Sermeq Kujalleq: sarebbe ingenuo immaginare una colonna sonora come quella del film animato Frozen, per accompagnare le operazioni della più importante fabbrica di castelli ghiacciati al mondo. Che non si trova, del resto, entro i confini del regno fatato di Arendelle, bensì presso la regione sud-ovest della grande isola di Groenlandia, tra il Mare del Labrador e la baia di Baffin, dove la costa presenta una frastagliata insenatura detta nella lingua dei locali “Disko Bugt”. La cui componente auditiva principale risulta viene rappresentata da un rombo continuo e lo stridente strofinamento, simile al grido di un preistorico gabbiano, che deriva dal continuo distaccarsi, e conseguente deriva marittima, di fino al 10% di tutti gli iceberg prodotti dalla Groenlandia. Strutture torreggianti alte fino a 70-90 metri, con torri acuminate, archi arditi, rostri impressionanti e il semplice ponderoso senso di minaccia, derivante dal fatto di essere vere e proprie isole alla deriva. E non a caso viene ritenuto oggi, altamente probabile se non addirittura certo, che proprio da un simile recesso possa aver ricevuto i natali la montagna candida che distrusse il Titanic, transatlantico più sfortunato della storia.
Mentre giusto di questi ultimi mesi è la scoperta, resa manifesta e pubblicata lo scorzo marzo grazie allo studio di osservazione satellitare ed aeronautico condotto dalla NASA che vanta il nome di OMG (non l’acronimo internettiano multiuso, bensì l’abbreviazione di “Oceans Melting Greenland”) che qualcosa, da queste parti, sta cambiando. Nel cuore sommerso dello stesso impressionante conglomerato di ghiaccio che un tempo si estendeva fino alle acque della baia antistante, con una sinuoseggiante estrusione chiamata “lingua” ed ormai scomparsa del tutto a partire dal 2013, un tetro anticipo di quello che sarebbe venuto dopo: l’arretramento ulteriore di 45 metri al giorno per svariati anni a venire, con conseguente sollevamento delle acque oceaniche terrestri (si calcolano circa 30 Km complessivi tra il 1850 e il 1964). Laddove oggi, non soltanto le accurate misurazioni raccolte ed analizzate dal Jet Propulsion Laboratory di Pasadena dimostrano con assoluta chiarezza un rallentamento di questo processo tra il 2016 e il 2018, bensì addirittura la sua stessa inversione, con una lenta ricrescita di quanto, un poco alla volta, il riscaldamento terrestre sembrava fermamente intenzionato a sottrarci per le infinite generazioni a venire. Che cosa sta succedendo, dunque? Il mondo è salvo, le temperature scendono, presto sperimenteremo l’inizio di una nuova Era Glaciale? Forse dovremmo pensare addirittura (gasp) che in ultima analisi, avesse ragione Donald Trump? Non proprio e per quanto sarebbe bello poter dare, per una volta, la buona novella, l’analisi approfondita della casistica in corso lascia intravedere un aspetto collaterale che in realtà dovrebbe, a conti fatti, persino accrescere il nostro stato di preoccupazione. Ne parla il glaciologo Ala Khazendar assieme al suo team, autore dello studio pubblicato sulla rivista Nature Geoscience con uno stile insolitamente divulgativo, allo scopo probabile di aprire gli occhi del grande pubblico dinnanzi alla potenziale deriva ecologica del nostro unico, insostituibile pianeta…
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La funzione delle capre nell’economia dell’aeroporto americano
È nel momento della più drammatica necessità, quando ogni possibile speranza sembra andare in dissolvenza verso l’orizzonte, che l’inclinazione innata verso l’eroismo scaturisce dalle gesta di qualsiasi essere, donando un senso significativo al corollario dei minuti, ore, giorni, eccetera, che gli restano da vivere su questa Terra. Come quando Edward Henry “Butch” O’Hare, aviatore navale e primo asso americano della seconda guerra mondiale, in ordine di tempo e non solo, decollò col proprio Grumman F4F Wildcat assieme a quello di un commilitone dalla primitiva portaerei USS Lexington nel 1942, formando un’ultima linea di difesa contro nove bombardieri pesanti provenienti da una base giapponese. Soltanto per scoprirsi totalmente privo di assistenza, quando le armi del suo compagno si incepparono, costringendolo a poggiare nuovamente le sue ruote sopra il ponte del vascello. Segue nel racconto il primo di una serie di passaggi attentamente calibrati, poi un secondo e così via a seguire, che gli permisero di abbatterne tre, riuscendo a danneggiarne gli altri al punto da salvare la sua nave. Impresa in grado valergli, nell’ordine, la concessione della prestigiosa Medaglia d’Onore del Presidente, l’attribuzione del suo nome al potente cacciatorpediniere USS O’Hare varato nel ’45, e soltanto quattro anni dopo, anche nei confronti di quello che sarebbe ben presto diventato “il miglio quadrato più trafficato al mondo” con la qualifica informale di aeroporto/deposito del frutteto di Chicago.
