“Montagne? Assomigliano di più a torri, castelli, cattedrali, minareti case…. E voi vorreste chiamarla una scogliera? In verità, si tratta di un branco di cavalli volanti, rinoceronti, ippopotami…” Così scriveva il poeta Anatoly Olkhon attorno alla metà dello scorso secolo, dopo un’avventurosa visita del parco più famoso della Repubblica Autonoma di Sacha in Yakutia, nella parte estremo-orientale del paese più vasto al mondo. Un luogo all’epoca incontaminato, privo persino dell’odierno piccolo centro visitatori, la stretta strada asfaltata ed il percorso da trekking culminante in qualche centinaio di scalini, per salire fin sopra a quello che, rispetto ad un paesaggio pianeggiante per migliaia di chilometri in qualsiasi direzione, potrebbe anche venire definito il tetto del Mondo. Col che non voglio certo affermare che i dintorni dei cosiddetti Pilastri di Lena siano del tutto privi d’interesse, quando si considera l’ampiezza e la chiarezza dell’omonimo fiume, che al termine di un percorso di 4.400 chilometri finisce per sfociare, con tutto il carico delle esperienze fatte, nelle gelide acque del Mar Artico settentrionale (ed in effetti pare qualche volta strano, quando si osserva una mappa, che i fiumi possano anche scorrere in direzione nord).
Bello e ancor più bello, terribili zanzare permettendo, quel che si riflette per un lungo tratto del suo sinuoso tragitto, situato circa 180 Km a nord della capitale regionale Yakutsk: la più incredibile testimonianza di un mondo ormai trascorso, non per niente eletta a patrimonio naturale dell’UNESCO, frutto dell’evaporazione di quello che qualche centinaio di milioni d’anni fa era stato un vasto mare. Quei Lenskiye Stolby, o in lingua Yakut Ölüöne Turūk Khayalara, che costituiscono nei fatti un esempio da manuale dei depositi creati al ritirarsi delle acque, di un copioso deposito di minerali a base di calcare, dolomite, marna e ardesia, in grado di creare quel tipo di muraglia stolida che emerge in solitudine nel paesaggio. Stolida e immanente, s’intende, tranne che per quello che comporta l’erosione degli elementi, da sempre il più importante fattore contributivo ai processi di evoluzione carsica del territorio. “La natura è il più grande tra gli architetti” si usa dire nelle più opportune circostanze, il che non tiene conto d’altra parte, del modo in cui possa facilmente costituire anche un più che dignitoso artista. Benché agisca, come sua massima prerogativa, senza un’assoluta manifestazione d’intenti. E che dire della scala? 150, 300 metri di altezza per le torri più alte, ripetute lungo la riva del fiume lungo un percorso di 180 Km, abbastanza da giustificare, secondo molti, il viaggio in aereo di un giorno intero partendo da Mosca, praticamente equivalente in termini di distanza al tragitto necessario per raggiungere la città di New York. Ma non c’è fondamentalmente niente in grado di sorpassare lo straordinario splendore e l’inusitata grazia di una città di roccia siberiana, nella sua pallida copia umana, rumorosa ed affollata, in grado di vantare soltanto un secolo o due d’esistenza…
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Lo sputo assassino del pulcino più pericoloso della scogliera
Nel piccolo ecosistema aviario di una città, è il gabbiano a regnare incontrastato: 40 cm di lunghezza per 105 di apertura alare, con quel crudele becco lievemente uncinato usato per uccidere, e conseguentemente fagocitare, passeri, piccioni, merli e chiunque altro sia abbastanza incauto da posarsi nel suo territorio. Ma chiunque abbia mai frequentato le fredde distese dei mari del Nord, o quelle altrettanto remote e agli antipodi del grande Pacifico meridionale, ben conoscono l’esistenza di creature volatili esteriormente simili benché ancor più pericolose per i loro colleghi: sono le circa sette specie del appartenenti alla famiglia carnivora degli Stercorariidae, comunemente detti skua. I quali, contrariamente a quanto potrebbe lasciar pensare il nome latino, hanno ben poco a che vedere con gli escrementi che furono piuttosto associati per errore a loro in funzione del cibo rigurgitato, spesse volte, dalle prede pennute inseguite da questi mostri del peso anche superiore a 1,5/1,6 Kg. Con effetti decisamente trascurabili sulle loro possibilità di sopravvivenza, fatta eccezione per quella di un singolo, speciale caso. Sto parlando del pulcino di Fulmarus o più semplicemente Fulmar (fam. Procellariidae) la cui necessità di restare