Nelle antiche praterie del Northwest americano, dove il vento del Pacifico fa muovere i cespugli di artemisia producendo un suono che arricchisce le terse giornate della primavera, che cosa crea lo stato di diritto e di appartenenza? Forse il desiderio dell’agricoltore, che espandendo l’area ricoperta dalle sue coltivazioni, esprime il senso subitaneo del possesso e il suo diritto economico sulla natura. Oppure a tutti quei coyote, linci, coguari e lupi, che incuranti delle ultime propaggini delle tentacolari comunità umane, continuano a fare ciò che gli è sempre riuscito meglio: dare la caccia a qualsivoglia cosa sia abbastanza piccola, e indifesa, da poter costituire il pasto di un finire di giornata. Ma il vero spirito della distesa, se vogliamo, non dovrebbe appartenere proprio a coloro che senza le erbe, ed i cespugli, e la particolare composizione di un simile suolo, sarebbero ben presto destinati a scomparire… Quei minuscoli, morbidi e graziosi roditori, che al nome scientifico Brachylagus idahoensis preferiscono, probabilmente, il nome maggiormente accattivante di coniglio pigmeo nordamericano. Che non è “proprio” a rischio d’estinzione (dopo tutto, avete ben presente quanto simili animali siano bravi a riprodursi) benché una specifica popolazione, completamente isolata dal resto della specie sin dalla notte dei tempi, abbia sfiorato lo stato irrimediabile della non-esistenza, a seguito del periodo in cui si era ridotta a una trascurabile manciata d’esemplari. Certo, esistono animali che riescono a trovare il modo di adattarsi. Ed altri che semplicemente, non possono farlo, almeno senza l’assistenza di colui che è stato in grado di costituire l’origine, e la soluzione di ogni problema.
L’uomo, chi altri. Eppure sarà sorprendente apprenderlo, lo sforzo compiuto dall’inizio degli anni 2000 per tentare di salvare la sottospecie del coniglio pigmeo del bacino della Columbia, primariamente concentrato nella parte statunitense di quel territorio, rappresenta uno dei maggiori successi in termini di conservazione faunistica delle ultime generazioni. Spesso paragonato, e nei fatti capace d’includere soluzioni simili, a quello del panda gigante in Cina, ormai da tempo ritornato a illuminare i boschi di bambù dell’Asia con la sua riconoscibile livrea bianca e nera. Niente di paragonabile, s’intende, all’umile aspetto del suo lontanissimo collega nordamericano, di un color marrone uniforme e dimensioni che soltanto raramente superano i 30 cm di lunghezza e 500 grammi di peso (generalmente nella femmina, lievemente più grande) rendendolo essenzialmente questo batuffolo straordinariamente soffice e capace di entrare nel palmo di una mano. Fierezza contro grazia, possenza nel difendere i propri diritti con gli artigli d’orso, dinnanzi alla capacità di sobbalzare pochi centimetri alla volta, sino ai sicuri recessi della propria ragguardevole tana. Questo poiché il coniglietto pigmeo risulta essere, tra tutti i lagomorfi del Nuovo Mondo, una delle due uniche specie capaci di scavare la propria tana. Un adattamento probabilmente nato dall’assenza di adeguati architetti e successivi proprietari passati ad altro di possibili recessi sotterranei, dove crescere al sicuro i cuccioli e ritirarsi per la sera. Il che comporta alcuni impliciti vantaggi, come la possibilità di disporre di una vera e propria rete sotterranea per gli spostamenti, capace di coinvolgere sino a una decina di abitanti adulti. Utile a spostarsi tra le differenti aree di raccolta e immagazzinamento del cibo. Nonché funzionale a un fondamentale obiettivo, da queste parti: offrire scampo dai frequenti, e talvolta devastanti incendi che caratterizzano un così secco e sterminato bioma d’appartenenza…
ambiente
Misteriosa creatura ringhiante attacca un villaggio nel Nottinghamshire
Non c’è propriamente terrore, negli occhi e nella voce di Betsy Greenhalgh di Clarborough, pittoresca comunità di circa 1.000 abitanti nella zona centrale d’Inghilterra, mentre descrive l’improbabile esperienza vissuta verso le quattro di notte di una manciata di giorni a questa parte. Semplicemente troppo pragmatica, ed affine alla natura in qualsivoglia aspetto, dà l’impressione di essere col suo accento campagnolo, mentre narra di come lei, suo marito e il nipote, assunto temporaneamente il ruolo di Guardiani del regno degli Uomini in un racconto del fantastico contemporaneo, si sono trovati impugnare grandi assi di legno, al fine di scacciare una mostruosa creatura scaturita dagli incubi che accomunano adulti, anziani e bambini. Il ringhiante, nerboruto, saettante mannaro che minacciava, con fare famelico, i due beniamini quadrupedi di famiglia, il pony Peaches e la capra Betty, mentre il primo tentava disperatamente di frapporre i suoi forti zoccoli tra la minaccia e la barbuta amica, semplicemente troppo piccola per resistere agli assalti dell’intruso penetrato (accidentalmente?) nell’amato cortile. “Ci hanno detto che appartiene a una coppia di vicini, che ne avevano adottati alcuni sottratti al commercio illegale sul suolo britannico. Ed ora, un maschio e una femmina sono scappati!” Ha quindi spiegato la donna al Daily Mail. “A quanto ci hanno detto, la polizia sta per schierare droni, sensori termici e attrezzatura simile per tentare in qualche modo di recuperarli.”