Detto ciò, chiunque avesse visitato l’O’Hare poco prima del recente anno 2013, avrebbe assai probabilmente finito per pensare “Accidenti, questo posto deve aver visto giorni migliori”. In modo particolare nel caso di un approccio dalla direzione del torrente Willow-Higgins, i cui argini scoscesi impedivano il disboscamento sistematico della vegetazione, a meno d’impiegare costosi meccanismi, piuttosto che prodotti chimici lesìvi per l’ambiente. Il che aveva portato, negli anni, all’accumulo di un fitto strato di siepi e sterpaglie, usate come nido da procioni, anatre, gabbiani ed altre bestie dell’universo selvatico, capaci di creare non pochi grattacapi nel contesto della gestione appropriatamente conforme di un luogo di partenza ed atterraggio così fondamentale. Almeno finché nell’anno del fatale cambiamento, in un tranquillo giorno d’estate, all’organo preposto di gestione noto come CDA (Dipartimento Aereo di Chicago) non venne in mente l’idea di frapporre innanzi ad un possibile disastro futuro la figura di un improbabile, quanto insolito eroe. Che tutti noi, sotto una guisa oppure l’altra, indubbiamente conosciamo: l’essere diabolico (soltanto quando di colore nero) la cui lunga barba sembrerebbe sottintendere saggezza. Se non fosse per la buffa, spesso scoordinata espressione che campeggia sotto quel piccolo paio di corna, poco prima che il suono straziante del suo tipico richiamo si palesi a perforare i nostri timpani, come si confà al cospetto di una cara quanto prototipica capra.
Ora è certamente lungi da me voler paragonare la figura di un simpatico animale, per quanto utile e operoso, alle gesta di una delle figure maggiormente celebrate dagli americani risalenti all’era della guerra. Tuttavia è palese per chiunque abbia modo e il desiderio d’osservarlo, come l’impiego per tosare l’erba delle più importanti capre di Chicago, prese annualmente in prestito dal pastore Andrew Tokarz con la sua fattoria in Illinois, assieme ad alcune pecore e un asino di nome Jackson, come protezione contro il possibile attacco dei coyote, abbiano fatto molto per incrementare la sicurezza dei voli in partenza e in arrivo per la cosiddetta Città Ventosa. E il tutto senza mai pretendere, persino a fronte del successo conseguito, nessun tipo di coccarda o ricompensa d’altro tipo…
Un colossale uccello per salvare Atlantide sulle coste di Giava
“Se davvero l’atmosfera della Terra si sta riscaldando…” Dice l’uomo a Washington, sulla comoda poltrona che controlla il mondo, “Allora perché gli ultimi inverni sono stati tra i più freddi e lunghi della storia?” Oltre i picchi delle montagne costiere, al di là di un mare profondo e sulle coste di una landa remota, il suo stesso tono querulo viene impiegato da gente con tutt’altro tipo di problemi. “Se questa città veramente sta per scomparire, sommersa nelle acque del sottosuolo, allora perché i miei rubinetti restano ancora del tutto a secco?” Uomo di Jakarta, ottimista per definizione e (indubbia) sfortuna situazionale. Una delle città più tentacolari e sovraffollate del pianeta, con i suoi 10 milioni di abitanti metropolitani, oltre a ulteriori 20 nell’area immediatamente circostante della più importante isola d’Indonesia, tutti protesi a fare ciò che fa normalmente, l’uomo: consumare. Una risorsa sopra tutte le altre e quella risorsa, come apparirà evidente a questo punto della narrazione, è il fluido essenziale che ci da la vita, nella fattispecie quello estratto e portato entro le mura domestiche tramite metodologie per lo più private. Già perché in questi luoghi, vige una regola tipica di certi paesi in rapidissima via di sviluppo: lo vedi, ti serve, lo prendi. Esattamente come a Città del Messico, luogo affetto da una situazione simile benché a uno stadio molto meno avanzato, per cui le diverse comunità locali, in assenza di un allaccio affidabile alla rete urbana gestita dal governo, trivellano autonomamente in profondità, trovando una risposta artesiana (o almeno, così si spera) alla costante ricerca di fonti d’idratazione necessarie per continuare a condurre un’esistenza priva di stenti. Il che ha portato alla nascita di una sorta di graduatoria degli status sociali, secondo cui più è profondo e produttivo il tuo pozzo, maggiormente risulti degno di essere iscritto nell’albo dei “benestanti” o “facoltosi” abitanti della collettività. Ma come tutti noi sappiamo fin troppo bene, un palloncino sgonfiato alla fine inevitabilmente si affloscia soprattutto se sostiene un peso, e ciò risulta altrettanto vero quando si sta parlando di un gavettone non-più-ricolmo, sia che abbia il diametro di qualche decina di centimetri, che i circa 600 Km quadrati coperti dalle fondamenta di alcuni dei più svettanti (e ponderosi) grattacieli dell’intera area asiatica meridionale. Ecco, dunque, l’orribile verità: Jakarta sta affondando, ormai almeno da un paio di