Nella foto commemorativa scattata prima dell’inaugurazione del RAMP, il nuovo stabilimento industriale presso la cittadina di Eugene, Oregon, l’intero team della startup (che ce l’ha fatta) campeggia in posa di fronte all’ingresso principale, di fronte ad un collega intento a dar spettacolo puntando in aria quello che sembra proprio essere un moderno lanciafiamme. Ma scrutando attentamente in mezzo al gruppo di persone, sul retro e con espressione quietamente soddisfatta, un ipotetico conoscitore visuale dei personaggi dell’industria videoludica degli anni ’90 potrebbe riconoscere una figura d’importanza niente meno che fondamentale: Mark Frohnmayer, già unico amministratore della software house Garage Games e ancora prima il programmatore capo per la Dynamix nel 1998, per la creazione dell’iconico Starsiege: Tribes, uno dei primi sparatutto completamente online. Imprenditore sufficientemente eclettico, nonché latore di una visione abbastanza programmatica, da reinvestire buona parte dei fondi guadagnati vendendosi la propria compagnia nel 2007, al fine di far prendere forma ad un qualcosa di prezioso, magnifico e abbastanza rivoluzionario, soprattutto nell’attuale panorama motoristico statunitense. Una venture primariamente concentrata nello sviluppo e produzione in serie di veicoli elettrici? Come la Tesla, certamente, ma attraverso una serie di linee guida marcatamente differenti. Poiché finalità primaria di Arcimoto (pronunciata all’americana: Arkimoto) non è solo quella di produrre veicoli di pregio e dal sicuro impatto generazionale. Bensì farlo a un prezzo che sia sufficientemente abbordabile, tutto considerato, da portare a un cambio di paradigma per l’attuale inefficiente mondo degli spostamenti veicolari urbani.
Così una volta fatto il proprio ingresso dentro il capannone, il pubblico degli azionisti è stato invitato a prendere visione e toccare con mano le diverse proposte create dall’azienda negli ultimi anni, come versioni commerciali derivate dall’idea di partenza di un’autovettura ad emissione zero con tre ruote e un prezzo inferiore ai 20.000 dollari. Ma è stato soprattutto la sorpresa svelata dallo stesso Frohnmayer nel corso del suo keynote, con un video di sicuro impatto e conseguente spiegazione approfondita in merito a caratteristiche e concezione del prodotto, a monopolizzare l’attenzione dei presenti e della “stampa” internazionale (intesa soprattutto come pagine web di settore). Mean Lean Machine, l’Astuta Macchina Piegatrice rappresenta infatti un significativo cambio di registro per l’azienda nel suo complesso, affiancando alla propulsione dei tre motori elettrici un paio di pedali utili ad incamerare l’energia muscolare umana. Giungendo a costituire, nei fatti, il primo esempio di bicicletta con due ruote sterzanti ed una posteriore fissa, grazie all’applicazione delle speciali tecnologie di stabilizzazione create in via specifica dall’Arcimoto. “Consideratelo come un tapis roulant della Peloton che potete usare per andare a fare la spesa.” Scherza il direttore. Quindi prosegue esponendo il suo termine di paragone preferito: quanti di questi mezzi di trasporto possono essere prodotti usando le preziose risorse della Terra necessarie per un singolo SUV della Hummer o due auto sportive della Tesla? Esattamente 100. E direi che non c’è niente da ridere, in tutto questo…
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Roth & Fink: storie di oniriche automobili create sotto il segno di un topo gigante
