentare, in effetti, è la progressiva crescita del Nuovo Monte Comparso Durante il Regno dell’Imperatore Hiroito, o come preferiscono definirlo da queste parti, l’incredibile Shōwa-shinzan (昭和新山).
Siamo ai piedi del Monte Usu, lo strato-vulcano più imprevedibile e pericoloso dell’intera isola settentrionale di Hokkaido, già responsabile circa 110.000 anni fa della formazione della grande caldera del lago Toya, ulteriormente connotata 60.000 anni dopo dall’isola centrale magmatica di Nakajima. Per poi tacere, attraverso le epoche, fino al relativamente recente 1663, iniziando il significativo risveglio che lo avrebbe portato ad una serie di grandi eruzioni di cui l’ultima nell’anno 2000, ciascuna capace di modificare profondamente il paesaggio circostante. Tale montagna presenta infatti la dote particolare, ma tutt’altro che unica, di proiettare dei flussi magmatici effusivi a base di dacite, un minerale in grado di solidificarsi in maniera piuttosto rapida dando origine a picchi periferici, muraglie naturali e quelli che vengono convenzionalmente chiamati duomi o cupole di lava, delle vere e proprie riproduzioni in miniatura del vulcano stesso. Successe per la prima volta a memoria d’uomo nel periodo a partire dal 1910, con la creazione del Meiji-Shinzan (明治時代 – Nuovo Monte dell’Epoca dell’Imperatore Mutsuhito) l’agglomerato roccioso ai margini del quale sgorgò acqua calda in quantità sufficiente a fondare, verso il termine dello stesso anno, quella che sarebbe presto diventata la città termale di Tōyako. Con una rapidità e imponenza comunque non propriamente paragonabili a quelle dell’episodio successivo, pienamente documentato dalla sapiente opera dell’impiegato municipale Masao Mimatsu nel suo celebre diagramma.
Non è noto se fosse stato lui, in effetti, il primo a notarlo. Tuttavia è certo che dal suo ufficio fosse perfettamente visibile, nell’anno 1943, il più significativo effetto del grande terremoto che colpì la regione il 28 dicembre di quell’anno: un evidente sollevamento della zona coltivata dagli abitanti di Sobetsu-cho, accompagnato dalla formazione di numerosi crateri e la comparsa di grandi pennacchi di fumo tutto attorno alla zona interessata. La situazione continua quindi a degenerare nei mesi successivi, con uno sciame sismico che non accenna a diminuire e colate laviche, molte delle quali assai distruttive. Finché ad esattamente un anno di distanza, quando il fumo inizia a diradarsi, Masao scorge qualcosa d’inaspettato: un massiccio rossastro nel mezzo degli ex-campi di grano; che progressivamente continua a crescere. Sempre di più.

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