incustodito per lunghe ore mentre i suoi due genitori si recano in caccia sembra averlo portato, attraverso il rincorrersi secolare delle generazioni, a dotarsi di una particolare e terribile arma d’autodifesa. Che parte dal proventricolo situato all’estremità inferiore dell’esofago, percorrendo all’inverso un simile condotto digerente prima di essere espulso alla velocità di svariati metri al secondo, all’indirizzo di chiunque sia stato tanto incauto da fare ingresso con prepotenza nello spazio del suo campo visivo. Messe in tavola le pedine, quindi, passiamo a descrivere la scena: di una scogliera essenzialmente deserta e del tutto priva di pericoli evidenti. Sulla quale atterra, zampettando, un fiero esemplare di quel drago cacciatore dei vasti oceani, lo skua. Ben sapendo grazie all’intuito, che qui avrebbe trovato un pigolante tesoro, pronto a trasformarsi istantaneamente nel suo più gradito snack. Ed infatti più che mai puntualmente, eccolo lì: è bianco, candido e in bella vista nel mezzo di un’isolata chiazza erbosa, con l’unico rudimentale nido di una buchetta scavata coi piedi palmati dei suoi genitori. “Patetico” pensa tra se e se l’uccello assassino: “Ormai non si preoccupano neppure di nasconderli, mentre inizia ad avvicinarsi con fare baldanzoso. Ed è proprio allora, che gli eventi prendono una piega inaspettata. Poiché piuttosto che tentare una tardiva ed inutile fuga, il pulcino di Fulmar alza la testa e spalanca il becco, prendendo molto bene la mira. Quindi espelle quella sostanza appiccicosa e maleodorante che costituisce la sua invalicabile prerogativa difensiva, colpendo in pieno le piume marroni del suo nemico. Che disgustato, spicca istantaneamente il volo, per andarsi a dare una lavata nell’acqua di mare, mentre imprecando nell’idioma oceanico chioccia sottovoce qualcosa sulla falsariga “Potrò sempre tornare più tardi a finire il lavoro”. Ma la realtà è che non potrà farlo. Perché nei fatti è già condannato a una morte orribile, anche se ancora non lo sa.
Il paesaggio ultramondano di un diverso golfo della California
È una tipica sequenza cardine di ogni racconto di fantascienza che si rispetti, quella in cui l’esploratore cosmico sbarcato dalla sua astronave mette piede sul suolo alieno di un distante pianeta, poco prima di guardare verso l’alto e… Segue descrizione di un diverso cielo: spesse volte, caratterizzato dalla presenza di astri multipli, come una pluralità di lune o soli. In casi estremi impreziosito dall’inesplicabile presenza di macigni o veri e propri monti fluttuanti, come quelli del film Avatar da cui decollavano creature simili ad uccelli o draghi. E poi ogni volta, inevitabilmente, connotato da una tonalità atmosferica supremamente insolita, col che intendo una colorazione dalle tinte elettriche o pastello, tendente ad un qualsiasi punto dello spettro che sia sufficientemente diverso dall’azzurro che ci è maggiormente familiare. Un cielo viola, verde, color rosso scuro. Qualche volta, un cielo rosa? E quali gas potrebbero comporre una così insolita miscela? Metano. Lo sappiamo molto bene, in quanto ciò succede, a quanto ci è permesso di sapere oggi, almeno in un particolare luogo sulla Terra. O forse sarebbe più corretto dire, sotto la superficie degli oceani che circondano le nazioni…
Esistono essenzialmente due tipi distinti di spedizioni scientifiche: quelle che partono con una meta già conosciuta, al fine di analizzarla in maniera più approfondita e tramite l’impiego di strumenti migliori. E poi c’è il caso messo ulteriormente in pratica dalla nave RV Falkor a partire dalla fine di febbraio del 2019, vascello facente parte della dotazione dell’Istituto oceanografico californiano Schmidt, di un intero team di biologi, geologi e altre figure interdisciplinari con il fine di dirigere lo scafo verso particolari sezioni del territorio che nessuno, prima di allora, si sarebbe mai sognato di analizzare. Perché è proprio quello il caso in cui si scopre, indipendentemente dalle aspettative precedentemente acquisite, che i paesaggi descritti da Arthur C. Clarke ed Isaac Asimov non erano poi così lontani dalla verità. Soltanto, avevano sbagliato nel puntare i telescopi della loro fervida fantasia verso l’alto, piuttosto che in direzione delle occulte profondità marine. Immaginate dunque la sorpresa della Dott.sa