Non è possibile raggiungere uno stato di preminenza culturale, in un paese e un’epoca, senza prima essere riusciti a sviluppare un assoluto rapporto di predominio con il puro mondo della forma. E per quanto riguarda l’imponente Ed “Big Daddy” Roth, fabbricante di fantasiose automobili (e molto più di quelle) nei ruggenti anni ’60 e ’70, all’apice della cosiddetta Kustom Kulture californiana, potremmo affermare che con le sue opere gli sia riuscito non soltanto di approcciarsi all’assoluta essenza di una simile questione, ma averla addirittura capovolta, implosa e risaldata tramite la lente di un’osservazione informata. Dei modelli, le correnti e quella regola assoluta del cool in quanto tale, intesa come la capacità di impressionare chiunque fosse in grado di mantenere la mente sufficientemente aperta; senza il peso, ultimo e gravoso, di una logica apparente nei suoi gesti e tutto quello che ne consegue. Prendete ad esempio la sua Rothar del 1965, risalente al suo periodo motociclistico in cui frequentò per circa una decade le cerchie della vasta organizzazione degli Hell’s Angels. Surreale triciclo costruito a partire da una Triumph da 650 cc, con un abitacolo a bolla direttamente prelevato da un episodio del cartoon dei Jetsons (i Pronipoti) mentre la forma della carrozzeria in colori patriottici pare precorrere l’hovercraft magnetizzato Blue Falcon, uno dei protagonisti del videogame di corse degli anni ’90, F-Zero. Nient’altro che il frutto di un approccio estremamente personale al processo creativo delle hot rods, vetture fortemente personalizzate particolarmente rappresentativa di circa della metà del secolo scorso, quando la creazione di un’estetica “aggressiva” o in qualche modo memorabile era considerato molto più importante che massimizzare prestazioni o funzionalità. Fino al caso estremo delle rat rods, veri e propri mezzi derelitti che sembravano direttamente fuoriusciti da uno sfasciacarrozze, tanto erano malridotti, arrugginiti e fuori dagli schemi di un mondo che potesse dirsi, a tutti gli effetti, civilizzato. E per quanto un tale approccio possa dirsi assai lontano dallo stile allegro e stravagante delle auto più famose di questo autore, resta chiaro come le sue origini risultino legate strettamente a quel mondo ed una simile visione estetica, particolarmente grazie al suo personaggio più famoso, Rat Fink: una malefica caricatura di Mickey Mouse, verde, occhi rossi, con grandi orecchie pelose, denti sporgenti e la lingua che fuoriesce talvolta dalla bocca famelica, soprattutto mentre si trova alla guida di automobili sproporzionatamente piccole e spesso mostruosamente malridotte. Nato come illustrazione per una serie di popolarissime magliette, vendute e pubblicizzate a partire dal 1958 nel contesto della rivista per appassionati d’auto Car Craft, il minaccioso roditore si trovò in tal modo all’origine di un’intero nuovo genere d’illustrazioni, destinate a diventare un punto fermo per oltre due decadi di controcultura motoristica. Particolarmente quando i suoi veicoli immaginifici, assieme a quelli di un cast di assurdi comprimari tra cui Drag Nut, Mother’s Worry e Mr. Gasser, iniziarono incredibilmente a prendere una forma perfettamente tangibile grazie al secondo hobby del loro creatore…
Scintille sulla pista che conduce oltre l’Olimpo delle automobiline iperspaziali
Un’atmosfera tesa nella stanza, quasi elettrica. Quel suono sibilante e quell’odore tipico di plastica bruciata. Il gruppo di persone concentrate fino all’inverosimile, con stretti tra le mani una variegata e stravagante serie di filocomandi. La grande pista, costruita al centro dell’ampio spazio a disposizione, percorsa nella sua interezza da una serie di fessure parallele di un colore diverso e in grado di seguire ogni curva, ciascun rettilineo. Ma nessuna traccia, a un’occhio meno che allenato, di veicoli su ruote intenti a gareggiare… Dove sono le macchinine? Possibile che stiano tutti recitando solamente un ruolo all’interno di una ricostruzione digitale dei tempi ormai trascorsi? D’un tratto, si ode un suono di plastica che urta il metallo; un piccolo oggetto variopinto, materializzandosi a ridosso della sponda del circuito, rimbalza rovinosamente sul terreno. Uno degli addetti alza il braccio a segnalare l’incidente, i concorrenti smettono di premere i rispettivi pulsanti. Sette piccole automobili aerodinamiche, come per magia, compaiono in punti diversi del circuito, momentaneamente ferme per permettere il recupero della collega uscita dal suo alloggiamento. Passano uno, due secondi prima che sia stata messa nuovamente in carreggiata. Il giudice abbassa il braccio. Le automobili scompaiono di nuovo. Apoteosi.