decadi, all’allarmante velocità di 7,5-14 centimetri l’anno, tanto che alcuni luoghi si trovano oggi circa 4 metri più in basso di com’erano al principio degli anni ’70. Il che non è propriamente o niente affatto l’ideale, quando si considera la vicinanza dell’Oceano, in costante crescita per il progressivo sciogliersi delle calotte artiche, nonché le frequenti e rovinose alluvioni che tendono a colpire a queste latitudini. Ed avrebbe molto probabilmente già segnato la fine di una tale metropoli, con conseguente spostamento della capitale altrove, come già teorizzato a più riprese sin dall’istituzione del governo democratico nazionale nel 1945, se non fosse per i pesanti interessi economici ed i copiosi investimenti compiuti per salvarla. Tra cui il più ingente, nonché significativo, resta ad oggi lo stanziamento di fondi per il progetto a lungo termine dello NCICD (National Capital Integrated Coastal Development) anche detto Tanggul Laut Raksasa Jakarta o “Muro gigante di Jakarta”. Le cui ali composte da isole artificiali, un po’ come le strabilianti ed inutili isole-palma di Dubai, dovranno innalzarsi a proteggere l’entroterra dalla ferocia ondeggiante del vasto oceano. Se soltanto le società appaltatrici, nonché i politici committenti, riusciranno finalmente a trovarsi d’accordo sui metodi e i tecnicismi collaterali…
L’armatura della Tigre dentro una crisalide dorata
Per alcuni un frutto, secondo altri, una verdura. Ma per noi che ci viviamo sopra, 30, 35 bruchi a macchie bianche e nere, il pianeta ed una stella al tempo stesso, che permette di raggiungere il momento della verità. Duri e molli proprietari, al tempo stesso e in base alle diverse circostanze, delle alterne foglie della pianta di pomodoro. Per trasformazione/metamorfosi ovvero l’effettiva messa in essere, dello spirito dell’animale che realizza il sogno contenuto nel copione sussurrato nelle nostre antenne dalla voce impercettibile della natura: “Mangia, mangia e cresci, lepidottero dei territori tropicali, finché il tuo corpo non diventa inamovibile cristallo. Quindi diafano, poi traslucido e Volante.” Eppure statemi a sentire, miei fratelli dalle corte protozampe e quei sericeri grondanti filo appiccicoso, quando dico che il pericolo si annida selle nostre teste. In modo totalmente letterale, soprattutto al principiar d’estate, quando i piccoli d’uccello si trasformano in fameliche creature, pronte per piombare ai margini della coscienza, facendoci a brandelli l’uno dopo l’altro, fino a sazietà. E soprattutto ricordate di essere brillanti. Splendidi ed appariscenti, come furono, prima di noi, innumerevoli generazioni dei predecessori. Poiché là dove il volatile o il nemico ragno, la scimmia insettivora del Centro America e altre orribili creature, mangiano una cosa verde o gialla senza nessun tipo d’esitazione, un tutt’altro tipo di racconto può venire dall’avvistamento di costoro della nostra schiatta, che raggiunta l’era della prima metamorfosi, presentino la loro stessa immagine riflessa grazie allo splendore… Del metallo!
Sulle crisalidi d’oro Internet si è espressa in vari tipi di frangenti, con il classico stile memetico e approssimativo delle “immagini shock” create per i social, blog e gli altri enumeratori di piccole pillole d’intrattenimento. A partire dall’affermazione, totalmente priva di senso, secondo cui le larve delle farfalla Mechanitis polymnia o Tithorea harmonia possiederebbero l’inusitata capacità di consumare particelle di metallo (prelevate non si sa da dove) per integrarle nella costruzione del loro “bozzolo”. Benché tale tipo di pupa protetta dal filo di seta, totalmente differente dalla crisalide che è frutto dell’indurimento del bruco stesso, sia piuttosto associata alle specie imparentate alla lontana che rientrano nella categoria delle falene. Come altrettanto illogica sembrerebbe, senza neppur tentare l’impossibile ricerca scientifica in materia, l’utilizzo leggendario di simili piccoli animali, usati a guisa di valuta da un presunto e non meglio definito “popolo antico” (forse dovrebbe trattarsi degli Olmechi?) Quando l’evidenza c’insegna come, una volta che il bruco ha completato la propria trasformazione, la crisalide diventa estremamente fragile, tanto da andare in pezzi non appena viene presa in mano senza la necessaria cautela. Ecco, dunque, l’effettiva verità: determinate tipologie di farfalle neotropicali originarie di Nicaragua, Costa Rica e Panama si vestono d’oro nel periodo maggiormente statico della loro vita, non per attirare sguardi ammirati, bensì al fine di respingere tutte quelle creature che, immediatamente sospettose, le scorgono al di sotto delle foglie delle soleneacee (patata, pomodoro, melanzana et similia) sotto le cui foglie riescono a schiudersi le rilevanti uova. Il che del resto, sembrerebbe in effetti riconducibile a un valido senso d’autoconservazione…