Le tre case delle bambole più preziose al mondo

Astolat Dollhouse

Era giovane, bionda, attraente e facoltosa. Mangiava senza mai ingrassare. La sua ricchezza proveniva dal petrolio, ma non nel senso che si potrebbe tendere a pensare; aveva l’automobile, l’aeroplano, la villa con piscina, il cavallo pezzato, il castello delle fate, almeno due dozzine di cani, un guardaroba senza limiti nello spazio quantistico della realtà. Aveva fatto svolto innumerevoli mestieri, tutti in qualche modo affascinanti e significativi: l’ereditiera (mi pare giusto) la stilista, la vigilessa del fuoco, la poliziotta, la veterinaria, persino l’astronauta. Eppure, per qualche impercettibile, indefinibile ragione, la sua vita a volte gli sembrava in qualche modo, come dire… Finta. A cominciare dall’eterno fidanzato, col suo fisico statuario, sempre galante e pronto a seguirla nelle sue follie più assurde (come quella volta in cui interpretò il principe azzurro, per un vezzo transitorio di lei) eppure privo di una personalità complessa, incapace d’imporsi, in qualsivoglia minimo dettaglio. Qualcuna avrebbe potuto definirlo, non senza un vago tono derisorio, lo stereotipico “bel bambolotto”. E tu lo sai, quanta ragione avrebbe avuto, Bella B.
Il motivo per cui la bambola più popolare e diffusa dell’intero mondo occidentale e oltre, amata alla follia da chi ce l’ha, follemente desiderata dalle bimbe temporaneamente disagiate, o ancora peggio, povere, potrebbe provare un vago senso d’inadeguatezza, va rintracciata proprio nell’essenza del suo patrimonio immobiliare, tutto composto da quell’unico, onnipresente materiale: la plastica. Che di per se non mostra alcuna debolezza strutturale, quando si applica in un mondo abitato da figure antropomorfe alte 11,5 o 12 centimetri. Anzi, se noi stessi umani avessimo tali misure, probabilmente il materiale proveniente da sostanze organiche polimerizzate lo useremmo in ogni cosa e ancor di più di adesso, a partire dal settore edile. Ma la vita dei giocattoli, si sa, è segnata dal supremo desiderio. E del resto la versatile fashion doll potrebbe anche aver assistito, nel corso della sua ultra-sessantenne vita, allo spettacolo di ciò che possa effettivamente diventare una perfetta casa della sua misura, dalle mura in rame e cartapesta, con divani di stoffa e realmente imbottiti, le armature negli androni in f-e-r-r-o, armadi di legno, l’argenteria d’argento e per non parlar della gioielleria, doverosamente e per la prima volta, ingioiellata. Meraviglie senza tempo o limiti di contesto, costruite attraverso gli anni come fossero una sorta di ossessione, da personalità degne di essere iscritte a pieno titolo nell’albo dell’arte. Il mondo delle case delle bambole, una volta in prossimità della vetta, si trasforma in un’ambiente notevolmente competitivo, all’interno del quale tutto viene valutato, incasellato, messo in ordine per importanza. E sulla vetta di poche, straordinarie alternative, risiede indubbiamente il capolavoro di Elaine Diehl del Colorado, miniaturista che vi lavorò alacremente per un periodo di 13 anni, dal 1974 al 1987, includendo al suo interno l’opera di innumerevoli abili e ben stipendiati colleghi. Il suo nome: Astolat Dollhouse Castle. Il suo valore: 8 milioni e mezzo di dollari, alla stima più conservativa.

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Quando Kyoto brucia tra la gioia della gente

