Lo spettro di Sadako conquista il baseball

Sadako

Ring ring! Ringu?! Dare desu ka? Ti restano 7, VII, 七 giorni di vita. Sotto l’agghiacciante sole di un bollente agosto, presso Tokorozawa (Saitama-ken, Giappone) si è manifestata l’attesa apparizione del celebre fantasma più capelluto, particolarmente amato dai grandi e piccini di mezzo mondo. E benché fortunatamente, almeno per una volta, quell’orribile visu se ne sia stato dalla parte giusta della TV, di fatale c’è stato almeno l’effetto sui presenti, tutti presi da un entusiasmo travolgente, incoscienti del pericolo corso dalle loro fragili mortalità. E chi l’avrebbe mai detto! Un vero yūrei, l’iconico spettro dei drammi kabuki, ormai diventato il prototipo della mascotte popolare, alla stregua dei mille pupazzetti o creaturine dei cartoni giapponesi. Certe grida di circostanza, perse fra l’estasi e il brivido, non si scordano tanto facilmente: è successo giusto una settimana fa, pochi attimi prima dell’inizio di una partita di baseball fra i Saitama Seibu Lions e i Fukuoka SoftBank Hawks, come iniziativa promozionale legata all’uscita del suo nuovo film, Sadako 3D (da leggersi three-deee). La fanciulla della serie di film e romanzi dell’orrore The Ring si è collocata sulla posizione del pitcher con incedere cupo, neanche fosse un leone lasciato libero nella proverbiale arena dei prigionieri romani. Il drammaturgo Tsuruya Nanboku, l’antico precursore autorale di simili mostruosità, in quel preciso istante si sarà lievemente agitato nella tomba, preoccupato per il destino di noi materialistici, arroganti esseri umani. Unica concessione al contesto, tanto per sdrammatizzare, un paio di funzionali scarpe da ginnastica, modesta, pratica aggiunta sul pallido sudario shintoista. Suo seguito silenzioso, tre piccole copie clonate, specie di minuti doppelgänger. A chi sperava di vederla in volto direi, beh, ti è andata bene! Qualcuno, in qualche modo, deve essere riuscito a rispedirla nella tomba, prima che si mostrasse in tutto il suo terribile splendore. La bocca distorta dall’ira, l’occhio pendulo e iniettato di sangue, le mani scheletriche e protese innanzi, verso gli spettatori… Tutto questo ce lo siamo soltanto immaginati. Lei, fatto il suo dovere, è crollata esanime in terra. Testimonianza dell’evento, la prova che anche i morti sanno tirare una buona palla diritta: 103 Km orari di velocità. Speriamo che non ci abbia preso troppo gusto!

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Il giardino geometrico dei pesci fugu

Fugu

Sotto le acque degli oceani, sopra sabbie friabili di continenti senza nome, il pesce palla esegue da oltre un millennio la sua danza di corteggiamento, gettando nel contempo le fondamenta del futuro nido. Questo video dimostra la recente, incredibile scoperta di un fotografo giapponese, Yoji Ookata, a largo delle isole Ryūkyū (Okinawa). Che c’era un po’ di fugu, in tutti noi. Guardate il pesce mentre trova un luogo deputato, gira su stesso e spazza con la coda, tracciando i confini di quel tondeggiante regno, assorto come nella meditazione di un giardiniere Zen. Decora minuziosamente la nuova casa con aguzzi frammenti conchigliosi. E aspetta la femmina seduto in centro, già immaginandosi un prezioso carico di uova, da inseminare freneticamente. Passato è il tempo di Atlantide, quando le leggi matematiche determinavano l’aspetto di umane, sommerse magioni. L’acqua, nell’Era dell’Informazione, appartiene a chi può permettersi di respirarla. Il fugu lavora secondo le reali esigenze che si trova ad affrontare, un giorno dopo l’altro. Nessun gesto è fine a se stesso: come spesso avviene in natura, ciò che ha forma circolare assolve ad una finalità ben precisa. In questo caso, fare scena, non passare inosservati. Persino nell’oscurità sommersa, l’anfiteatro sessuale del pesce costruttore diventerà come una tela di ragno, impossibile da trascurare. Ma se quella funzionava mediante la forza dell’inganno, qui c’è la realizzazione fisica di una promessa, la più importante per qualsiasi essere vivente. “Vieni da me, per procreare”. Certo, la situazione è strana. Il misconosciuto rituale di corteggiamento dei cosiddetti fugu, tanto elaborato, sta ottenendo un ampio spazio sulle riviste di etologia di ogni parte del mondo. Nessuno capisce, in realtà, perché un animale come questo, tanto sobrio e primitivo, debba sentire il bisogno di costruirsi una casa così bella, soltanto per impressionare il gentil sesso. Tra l’altro, i pesci palla giapponesi ci vedono (relativamente) bene e si troverebbero comunque. Questa sabbiosa cattedrale sembrerebbe più adatta ad affascinare altre creature, come noi, bipedi terrestri e super-evoluti. Che di cerchi ne tracciamo a nostra volta sui campi di grano, per gli alieni. Dimenticandoci il destino che attende i fugu troppo estroversi, sul finire della sera: tagliati a fettine, sopra un piatto di sashimi. Non tutti “Vengono in pace”, pesciolino…

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Gustosi modellini giapponesi, che squisita collezione!