Mandy Joye dell’Università della Georgia, una delle figure in capo all’operazione, quando accendendo gli schermi connessi alle telecamere in alta definizione del ROV (sottomarino a controllo remoto) SuBastian presso un particolare hotspot vulcanico del Mare di Cortez, segnato sulle mappe in via meramente preliminare, vide la cabina della nave illuminarsi del colore dei fiori di ciliegio, mentre veniva a patti con una serie di sagome vagamente riconoscibili a pagode giapponesi. Ed è proprio questo il luogo, rimasto senza nome e una collocazione geografica precisa probabilmente al fine di prevenire (o almeno ritardare) l’inevitabile assalto da parte dei turisti, che compare in alcuni video di supporto pubblicati sul canale ufficiale dell’Istituto, dimostratosi nelle scorse settimane in grado di stimolare più di una descrizione poetica con tanto di metafore sui razionali blog e testate di argomento scientifico. A tal punto, quei colori e quelle forme sembravano fuoriuscire dalle usuali aspettative del caso…
Lo splendore globulare di una sola cellula di mare
Nella pozza umida dell’oscuro brodo primordiale, il conflitto già costituiva l’unica maniera per potersi garantire la sopravvivenza: protisti vagabondi, esseri acidofili, litoautotrofi, archei. Ciascuno intento a proteggere, ed in qualche modo garantire, la sua particolare interpretazione dell’esistenza. Assicurandosi di essere, in ciascuna situazione, il proverbiale pesce più grande. Mangiare o essere mangiati e diventare una risorsa, per l’accrescimento di un diverso modo di nuotare, percepire o prendere importanti decisioni iscritte nel complesso codice del proprio DNA “pensante” (come, um… Andare sopra, sotto, a destra o sinistra). Eppure persino allora, poteva succedere che in un tentativo di aggressione, attecchissero radici di un diverso ed inatteso tipo di alleanza. “Buongiorno, Sig. Cianobatterio che si trova nel mio stomaco per PURO caso. Mi presento: sono l’ameba eterotrofa. Visto che tutto sommato, non mi riesce di digerirla, che ne dice di formare una simbiosi?” Ed ecco che, BAM! Nel dissolversi del fumo di quel palcoscenico, fece la sua apparizione il primo cloroplasto della storia. Una cellula capace, grazie allo strumento della fotosintesi, d’interrompere la guerra senza fine. Superando quella distinzione all’apparenza irrinunciabile, tra i miti procarioti e gli ambiziosi eucarioti, con i loro più specifici organelli interni, ciascuno ben diviso da tutti gli altri. Sapete come? Non essendo più una sola cellula. Bensì una gestalt (amalgama) di simili unità vitali, ben protetta da una spessa e indivisa membrana esterna, tanto resistente da potergli garantire l’idonea protezione.
Trascorsi secoli, millenni o interi eoni, quindi, la questione percorse quel binario fino alla fine: poiché sulla base della dura legge della giungla sotto il mare, non puoi certo sopravvivere, se non ti evolvi fino alle più estreme conseguenze. Il che per le alghe, molto spesso, non comporta altro che una rapida riproduzione, sufficiente a superare il rapido consumo garantito da forme di vita implacabili e, per così dire, erbivore con aggressiva convinzione. Non c’è un solo caso, tuttavia, in cui lo schema originario del cosiddetto cenocita o sincizio (Ovvero il biblico “Noi siamo Legione” in versione acquatica e vegetale) appare maggiormente chiaro all’occhio dell’osservatore, che nella presenza vegetativa della Valonia ventricosa, sfera smeraldina e indipendente grande fino a 4-5 cm, che occasionalmente rimbalza sui fondali come fosse una pallina da ping-pong. In grado di costituire, senza il benché minimo dubbio, uno dei più grandi esseri unicellulari di questa Terra.
Intendiamoci: il concetto erroneo eppur largamente diffuso che vedrebbe il “singolo mattone della vita” come una diretta corrispondenza di ciò che rappresentano atomi e molecole per la materia inanimata andrebbe oggi totalmente accantonato (dopo tutto, le PRIME sono fatte dei SECONDI, giusto?) Anche perché soltanto nel nostro corpo esiste il caso di nervi unicellulari lunghi anche svariati metri, per non parlare dell’univoca struttura dell’intestino tenue. Mentre essendo qualsiasi uovo non fecondato, essenzialmente, anch’esso singolo e indiviso, è possibile affermare con certezza che la cellula maggiore sul nostro pianeta debba essere per forza il dono che ha deposto il caro struzzo nel suo nido.
Eppure qui siamo di fronte ad un qualcosa che finisce per assomigliare, del tutto casualmente (?) allo stereotipo di quello che una cellula DOVREBBE essere. Il piccolo (!) sferoide, galleggiante nel vasto mare…