Hi no Matsuage

Di ritorno dalla grande caccia, il sommo Izanagi fuoriuscì dagli alberi della foresta del Cielo, in sella al sacro cavallo, con l’arco divino stretto in una mano e l’altra a farsi scudo dalla luce dall’astro nascente dell’unica ed infinita alba, in questo mondo ancora privo di una dea del Sole. Dinnanzi a lui, nel mezzo della valle ricoperta dai fiori d’ibisco, sorgeva il magnifico palazzo Yahiro-dono, dai tetti aguzzi ricoperti da maestose tegole, con figure di draghi, fenici e nuvole di terracotta. Egli si voltò brevemente, per osservare il suo ristretto gruppo di servitori, quattro spadaccini ed un lanciere, che s’industriavano nel trasportare la grande carcassa del Qilin, la belva chimerica con corpo scaglioso, testa di drago e zoccoli da cervo, le sue corna ramificate anch’esse simili a quelle di una tale bestia del reame sottostante. Con gesto imperioso, il dio fece cenno agli uomini di proseguire verso la dispensa ultraterrena. Poiché egli, d’improvviso, aveva percepito un grido trasportato dall’aria, come di una donna che gridava la sua rabbia ed impotenza. Assicurato l’arco alla sua sella, galoppò veloce lungo le pendici, verso la grande veranda della sua dimora, da cui tante volte aveva osservato la Luna assieme alla sua consorte, la splendida Izanami-no-Mikoto, Colei che Riceve. Giunto a pochi metri dal tatami rialzato sopra il suolo del giardino, il Dio balzò giù dalla cavalcatura, e in un solo fluido movimento sembrò disgregarsi, per riapparire con incedere maestoso, la veste agitata dal vento, il volto severo e determinato.  Sull’apertura che conduceva alla sala centrale del palazzo, tuttavia, dovette fermarsi poiché lì, con immediato senso d’angoscia, notò la presenza della somma levatrice inginocchiata, con la fronte che toccava terra e le braccia divaricate, poste a sostenere il peso della sua vergogna senza fine. Con la voce stravolta dai singulti, la vecchia faticosamente parlò: “Mio Signore! Come avevate previsto nella Vostra infinita saggezza, la Signora ha dato i natali a un altro essere sovrano… Kagutsuchi, il dio del Fuoco. Tuttavia, si è verificata una terribile tragedia! Adesso lei è, è…” Izanagi resto immobile per tre, quattro secondi. Quindi con un semplice gesto imperioso, chiamò il vento che scaraventò la levatrice in fondo al corridoio, sfoderando la sua luminosa spada in ferro meteoritico, mentre l’infelice servitrice, manifestazione del suo stesso desiderio di creare la vita, già accettava il suo destino. Ma con somma sorpresa di quest’ultima, il dio voltò di lato, per dirigersi verso gli appartamenti di Izanami, dove la disgrazia si era compiuta. Il sollievo lasciò allora il posto allo sgomento, quando apparve chiaro ciò che stava per succedere. La levatrice, i capelli bianchi sciolti dall’impatto subìto, si affacciò zoppicando sulla sala antistante, appena in tempo per assistere alla scena: il sommo dio era di schiena, intento ad osservare questo suo ultimo indesiderato figlio. Kagutsuchi era fuoco puro, la capigliatura di scintille, gli occhi simili a dei pozzi incandescenti. La piccole manine artigliate, simili a quelle di un tanuki mutaforma, protese verso il dio paterno con la ferrea spada in pugno. Il corpo della partoriente Izanami, gravemente ustionata, giaceva in un angolo, momentaneamente dimenticato. D’un tratto, si udì risuonare una singola parola: “No.” Allora Izanagi, colpì. In un solo fluido movimento, fece il neonato in due volte quattro pezzi, che con suono roboante parvero ingrandirsi a dismisura, poi scomparvero precipitando attraverso il pavimento. Ciò perché l’uccisione di un sommo essere, naturalmente, risultava del tutto impossibile. Questo, la levatrice lo sapeva molto bene. Quando il suo signore finalmente si voltò a guardarla, lei comprese ciò che era appena successo: il dio del fuoco era stato suddiviso in otto vulcani, che da quel giorno sarebbero sorti nei territori sottostanti, lungo l’arcipelago che aveva il nome di Giappone. Tale si era dimostrata la sovrana Volontà.
Non c’è davvero da sorprendersi, a ben pensarci, se nella maggior parte delle mitologie l’origine del fuoco ha sempre una storia drammatica e terrificante, tale da condurre a un senso d’angustia i bimbi prima dell’ora di andare a dormire. Tra tutti gli elementi, questo è infatti il più potente, ed al tempo stesso terribile, ustionante, belluino, che tuttavia conduce l’uomo a ciò che egli fondamentalmente, è. Così fu deciso ce le genti di Yamato non avrebbero mai conosciuto la sua somma personificazione, poiché bastavano le sue manifestazioni terrigene, per fare danni senza fine. Ciò perché smembrando Kagutsuchi, il padre aveva in realtà ottenuto l’effetto contrario all’esorcismo desiderato, assicurandosi in realtà che un tale essere si diffondesse fecondo per le quattro direzioni cardinali, dando l’origine remota ad infiniti e orribili disastri. Con il passare delle generazioni, finì l’era degli dei e iniziò quella degli uomini. Attraverso innumerevoli tribolazioni, la gente di Yamato crebbe in saggezza e raffinatezza, fino a stabilire i crismi di quell’epoca che ha il nome di Heian, in cui poetesse nazionali raccontavano le storie di un amore senza tempo, tra gli edifici di una capitale quale il mondo non aveva mai veduto prima. Finché nel 940, le porte di Kyoto non si spalancarono di scatto. Il dio del fuoco era tornato, per esigere vendetta.

