Il destino della Coca-Cola nella lava fusa

Lavapix

Ed altre fiammeggianti sperimentazioni. Bibita e bevanda, la prima fredda, la seconda calda. Nessuno, nel grave istante della pausa di metà mattina, riempirebbe la sua tazzina con del gelido caffé, appena uscito dal surgelatore. Né la lattina ghiacciata, salvo spiacevoli imprevisti conviviali, dovrebbe perdere quel senso di frescura, che guadagna dentro al frigo dal gas freon. Per lo meno, idealmente. D’estate, come d’inverno: la birra, l’aranciata frizzante, non le metteresti dentro al forno a microonde. Mai le appoggeresti sulla stufa, o in prossimità del tuo termosifone. Soltanto il tè, fluido del distante Oriente, nettare di piante venerate, può essere a temperatura ambiente, oppure no, perché incorpora lo spirito del drago al tempo stesso del serpente. Come la sublime Coca-Cola, ma soltanto in dei frangenti straordinari, o per l’occorrenza di un particolare evento. Tipo, quando andavi per un’escursione documentaristica, sulle ripide pendici del vulcano Kīlauea e d’un tratto sul sentiero scorgi un vecchio amico, pāhoehoe: la pietra fusa al calor rosso, che ti viene incontro. Allora tanto è calda la montagna, che a qualcuno vien da dirgli: “Vuoi una Coca?” E lei ti risponde, silenziosamente: “ʻAʻā
In questo video-esperimento effettuato dal portale Lavapix, parte di uno sconfinato repertorio, ci viene data l’opportunità di assistere all’effetto della pura lava delle Hawaii, 1000-1200 °C circa, che s’incontra con una delle lattine più famose al mondo. Due scenari, ci vengono proposti, con esiti altrettanto memorabili, ma va detto, leggermente deludenti. Nel primo caso, il cilindretto di alluminio è stato bucato sulla sommità, per evitare l’immediato scoppio dovuto all’escursione termica. Il fotografo spiega nella descrizione di aver sperato in una sorta di svettante geyser con le bollicine, ma di aver poi ottenuto, piuttosto, un timido zampillo. Ci riprova quindi subito, senza praticare il foro, però la natura lo sorprende pure in quello: si squaglia il fondo, la bibita scivola via, la montagna la ricopre. Forse, un giorno, qualcuno la ritroverà, imperscrutabile residuo di epoche passate? Non ci riguarda, passiamo altre cose. Abbiamo molto da vedere;

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Manipolando il fiume impetuoso per fare surf

Waimea River

Il fiume Waimea, sull’isola hawaiana di Kauai, è il più lungo dell’intero arcipelago. Un flusso d’acqua che nasce all’interno della grande palude di altura delle Alakai, attraversa la spettacolare valle in pietra vulcanica che prende il suo nome, anche detta il Grand Canyon del Pacificoe poi, si ferma. Perché nel corso della stagione secca, a causa di particolari condizioni ambientali, subisce un prosciugamento quasi totale della foce, trasformando la parte finale del suo letto in una sorta di bacino naturale, con poco più di una sottile striscia di terra a chiudere la via che porta all’agognato oceano. Normalmente, a partire da quel momento si verifica un’impasse, solita prolungarsi per diversi mesi. Con il ritornare annuo delle piogge il flusso aumenta gradualmente finché, raggiunto il punto critico, da un giorno all’altro la pressione diviene così forte da non poter più essere trattenuta. Allora il fiume, sfogando la sua frustrazione, sgorga potentemente verso il mare con un effetto simile al cedere di una diga, benché fortunatamente privo di alcuna conseguenza. O meglio, con una sola, ma certamente positiva: l’accorrere dei surfisti, categoria sportiva fortemente legata ai fenomeni metereologici e geodinamici, pronta ad approfittare di ogni occasione per cavalcare onde particolari o fuori dal comune. E farsi lanciare dalla fionda torrenziale di questa specie di railgun, follemente puntata verso il vasto blu marino, è un’esperienza che si può solo una volta l’anno, per di più in quell’unico luogo al mondo. Non c’è verso di perdersi un tale momento; perciò se c’è un ritardo, meglio scavare!

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Il sogghigno un pò strano del piccolo ragno hawaiano

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La prospettiva cambia ogni cosa. Quando Eugène Simon, grande naturalista francese, trovò nei suoi viaggi questo piccolo aracnide (appena 5 cm) decise di chiamarlo scientificamente Theridion Grallator, ovvero animaletto trampoliere. Una definizione in greco e latino, che lo poneva nella grande famiglia dei ragni colorati dalle dimensioni ridotte, differenziandolo principalmente per la caratteristica lunghezza delle sue zampe. Ma i nativi dell’isola di Maui,  forse più istintivi e spontanei, lo conoscevano bene e già avevano per lui un’altro nome: nananana makakiʻi, il ragno dal volto umano. Perché sul dorso degli esemplari di questa specie compaiono una ricca varietà di figure colorate, rosse nere e gialle, che il più delle volte creano la perfetta approssimazione di una faccina sorridente, simile a uno smiley o al trucco di un clown. Occhi tondi, niente naso, grande bocca rossa aperta e rivolta verso l’alto. Gli appassionati del web troveranno forse in questa creatura l’occorrenza più imprevista e strana della famosa icona Awesome Face, allegoria emotiva nata come ausilio grafico per un forum dei Pokèmon, trasformatasi in una vera e propria meme del mondo di Internet. L’unica differenza è la presenza delle sopracciglia. Il disegno è trasmesso ereditariamente e talvolta può variare in base a quanto il ragno ha mangiato.

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