Il che rientra d’altra parte nella norma per questo particolare tipo di sport motoristico da camera, identificato nell’idioma anglosassone con il binomio di slot car. Ma che noi italiani particolarmente se non iniziati, siano soliti semplicemente definire pista per i modellini o pista elettrica per bambini. Laddove la realtà dei fatti ci dimostra come questo possa essere un giocattolo soltanto a giorni alterni, all’interno di un ideale calendario in cui si possa dipanare una competizione tra hobbisti consumati, ovvero uomini e qualche donna che abbiano voluto dedicare lunghissime ore al perfezionamento e la realizzazione del più perfetto ideale coerente ad una tale prassi tecnologica di base. Fatta risalire normalmente al 1912 ed alla compagnia produttrice di trenini elettrici statunitense Lionel, che pensò bene d’inserire nei propri cataloghi una soluzione basata su piccoli binari sopraelevati. In cui il partecipante al gioco potesse non soltanto mettere in movimento il proprio automezzo o una coppia di questi, ma anche controllarne e regolarne la velocità mediante l’impiego di un semplice comando poggiato a terra. Il prodotto ebbe un successo relativamente contenuto, tuttavia, ed è possibile che l’inizio della grande guerra abbia contribuito alla sua uscita di produzione. Ci sarebbe voluto così fino agli anni ’50 perché ai club di corsa britannici con piccoli veicoli alimentati a benzina venisse in mente di provare a utilizzare quello stesso principio traferito all’interno di una rientranza metallica all’interno della pista stessa, da cui prelevare corrente mediante l’uso di una spazzola sotto il telaio, ricreando il concetto originario all’interno di un contesto già diretto a una competizione di abilità individuale. Così ciascun concorrente venne dotato di un comando da tenere in mano, mentre la personalizzazione delle auto diventava un componente niente meno che primario per riuscire a prevalere contro la concorrenza. Furono gli anni d’oro di questo particolare passatempo, mentre all’altro lato dell’oceano si affermava la compagnia di modellini Scalex, creatrice della linea Scalextric, capace di correre lungo quel tipo di piste mantenendo nel contempo l’aspetto in scala di vere automobili ricostruite nei minimi dettagli. Il che avrebbe portato all’affermazione di una cognizione pubblica internazionale, secondo cui le piste elettriche dovessero impiegare preferibilmente una scala di 1:24 o 1:32, con la seconda preferita negli ambiti concorrenziali in quanto più adatta al raggiungimento di velocità particolarmente elevate. In breve tempo, club dedicati alla pratica di questo particolare passatempo iniziarono a fare la loro comparsa al primo piano dei pub, nei centri commerciali, nei cinema, dentro gli edifici di raduno municipali… Il che corrispondeva alla possibilità di andare oltre, all’interno di ambiti più vasti e funzionali di quanto fosse mai possibile realizzare tra le mura della propria residenza. Da qui all’evoluzione pratica del concetto di partenza mancava veramente poco, mentre l’idea del realismo estetico passava gradualmente in secondo piano. Fu quindi la ricerca della massima efficienza, tenuta di strada e velocità, a risultare capace di creare il concetto iperbolico della saettante wing car…
Fango e furia tailandese, nell’aspra corsa motoristica dei buoi di ferro