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Come creare un anello da una moneta in due minuti

Coin Ring 2 Minutes

“Consegnerai l’Unico, Frodo, attraverso i fuochi e i veleni irrespirabili dell’orribile terra di Mordor” Erano i poeti, erano gli artisti, i creativi e i filosofi, le menti più insigni di una tragica generazione. Nelle trincee della Somme, da cui le forze congiunte di Francia e Inghilterra si scagliarono a più riprese contro le solide difese del kaiser Guglielmo tra luglio e novembre del 1916, non vi era soltanto sofferenza, morte e malattie. Ma un gruppo di persone costrette dalle circostanze, nonostante tutto, a mettere il futuro sopra un piedistallo. Che ci fosse ancora la certezza di un dopo, la sopravvivenza delle proprie ambizioni individuali, oltre l’odio dello straniero, risultava difficile da dimostrare. Le metafore, dunque, diventavano fondamentali. Ed è ormai estremamente difficile, nonostante la dilagante letteratura e cinematografia di genere creata anche ad anni di distanza, identificare i sentimenti che si affollarono in quelle profonde buche fangose, sotto il fuoco dell’artiglieria e i fucili del nemico. Questo probabilmente perché la nostra intera cultura popolare, forgiata nelle fiamme di una tale grande guerra, ha incidentalmente scelto di seguire la via di minore resistenza, quella così efficacemente esemplificata da un singolo ufficiale di segnalazione del 13° Battaglione di Fucilieri di Lancaster, noto al mondo soprattutto con il suo cognome alquanto inusuale: Tolkien, J.R.R, un sognatore. A quei tempi laureando in lingue antiche e germaniche dell’Università di Oxford, proprio costui già stava ponendo le solide basi durature, per un mondo fantastico che avrebbe scavalcato le generazioni. La terra degli elfi e degli hobbit, draghi, mostri e diavoli trasfigurati, stregoni senza tempo dediti al destino; per ciascuno di essi, come per i loro viaggi tormentati, non sarebbe stato difficile trovare una corrispondenza nella sua vicenda personale. Ma perché poi, forse alcuni si saranno chiesti, egli dovrebbe aver scelto tra il vasto e variegato corpus leggendario oggetto dei suoi studi di narrare proprio le vicende a margine di quella particolare cosa? l’anello che era stato di Alberich lo gnomo… Come Wagner prima di lui, cambiando molte cose, eppure mantenendo il significato universale che un simile ornamento ha sempre avuto nella storia dell’epica narrativa. Magia sconfinata, il più grande potere che si potesse infondere in uno spazio chiaramente definito e grazie alla sapienza costruttiva dei metalli. Il fatto è che, piuttosto sorprendentemente, gli anelli erano ovunque lì, fra gli alloggi dei soldati al fronte. Se li scambiavano i meno disperati, come oggetti da collezione, prima di inviarli verso casa assieme ad una lettera, ai propri cari all’altro lato della Manica o dei mari. Li custodivano gelosamente gli ufficiali, nella tasca frontale delle proprie uniformi, in attesa di poter tornare a farne dono alla figura femminile idealizzata, quella ragazza o donna che volevano sposare. E tutti assieme ne insegnarono il segreto costruttivo, nei due anni successivi, a tutti quei colleghi provenienti dagli Stati Uniti, i rinforzi tanto spesso auspicati eppure mai, davvero, considerati probabili o imminenti. Ma l’ambizione dei popoli contrapposti, a quei tempi come adesso, può portare a strani e fortuiti ribaltamenti delle circostanze. Così, tra il riecheggiare del fuoco incrociato, ebbe fine quel conflitto, mentre ciascuno se ne ritornava a casa propria col bagaglio acquisito d’esperienze, immagini terrificanti. E come Bilbo Baggins, almeno un singolo prezioso souvenir, benché costruito molto spesso con le proprie stesse mani.
Un anello moneta è il principale prodotto di una particolare sotto-cultura, particolarmente diffusa all’altro lato dell’Atlantico, per cui un privato cittadino, contravvenendo alle severe leggi federali, talvolta decide di trattenere una parte insignificante del conio della sua nazione. Per distruggerla e poi ricrearla nella forma, totalmente differente, di una banda metallica di forma circolare, possibilmente senza rovinare le diciture in latino e qualche volta inglese, la fondamentale data e (almeno) parte del disegno che seppero tracciarvi i suoi creatori originali, i tecnici manovratori della zecca. Un dettaglio interessante? Seguendo la prassi creativa originale, quella notoriamente praticata dai soldati della prima guerra mondiale, tali parti dell’immagine in rilievo venivano a trovarsi nella parte interna dell’anello, sostanzialmente invisibili senza rimuoverlo dal dito. Un meccanismo ritrovato nell’Unico di Tolkien, che mostrò finalmente il suo messaggio segreto solamente quando riscaldato, dopo molti anni dal suo ritrovamento, nelle fiamme di un semplice camino.

