Nella parte settentrionale della riserva naturale di Crossness, non troppo lontano dai putridi acquitrini di Erith alle propaggini più estreme della città, sorge una struttura squadrata dall’aspetto vagamente militare. Con finestre decorate in stile normanno, e persino un parapetto superiore che tenta l’accenno di una timida merlatura, il palazzo appare dotato di un certo fascino antico, preservato da un’evidente ed in realtà piuttosto recente processo di restauro. Ma è soltanto una volta varcata la sua grande porta d’ingresso, previo pagamento del necessario biglietto, che un ipotetico visitatore potrà scoprire l’importanza di un tale luogo per i trascorsi del suo ambiente culturale d’appartenenza. Che potrebbe anche sembrare… Una congregazione ecclesiastica di religione Ortodossa? Con un gabbione dalla verniciatura variopinta vagamente simile all’iconostasi dei loro luoghi di culto, ma ornato piuttosto da fregi naturalistici con foglie e motivi floreali della migliore ghisa d’Inghilterra. Struttura sopra la quale, l’ombra geometrica di misteriose e gigantesche macchine giace ormai in silenzio. E terribile, nonché magnifica, fu l’epoca in cui tali titani mossero le proprie possenti braccia per la prima di molte volte…
Era un’estate particolarmente calda, quella del 1858, quando Charles Darwin e il suo collega naturalista Alfred Wallace salirono sul podio della Linnean Society per illustrare al mondo accademico la loro rivoluzionaria teoria dell’evoluzione. “Che a Dio spetti soltanto un ruolo soltanto marginale nell’attuale aspetto delle sue piante ed animali… È un significativo oltraggio nei confronti del Creatore” affermarono in molti, benché i tempi fossero ormai maturi perché almeno altrettanti, negli aurei circoli della scienza, potessero comprendere la fondamentale verità contenuta in una simile affermazione. Di lì a poco, d’altronde, un significativo evento storico avrebbe permesso all’ennesimo rintocco del solenne Big Ben (con la sua campana recentemente riforgiata) di comprendere quanto ignorare la razionale progressione di causa ed effetto potesse gravare sul benessere della collettività indivisa. E che guisa orribile potessero assumere, le macchinazioni invisibili dei più microscopici ed ancora largamente ignorati abitatori delle fognature. Era anche un’estate, a quanto si narra, particolarmente secca. Non abbastanza da impedire il felice transito della SS Great Eastern, la più grande nave mai varata sul Tamigi all’apice della stagione precedente, ma abbastanza affinché le acque di tale antico fiume si ritirassero almeno in parte, mostrando al mondo lo scempio che ne era stato fatto da parte dell’uomo. E “cumuli di rifiuti” non iniziava neppure a descrivere la mera portata dell’orrore; il baratro d’escrementi, i cadaveri abbandonati di persone ed i loro animali, gli scarti dei macelli e degli impianti industriali…. Dapprima, la situazione che già tante epidemie e sofferenza aveva portato al popolo della metropoli, fu vista come un’opportunità: da parte dei toshers e dei mudlarks, dei flushermen coi loro pesanti impermeabili a tenuta stagna, tutti coloro che disdegnando le credenze dell’epoca sull’effetto potenzialmente letale dei miasmi, si addentravano in tale inferno, rendendo un servizio pubblico mentre ne estraevano i più inaspettati e improbabili “tesori”. Ma la situazione meteorologica, dovuta all’assenza prolungata di vento, pioggia o altri salvifici eventi, finì a un certo punto per esigere quanto gli spettava. E l’aria più calda che naturalmente tendeva a salire via lontano, dalle abitazioni di un popolo inconsapevole, ricadde drammaticamente sulle teste di tutti, con tutta la potenza inusitata di un maglio.
Per un evento stranamente specifico e destinato ad aggravarsi nei mesi di giugno e luglio, che sarebbe passato alla storia con il nome di Great Stink – la Grande Puzza. “Una mefitica pozza stigiana di ineffabile ed insopportabile orrore” come ebbe modo di definirla il cancelliere Benjamin Disraeli, mentre l’Illustrated London News scrisse in un suo articolo rimasto celebre: “Possiamo colonizzare i più remoti angoli della Terra; possiamo conquistare l’India; possiamo pagare i più ingenti debiti mai contratti […] Ma non possiamo pulire il fiume Tamigi.” Il che iniziava, almeno in linea di principio, a permettere di comprendere l’immane portata del problema.