Strano accostamento di suggestioni. Poiché nei suoi paesi d’origine, difficilmente il Nyctereutes procyonoides, mangut o tanuki che dir si voglia, diretto discendente dei canidi del Miocene, che verso la fine della loro epoca migrarono dal Nord America verso l’Asia Orientale attraverso l’antico ponte di terra che attraversava lo stretto di Bering, ponendo le basi d’infinite complesse, spaventose e talvolta buffe leggende. In modo particolare lungo l’intero estendersi del territorio giapponese, dove quello che in tempi moderni viene chiamato talvolta “cane-procione” (pur non essendo, nei fatti, né l’una né l’altra cosa) si è trasformato nei secoli in un personaggio folkloristico di primissimo piano, secondo soltanto alla volpe per la quantità, e qualità, dei dispetti compiuti ai danni dei suoi conviventi bipedi fuori e dentro le grandi città appartenute al popolo dei samurai.
Ma c’è ben poco a cui il coraggio, e l’abilità nel maneggiare assi di legno o taglienti katana, può effettivamente servire allo scopo di scacciare uno di questi animali nel momento in cui la carenza di cibo lo ha reso famelico, cancellando in lui ogni presupposto di buon vicinato. Soprattutto nel caso di creature, come quelle sfuggite nel territorio britannico, che provenendo direttamente dalla vita in cattività non hanno avuto modo di apprendere, come i loro cugini giapponesi, l’alto valore nutritivo della spazzatura. Di fronte ai loro istinti carnivori ritrovati, dunque, restano soltanto due possibilità: combattere, oppure rannicchiarsi in un angolo, implorando lo spirito protettivo di una qualche divinità o Kami…
L’antico dhole, cane democratico delle foreste d’Asia
Ancora una volta la natura era stata generosa con il branco e per questo andava ringraziata. Così l’intera congrega dalla rossa livrea volpina, le zampe lunghe ma non troppo, i musi a punta ma non troppo, la coda folta e orecchie tondeggianti coronate da un gran paio di ciuffi bianchi, rendeva manifesti quegli atteggiamenti che, in maniera altamente distintiva, caratterizzavano la piccola festa che precede quella grande della caccia. Lì un gruppo di maschi, emettendo il suono fischiante che caratterizza la loro intera genìa, giocava e dava sfogo all’emozione tentando di montarsi a vicenda. Lì le femmine, giocando coi propri piccoli proprio dinnanzi al cunicolo d’ingresso nella labirintica tana sotterranea di famiglia, mimavano i gesti e le movenze necessarie per buttare a terra un esemplare di sirau, la temibile capra cornuta delle nevi. E più in generale, tutti si strofinavano l’un l’altro, contro gli alberi e per terra, urinando in equilibrio sulle zampe anteriori, in attesa che potesse ritornare quel momento, dell’estasi e la furia della guerra, la complessa strategia d’assalto messa in atto dopo anni, per non dire secoli o millenni, di approfondita integrazione nel complesso codice genetico della specie.