RRcherrypie

Possedere gli oggetti, metterli in fila e guardarli, un giorno dopo l’altro. Questo è il passatempo preferito dell’otaku, almeno per come viene visto dal nostro lontano mondo d’Occidente. Svettanti cumuli di manga, gli albi illustrati giapponesi. Frotte di videogiochi, sciami di libri e di tutte quelle altre cose attraverso cui crescere da soli. E poi, un certo tipo di hobby. Non importa che sulle sue sconfinate mensole trovino posto schiere di possenti robot guerrieri, piuttosto che giovani fanciulle in pose provocanti, l’otaku archetipico troverà sempre un qualcosa da fare con le mani; costruire, dipingere, assemblare. Il fine ultimo è l’aver acquisito la collezione completa di… Però anche la via d’accesso, per un tale stato di grazia affine al Nirvana, è di per se gradevole e importante. Proprio per questo, alcune delle più affascinanti cose moderne giapponesi fuoriescono da scatole di montaggio, prevedono l’uso di colle specifiche e una mano ferma col pennello. Il repertorio di una stanza, perché possa davvero fungere allo scopo, va guadagnato un pezzo per volta, acquisendo le doti artigiane di un vero appassionato di modellismo. Qui ci vogliono tempo e capacità: solitari si nasce, o quantomeno si diventa con fatica. Questa visione, un po’ stigmatizzante, del giovane misantropo d’Oriente prevede anche un’altro aspetto, tanto diffuso quanto chiaramente approssimativo: tutti coloro che percorrono una tale strada sarebbero, senza eccezioni, uomini. I siti di e-shopping d’importazione ci offrono oggettistica perfettamente in linea con tale preconcetto: carri armati della seconda mondiale, jet militari e altre amenità guerresche. Possibile che nessuna bambina si dedichi a una tale pratica singolare? Dobbiamo pensare che le ragazze di quel paese, una volta cresciute, mettano da parte la Barbie americana, oppure la tipica casa di bambole in stile vecchia Inghilterra? Forse no. Guardate ad esempio questi piattini, deliziose minuscole cibarie, pranzo luculliano per gli gnomi. La quantità di dettagli, la varietà offerta sembrerebbero rivolgersi a un pubblico di giovani adulte/i, piuttosto che di bambine/i. Ecco forse una versione meno aggressiva di quest’ossessione tipicamente nipponica per il collezionismo, pensata per un pubblico più vasto. La prova dell’esistenza della otaku, ingiustamente, tanto spesso, dimenticata.

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Canto elettrico di matrioske giapponesi

Matryiomin

La voce delle bambole è un concetto astrale che rientra tra i cardini psichici della sinestesia, l’irrealizzabile comunione tra i diversi mondi della percezione sensoriale. Se queste figurine antropomorfe potessero davvero articolare un pensiero, non sarebbero più degli esseri inanimati. Così ogni fantoccio, quando sottoposto allo sguardo degli umani, si cura di mantenere un rigido silenzio. Il processo esattamente inverso, d’altra parte, rientra tra le prerogative di un qualsiasi strumento musicale. Non tutti gli implementi acustici sono belli allo stesso modo, indipendentemente dal suono celestiale che potrebbero produrre; le vertiginose curve di una chitarra non assomigliano, per esempio, alla tozza gibbosità di un tamburello. L’arpa svetta nella sua splendida eleganza, mentre lo xilofono è uno grezzo susseguirsi di metalliche placche parallele. E poiché l’esperienza di un concerto all’auditorium è fondamentalmente purissima sonorità, nessuno mai si concentra sull’aspetto esteriore di quel che lo produce. Sarebbe controproducente e occuperebbe l’immaginazione. Senza contare che la musica una faccia ce l’ha già: quella di coloro che sanno metterla in pratica, tramite i gesti e la sapienza che proviene dallo studio. Strane vie d’accesso all’arte…
Non esistono bambole con più di un volto, tranne una: la matrioska, gestalt concentrica di 5,6,7 graziose fanciulle tondeggianti, ciascuna rappresentante un costume tradizionale della Madre Russia. E non ci sono strumenti più antiestetici di questo: il theremin, l’incredibile eterofono che fuoriuscì nel 1919 dall’officina del fisico sovietico Lev Sergeevič Termen, suo scopritore accidentale. Consisterebbe di due antenne perpendicolari, l’una per il volume e l’altra per la frequenza, in grado di percepire l’impedenza capacitiva di una mano umana. Si suona con piccoli movimenti oscillatori, simili a quelli di un direttore d’orchestra, producendo un sibilo altamente caratteristico e sottilmente inquietante, molto amato dai registi dei primi film di fantascienza e qualche volta usato anche dal grande maestro del brivido, Alfred Hitchcock. Qualcuno potrebbe chiedersi se c’è un modo di rendere adorabile una cosa così misteriosa e innaturale. La risposta viene, come spesso capita in questi casi, da uno dei paesi culturalmente più eclettici di tutto l’Oriente. Si chiama Matryomin e la produce l’azienda Mandarin Electron, di Shizuoka, Japan.

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