In una società notoriamente dedita al culto dell’ingegneria in ogni sua forma, come potremmo ampiamente descrivere quella Vittoriana, un fallimento simile non poteva certo rimanere privo di alcun tipo di risoluzione. E benché la situazione derivasse almeno in larga parte da una disorganizzazione per lo più organizzativa, con i responsabili delle diverse commissioni fognarie preoccupati soltanto di pulire i loro piccoli circondari (spesso a discapito dei quartieri vicini) fu immediatamente compreso che una possibile soluzione potesse passare per il tramite dei mezzi tecnologici. Soprattutto se fosse stato possibile individuare, tra più abili servitori della Corona, la giusta figura…
luoghi
La pura matematica dell’Universo esposta nel museo del futuro a Shanghai
Qual è il fondamentale nesso, che costituisce il senso ed il significato della nostra esistenza? Da quale prospettiva originale hanno avuto modo di trarre l’origine, i nostri insigni predecessori su questa Terra? E in direzione di quale punto prospettico e remoto, le nostre gesta, le scelte quotidiane, i bisogno e gli alti aneliti ci guidano senza sosta? Qualunque sia il romanzo umano che potrà trovare la sua potenziale sintesi, nel tentativo di rispondere a questa nota triade di domande, il Sole, gli astri e le altre stelle continueranno ancor per lungo tempo a danzare. Disegnando arcane immagini e tracciando le ombre tutto attorno a una struttura come questa, dove ogni linea possiede uno specifico significato, e la ricerca funzionale di partenza trova l’espressione nella forma stessa e la singola ragione dell’edificio. Così come lo strale di luce, catturato e amplificato dall’impressionante oculo dorato, entro cui la luce viene incamerata ed instradata tutto attorno ad un tradizionale specchio d’acqua, usato negli antichi testi per le osservazioni lunari. Mentre la sfera immobile e sospesa, senza pilastri o altri orpelli chiaramente visibili, silenziosamente attende il suo momento di tornare a brillare. In questa metropoli moderna di Shanghai, presso la foce del Fiume Azzurro chiamata in precedenza shang – 上 (shàng/zan, “sopra”) ed hǎi/hae – 海 (“il mare”) ed in tempi più recenti Módū – 魔都, la Città Magica per eccellenza di tutta la Cina. Senza nessun tipo di conflitto, s’intende, nei confronti delle cose razionali come ampiamento esemplificato dalla popolarità in patria e all’estero del grande museo locale della Scienza e Tecnologia vicino al Century Park, capace di accogliere oltre 3 milioni di visitatori l’anno. Struttura ed importante istituzione che nel corso di questi ultimi anni, ha trascorso le sue giornate nella trepidante attesa del completamento di un suo avveniristico avamposto, da collocarsi presso il nuovo quartiere di Lingang, l’unico dove potesse sorgere una simile struttura spropositata. Sulla base del progetto presentato nel corso di un concorso internazionale dal grande studio architettonico newyorchese Ennead, che nel 2014 riuscì a sbaragliare la concorrenza grazie alla sua visione estremamente avveniristica di ciò che un simile complesso potesse riuscire a rappresentare. Riprendendo essenzialmente, nel sistema stratificato delle sue diverse forme, il tipo d’apparato scientifico cui è stata dedicata la sua stessa monumentale presenza, quello per lo studio dell’astronomia secondo i metodi del tipo ragionevolmente più condivisibile ed evidente. A partire dalla pianta stessa del tripartito ed ellissoidale edificio, considerata come una rappresentazione facilmente apprezzabile di tre orbite intersecantisi, ovvero in altri termini una traduzione estetica del ben noto problema dei tre corpi. Una domanda aperta, in altri termini: “In che modo l’Uomo può tentare di comprendere, attraverso i limitati strumenti concettuali a propria disposizione, gli arcani moti del Cielo e della Terra?” Con la già descritta grande meridiana posta innanzi all’ingresso, tanto per cominciare. Capace d’illuminare il cerchio perfetto al centro della piazza soltanto una volta l’anno, giusto in corrispondenza del solstizio d’estate. Ed una volta fatto il proprio ingresso oltre le sinuose mura, fin dentro la sfera dominante dal profilo esterno dell’edificio, capace di costituire il più vasto ed imponente planetario al mondo. Eppur difficilmente, nel progetto creato alle origini di questo nuovo punto di riferimento