È perfettamente comprensibile, nel tentativo di nobilitare o rendere più interessante ogni particolare attività del mondo, tentare per quanto possibile di trasformarla in competizione. Ciò è conseguenza imprescindibile del fremito, l’ebbrezza, il bisogno umano di mostrarsi abili nel compiere i più semplici e ripetitivi gesti. Trovare l’orgoglio nella mondanità, costruire proprio trionfo mediante l’utilizzo di mattoni grigi e normalmente, privi di caratteristiche degne di nota. Ma prendi un gruppo di persone sufficientemente giovani, e/o abbastanza cariche d’entusiasmo, mettile all’interno di quella che possa definirsi un’arena, e vedrai trasformato un pomeriggio come tutti gli altri in un momento di catartico conflitto, magnifico confronto tra visioni simili, ma in qualche modo contrastanti dell’universo. Così un tempo era piuttosto frequente, nell’ambiente maggiormente bucolico del regno del Siam, che coloro che dovevano ogni giorno dedicarsi alla risaia organizzassero la gara tra i più essenziali assistenti animali del proprio consorzio; cornuti, pelosi esseri coperti di fango, Bubalus bubalis, i bufali d’acqua, altrettanto abili nel tirare un’aratro, quanto disposti a sopportare il gesto d’essere cavalcati fino ad una linea del traguardo arbitrariamente tracciata. Ma i tempi cambiano, naturalmente, e tutto ciò che si era soliti trovare attribuito ad un particolare stile di vita, segue quel percorso che lo porta a mutare, cambiare nei suoi elementi di base, fino a diventare un qualcosa di radicalmente diverso e…
CB Media, anche detto più semplicemente Chad, è il Vlogger motoristico originario di Atlanta negli Stati Uniti, che dalle corse autogestite tra le auto pesantemente modificate del suo paese ha spostato in tempi recenti la sua attenzione all’Estremo Oriente. Ed in particolare a quella che potremmo definire la patria asiatica di ogni folle o perversa competizione fuori dai restrittivi confini di uno stadio o pista controllata, che al giorno d’oggi siamo soliti identificare con il nome di Thailandia. Un paese in cui il 46% del territorio è dedicato all’agricoltura ed un buon 19,5% della popolazione si definisce coinvolta in qualche modo nelle attività professionali interconnesse ad essa, mentre le particolari tecniche d’irrigazione, semina e raccolta sono valse a farne il principale esportatore di riso sull’attuale mercato globale. Molto più di quanto si possa ottenere semplicemente con un carro tirato dai buoi ed almeno in parte attribuibile al successo di un particolare attrezzo, in uso presso molti paesi, ma che qui ha finito per assumere i multipli ruoli e le versatili applicazioni che normalmente siamo soliti associare ai coltellini di provenienza elvetica: la motozappa o coltivatore automatico. Tra cui l’utilizzo, in origine non previsto, dimostrato con un simile trasporto ed entusiasmo dal nostro esauriente Chad.
Nella terra degli uomini serpente esiste, d’altra parte, un solenne detto: “Se è dotato di un motore, è possibile modificarlo per gareggiare.” In maniera sostanzialmente analoga a quella dimostrata nel suo video, la cui scena si svolge presso un evento rurale nella zona di Kamphaeng Phet, cittadina situata 4 ore a nord di Bangkok. Dove la trasformazione dei cosiddetti “buoi d’acciaio” in mezzi competitivi, completi di ghirlande floreali e nappe colorate, prosegue con l’inclusione di un ampio pezzo di tettoia semi-rigida simile ad un paio d’ali, finalizzato ad evitare che il fango schizzi da tutte le parti ivi incluse le prese d’aria del motore stesso, impedendone un funzionamento idoneo fino al completamento della gara. Questo perché, dettaglio assolutamente non trascurabile, la suddetta competizione si svolge in effetti non su strade asfaltate, sentieri in terra battuta o simili agi e confort dell’ideale processo logistico dell’agricoltore; bensì proprio nell’ambiente naturale di questi veicoli, chiaramente: le soffici profondità terrose della risaia. Ecco perché si consiglia, agli spettatori, di mantenere una ragionevole distanza di sicurezza dallo show. Pena l’impressione conclusiva di essere stati trascinati giù dal mostro della Laguna Nera…