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Origami magnetici e brucotreni a batteria

Ugoita Origami

Divertimento del sabato sera grazie all’uso dell’elettromagnetismo: come mai non ci avevamo mai pensato? Cinque gru di carta dorata giapponese, sviluppate altrettante paia di gambe umane grazie al corso dell’evoluzione, giacciono immote sopra un piano lucido e specchiato. Uno stato naturale ma soltanto temporaneo. La vibrazione della musica percorre l’aria: uno, due, tre colpi di basso e poi la batteria, con l’accompagnamento stridulo del sintetizzatore digitale. Difficile non battere un po’ il tempo nella mente oppure con la mano, se davvero necessario. Con il corpo e con le gambe, con le ali, il becco e quella coda striminzita. Perché esistono due tipi di uccelli di cellulosa a questo mondo: decorativi ed action-mode. Il secondo àmbito, come dimostrato negli astrusi manuali del settore, è concepito per trovare il suo significato nella manipolazione. Lo tiri da dietro, allunga il collo. Ne ruoti il segmento intermedio, agita le piume per spiccare un volo immaginario. E così via, nei limiti della possibile ragionevolezza. Finché non aggiungi, follemente per le telecamere, il fluido mistico della ferrite.
Mettiamoci il camice, il cappello, le cuffie e i guanti a mezze-dita: è giunta l’ora dell’esperimento. Un momento riservato, per la convenzione, alle scolaresche di fisica o di chimica, indotte dall’insegnante a visionare qualche strana conseguenza dell’incontro tra le cose o le sostanze. C’era questa credenza largamente immotivata, secondo cui l’osservazione di uno strano fenomeno, indotto da un demiurgo appassionato al suo mestiere, potesse fornire comprensione e poi memoria di una qualche legge di natura. Poi tale intendimento, col procedere del tempo, è andato a perdersi nella foresta. Siamo ormai amanti dell’assoluta spettacolarizzazione. Quando ogni cosa, persino le più astruse, possono trovare un senso per farti passare due minuti a filosofeggiare, temporaneamente scollegato dalle problematiche del mondo delle cose, ci occupiamo veramente della causa di funzionamento? È come una danza con la scienza, questo modo di passare il tempo, eternamente trasformata grazie alla genialità dell’ultimo arrivato. O degli ultimi creativi: vedi i giovani tecnici del canale di Ugoita T, che hanno trovato il modo per far muovere le loro candide creazioni non-pennute. Il segreto viene generosamente svelato, in un paio di fotogrammi sull’inizio della splendida sequenza. Sotto il vetro del cassone costruito persiste un complesso array di piccoli elettro-magneti, sostanzialmente cilindretti in ferro con un filo di rame avvolto tutto attorno. Che una volta “illuminati” grazie all’energia, sviluppano quel campo che ha la strana capacità d’attrarre ciò che gli assomiglia. E di respingere quello che è uguale. Ciò che restava da fare, a questo punto, era soltanto collegare il tutto attraverso una serie di cavi ad una di quelle schede informatiche a basso costo, come l’italianissima Arduino, usate in tutto il mondo per la costruzione di prototipi o invenzioni tecnologiche. Si: persino fin laggiù, in Giappone. Persino per far muovere le gru, sulla base di un’accuratissima programmazione.
Secondo la tradizione stregonesca giapponese il tipico onmyōji, l’esorcista cacciatore di mostri e di yokai (fantasmi, apparizioni) aveva la capacità di farsi assistere da un tipo assai particolare di famiglio, lo shikigami – 式神Simili spiriti incorporei, in grado di svolgere ogni tipo di mansione, dal mantenere in ordine la casa ad affrontare gli orchi oscuri della notte, potevano essere controllati attraverso l’impiego di piccoli manichini di carta, all’interno dei quali venivano confinati durante l’utilizzo.  Cosa facesse muovere quei pupazzetti, resta largamente ignoto.

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