cittadino, il quadro potrebbe dirsi concluso senza la cupola invertita ed aperta posta all’altro lato del palazzo, le cui pareti riflettenti altro non dovrebbero riuscire a fare che amplificare l’effetto del cielo notturno stesso, sottoponendolo in tal modo all’attenzione di coloro che si trovano al di sotto. Come in una sorta di viaggio in prima persona, attraverso gli strumenti della mente, verso quelle stesse meraviglie che si trovano all’interno degli spazi espositivi sottostanti. Poiché al di là di qualsivoglia preconcetto si possa continuare ancora oggi ad avere, l’immagine della Cina che compare oltre le splendenti porte di un tale anfiteatro per la scienza, è quella di un paese proiettato al massimo verso il futuro ed in modo particolare il remoto numero di opportunità oltre la porta inconoscibile delle stelle. Verso un mondo e un metodo che per molti di noi, in assenza d’esperienze utili ad acquisire una visione olistica, resta un mistero largamente meritevole di essere approfondito…
La lunga scala sopra l’Austria che sublima il concetto di via ferrata
“Sperate sempre in ciò che vi aspettate, ma non aspettatevi mai ciò in cui credete.” Che cosa avrebbe detto l’eternamente giovane alpinista austriaco Paul Preuss (1886-1913) alle cui imprese lungo le pendici del monte Donnerkogel Maggiore (2.054 metri) è stata dedicata tre anni fà questa opera fondamentalmente turistica, frutto dell’unione tra un luogo straordinario, vedute stupefacenti, e almeno un pizzico di sincera passione per le arrampicate…. Sotto l’egida ingombrante di chiodi, funi, attrezzature fisse dall’impatto paesaggistico tutt’altro che commisurato alla necessità di svolgere una funzione pratica immanente. Proprio lui, che più di ogni altra cosa credeva nella scalata senza nessun tipo d’ausilio tecnologico, e che l’uomo dovesse ergersi oltre le difficoltà dell’esistenza usando esclusivamente le proprie forze, com’era personalmente riuscito a fare da ragazzo, superando l’infermità causata dalla polio e diventando uno sportivo, ed un filosofo, capace d’influenzare le generazioni. E che all’età di soli 27 anni, in circostanze destinate a rimanere largamente incerte, cadde in solitudine dalle più alte propaggini Mandlkogel, precipitando per 300 metri fino alla sua improvvida dipartita. Poiché nessuno può essere infallibile, neppure i grandi della storia, e la montagna di per se non può conoscerti per nome o fare un’eccezione verso chi desidera conoscerla in assenza del “giusto” grado di timore reverenziale. Così nell’odierno scenario del bisogno di affermare, ad ogni costo, la propria capacità d’iniziativa e un certo grado di evidente sprezzo del pericolo, la costruzione di una via ferrata può arrivare ad assumere un significato del tutto nuovo: la strada d’accesso democratica, ed in quanto tale aperta nei confronti di chiunque possieda il giusto grado d’intraprendenza, per poter dire innanzi ai microfoni del mondo “Anch’io (…Posso farlo, credo nel destino, non ho nessun tipo di timore!)” Ed è forse proprio questo uno dei principali crismi interpretativi ricercati dal creatore di una cosa simile, quell’esperto scalatore Heli Putz alla guida del suo collettivo Outdoor Leadership, che ha in tal modo scelto d’offrire il suo contributo ad un parte della generazione di Instagram e Facebook, se non proprio la sua interezza collettiva e priva di suddivisioni sociali. Poiché il sentiero attrezzatissimo di quella che oggi ha preso il nome ufficiale di Intersport Klettersteig (letteralmente: Via ferrata Intersport) rientrerebbe già da principio in una categoria di tipo C/D secondo la classificazione austriaca, grosso modo presso il confine dell’MD (Molto Difficile) secondo la metrica in uso presso i montanari del nostro paese sito all’altro lato delle Alpi. Anche senza prendere in considerazione il piece de resistance dell’ormai celebre Himmelsleiter (“Scalinata verso il cielo”) lunga oltre 40 metri, ricavata da una serie di quattro funi d’acciaio e relative traversine, prima di essere sospesa sopra un ampio baratro tra due cime, del tutto sufficienti a renderla la più tangibile manifestazione biblica di quel sogno che fece Giacobbe riposando nel deserto, mentre fuggiva dal fratello Esaù. “Ed egli vide una scala splendente, la cui cima raggiungeva il Paradiso; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa.”