Dhole è il loro nome, oppure cane rosso e lupo di montagna. Benché non appartengano, nei fatti, a nessuno dei due insiemi di creature bensì a un’eredità diversa, quella degli antichi cuon del Pleistocene, creature diffuse fino alla Spagna e con un antenato comune ai guaenti ed abbaianti branchi di licaoni, le iene e gli altri canidi africani. Rispetto ai quali rappresentano, sostanzialmente, un approccio differente alle stesse metodologie di sopravvivenza, che includono l’assalto in gruppo, sistematico e perfettamente organizzato, di una vasta serie di creature, e quando dico questo, intendo LETTERALMENTE qualsiasi cosa cammini, produca suoni o un qualsivoglia tipo di movimento. Non per niente, tra le etimologie teorizzate per il loro nome comune d’origine incerto, c’è quella della parola proto-germanica dwalaz, che significa per l’appunto “sciocco, stupido, imprudente”. Come quando, in casi pienamente documentati, un corposo gruppo di questi predatori carnivori dal peso unitario di non più di 12-15 Kg, hanno attaccato elefantesse con il piccolo, riportando significative perdite tra i propri famelici componenti. O tutte le volte in cui, data la coesistenza negli stessi territori, interi colossali branchi di fino a 100 esemplari hanno inseguito tigri come fossero gattini, spingendole fin sopra un albero con la speranza di salvarsi il pelo a strisce arancioni e nere. Eppure, ciò è un aspetto chiaramente distintivo della specie, senza nessun tipo d’imposizione messa in pratica da un esemplare dominante, il capo branco che conduce i giochi e può, in totale solitudine, decidere di riprodursi, bensì tramite una sorta d’istinto collaborativo naturale, nella più totale assenza di disciplina o comandi venuti dall’alto. Un approccio molto umano ma la cui efficienza nel contesto della vita selvatica, per chi è predatore e preda al tempo stesso, potrebbe facilmente essere messo in dubbio, vista l’esistenza corrente stimata di appena 1000-2000 esemplari in età riproduttiva rimasti, a causa della riduzione degli habitat ma soprattutto le malattie, per loro spesso letali, contratte durante incontri accidentali con i cani domestici della nostra umana società. Ma di un così crudele fato, a coloro che partecipano alla festa, comprensibilmente ben poco importa…
Il suono raro che proviene da un milione di farfalle
Visibile soltanto raramente oltre i confini dell’Oceano Atlantico, attraverso le regioni geografiche del più Vecchio (e stanco) dei continenti, la vivace farfalla monarca (Danaus plexippus) rappresenta d’altro canto una presenza pressoché costante nel territorio degli Stati Uniti, dove per anni si è pensato fosse solita sparire, misteriosamente, durante l’intero corso dei mesi invernali. Tutto questo, almeno, finché negli anni ’30 dello scorso secolo all’entomologo Fred Urquhart non venne in mente un metodo ingegnoso per applicare una targhetta adesiva sulle ali di un grande numero d’esemplari, cominciando quindi ad annotarne gli spostamenti nel corso di un giro completo delle stagioni. Scoprendo, grazie a questo, come le suddette volatrici riuscissero ricomparire, a giorni o settimane di distanza, in luoghi estremamente lontani l’uno dall’altro, con una progressione verso la parte meridionale del Nord-America e destinazioni largamente incerte. Raggiunto quindi il confine messicano, i figli dei figli delle prime viaggiatrici (raramente, una volta compiuta la metamorfosi, questi insetti raggiungono i 20 giorni di vita) furono di nuovo tracciati con l’aiuto dei due abitanti locali Catalina Trail e Kenneth C. Brugger, che riuscirono a localizzare la loro destinazione finale presso alcune foreste dello stato di Michoacán, presso cui effettivamente, trova oggi lo svolgimento questo video, dal contenuto visuale ed auditivo assolutamente degni di essere commentati.
L’azione viene documentata e descritta dal naturalista Phil Torres, in tale occasione investito del ruolo di capo spedizione per il portale scientifico e divulgativo Atlas Obscura, che nelle presenti circostanze sembrerebbe trovarsi pienamente a suo agio. Questione non propriamente facile da dare per scontata, vista l’impressionante quantità d’insetti, vivi e morti, che sembrano inconsapevolmente minacciare il suo diritto ad uno spazio personale in cui muoversi senza schiacciarne o urtarne svariate dozzine. Benché l’effetto, nel suo complesso, risulti essere innegabilmente ed esteticamente affascinante: non per niente alla lepidottera Monarca, il cui nome deriva da niente meno che il re Guglielmo III d’Inghilterra (detto per l’appunto in funzione del suo stemma, d’Orange) viene anche assegnato il termine maggiormente generico di farfalla tigre, in funzione delle quattro ali caratterizzate da una notevole livrea a strisce arancioni e nere, coronate da una striscia di puntini bianchi alle estremità. Motivo, questo, ripetuto apparentemente all’infinito qui nel santuario di Sierra Chincua, dove come ogni anno svariati milioni di queste piccole creature discendenti dall’intera popolazione della parte occidentale degli Stati Uniti, e persino il Canada, si stanno risvegliando per compiere il loro avventuroso ed epico viaggio verso i luoghi di un’estate maggiormente ricca di risorse alimentari e in funzione di ciò, propedeutica alla riproduzione. Ma è in funzione di uno stato delle cose tanto insolito ed appassionante, che all’esperto documentarista viene in mente un’idea, largamente priva di precedenti nel suo settore. “E se provassimo…” Suggerisce “…Soltanto per un attimo, a restare completamente in silenzio, impiegando un microfono ad alta sensibilità per registrare e in funzione di questo, farvi finalmente sperimentare a distanza, l’incredibile esperienza auditiva di questo luogo? Avete mai sentito il suono che deriva non da una, né 50 ali di farfalle, bensì dozzine di migliaia delle stesse, solennemente unite in un concerto privo di termini di paragone nell’intero vasto regno della Natura?”