Ma c’è in effetti ben poco di angelico, nella fruizione di un qualcosa che ha trovato collocazione con l’esplicito obiettivo di attirare il più alto numero d’utilizzatori, alla ricerca di quello che potremmo soltanto definire un approccio particolarmente diretto allo svago tra i confini di questa esistenza terrena. All’interno di una serie di confini operativi, e largamente al di là di essi, spingendo oltre quello che potremmo definire ragionevole dal punto di vista di chi ha poco o nulla da guadagnarci. E non credo fosse esattamente questo, il messaggio veicolato dalle parole di colui che in quel giorno sfortunato avrebbe finito inaspettatamente per lasciarci la vita…
Il ceppo di pietra graffiato dal grande orso al principio della Creazione
Attorno alla metà del XIX secolo, un uomo della tribù nativo americana degli Cheyenne viaggiava lungo le ampie valli disabitate dello stato del Wyoming. Quando per riuscire temporaneamente a ripararsi dal sole, scelse di accamparsi sotto l’imponente butte (collina solitaria) di Matȟó Thípila, ovvero letteralmente nella sua lingua “La Tenda dell’Orso”. 386 metri di roccia monolitica sopra il corso del fiume che l’uomo bianco aveva scelto di chiamare arbitrariamente Belle Fourche, così come una tale svettante caratteristica del paesaggio aveva ricevuto l’appellativo, per una traduzione approssimativa e inesatta, di Torre del Diavolo, con riferimento alla nemesi del Dio cristiano. Esausto per il viaggio, l’uomo decise quindi di dormire per qualche ora, accampandosi vicino al teschio sbiancato di un bisonte, che in circostanze poco chiare aveva finito per trovarsi accatastato ad uno degli imponenti depositi di ghiaia e pietrisco alla base della formazione vagamente simile alla base di un grande tronco di pietra, cui la natura aveva chiesto di scomparire. “In questo luogo sacro, e non del tutto benevolo” pensò il viaggiatore “lo spirito totemico avrà cura di custodire la mia presenza.” E senza ulteriore preoccupazioni, scelse di abbassare le palpebre diventate così pesanti. Trascorsa qualche ora e giunto l’attimo del suo risveglio, tuttavia, una scoperta terribile minacciò di lasciarlo immobile per la paura: durate il suo stato d’incoscienza, infatti, una forza misteriosa l’aveva trasportato sulla sommità dell’impraticabile Matȟó Thípila, assieme al cranio dell’animale su cui tanto aveva fatto affidamento. Incerto su come procedere per ritornare a terra, il viaggiatore trascorse un intero giorno senza acqua né cibo, esposto a tutta l’inclemente furia degli elementi. Finché alla ricerca di un tenue appiglio, con un’ultima preghiera nei confronti della Grande Medicina, non poté far altro che addormentarsi nuovamente, ben sapendo che soltanto un ulteriore intervento sovrannaturale avrebbe potuto riuscire a salvarlo. Trascorsa la notte, il viaggiatore aprì di nuovo gli occhi per scoprire di essere tornato alle radici della grande pietra. E quando li volse verso l’alto, scorse il teschio di bufalo in bilico sul ciglio della sommità, unica prova della sua avventura senza nessun tipo di spiegazione apparente. In quale altro modo, dopo tutto, un tale resto animale avrebbe potuto raggiungere la cima di Matȟó Thípila, dove nessun altro piede del tutto umano si era posato fino al giorno precedente?
Nessun piede umano, s’intende, fatta eccezione per quello di un gruppo di ragazze all’origine dei tempi, che inseguite fino a questo luogo dalla massa ciclopica di un orso leggendario, salirono la grande roccia verticale come si trattasse di un’autostrada, per poi pregare il Dio creatore Maheo, detentore della Grande Medicina, affinché potessero raggiungere in qualche modo la salvezza. E fu così che, mentre il feroce carnivoro incideva profondi solchi con gli artigli in quella che sarebbe diventata folkloristicamente la sua eterna dimora, esse vennero trasportate in cielo dalle Sue aquile, venendo trasformate nelle stelle delle Pleiadi remote. Ma la roccia, guadagnatosi una fama imperitura, sarebbe lì rimasta a perenne monito delle generazioni future. Così che leggende simili si trovano in una complessa gestalt nel repertorio delle diverse tribù di questo stato, tra cui i Sioux, i Kiowa ed i Lakota, mentre l’esistenza del butte sarebbe diventata nota agli europei fin dalle remote esplorazioni, effettuate dai cacciatori e possessori di trappole intenti a trarre sostentamento dalle vaste terre selvagge americane. I quali senza alcun’esitazione avrebbero affermato, già da allora, che la Torre non fosse l’opera di grandi spiriti o altre creature irragionevoli, bensì frutto delle operose mani del più temibile tra gli angeli decaduti, Lucifero che regna nel profondo sottosuolo presso cui vengono inviate le anime dannate dei viventi. Entrambe interpretazioni destinate a passare in secondo piano, o per lo meno essere subordinate, di fronte all’interpretazione contemporanea della scienza! Che vede tale orpello paesaggistico come la mera conseguenza di un’intrusione magmatica attraverso gli strati della crosta terrestre, sebbene in circostanze ed un’epoca tutt’ora incerte…