“Wof, come va?” Sogniamo quello che desideriamo ed è per questo un’occorrenza frequente, che nel regno di Morfeo ci capiti di conversare con Micio e Fido, gli animali che ci accompagnano attraverso il nostro viaggio quotidiano: “Bene miao, grazie.” Ma da questa parte dell’uscio di casa, nessuna sorpresa. Come avviene per il pappagallo, la creatura domestica dotata del più avanzato apparato locutorio, gli argomenti di conversazione tra loro e noi finiscono per essere inerentemente limitati: il tempo, il cibo, cosa danno in Tv stasera. È piuttosto raro, addirittura, che si riesca a conversare sul film o libro preferito. Questo forse perché cani, gatti ed uccelli sono così straordinariamente simili ai loro padroni, che nel contesto del mondo contemporaneo, difficilmente trovano del tempo ampliare il proprio vocabolario tra un impegno e l’altro. Correre, giocare a scarabeo, scrivere un romanzo… Sapete chi, nel regno animale, ha la massa cerebrale e voglia necessari ad ottenere un margine di miglioramento? L’orca assassina, seconda bestia col cervello più pesante al mondo (dopo il capodoglio, vittima occasionale, tra parentesi, del suddetto assassinio) questione ampiamente dimostrata dall’epoca del primo parco acquatico con spettacoli nella piscina, attraverso l’addestramento selettivo da parte di esperti umani. È una prassi molto triste. Che può produrre, tuttavia, nozioni estremamente utili all’avanzamento della scienza. Perché già, una volta che un’orca, o qualsiasi altro mammifero marino, viene fatto crescere in cattività, ci sono minime speranze che essa possa far ritorno a una vita allo stato brado. Non esiste un lieto epilogo, come nel mondo del cinema e dei racconti per bambini! Dunque sarebbe semplicemente una follia autolesionista, non approfittare di un triste stato dei fatti vigente. Proprio per demolire in seconda battuta, con la mera esposizione dei fatti, le fondamenta di suddetta situazione impropria. Sperando di riuscire a liberare, nella mente ancor prima che nel corpo, il più grosso e sofisticato degli animali con colorazione bianco e nera.
Toglici una doppia elle, mettici una kappa. Quello che ottieni è Wikie, l’esemplare adulta di 14 anni che negli ultimi mesi del 2017, presso il parco a tema Marineland di Antibes sulla riviera francese, si è guadagnato tutta l’attenzione dello psicologo comparativo José Zamorano-Abramson, assieme alla sua equipe facente parte della leggendaria British Society, tra le più antiche, e prestigiose istituzioni scientifiche del contesto internazionale. Attenzione finalizzata allo studio dell’imitazione da parte delle orche di suoni completamente nuovi, prodotti da altre orche o esseri umani. In altri termini, gli scienziati per lo più provenienti dall’Universidad Catòlica de Chile, si erano prefissati d’insegnare a Wikie quello che molte generazioni dei suoi antenati marini si erano sognati di riuscire a fare: conversare con gli strani abitanti della superficie, ovvero nel suo caso, i bipedi facenti parte della grande famiglia che gli era stata suo malgrado imposta. È una strana mescolanza di fattori, questa, per cui proprio il singolo studio più importante per un’emancipazione futura dell’Orcinus orca, assolutamente necessaria nell’opinione degli esperti, finisca così per essere una giustificazione all’esistenza stessa dei discussi delfinari, luoghi dove alcune delle creature più intelligenti del pianeta vengono fatte esibire per il pubblico ludibrio, senza evidenti apporti meritori al loro naturale stile di vita. Eppure, eccoci qui. Intendiamoci: si tratta di un esperimento preliminare. WIkie non sa recitare una terzina di Dante, né la scena culmine dell’Amleto. Tutto quello che gli è stato insegnato a fare, come presentato attraverso i materiali audio a supporto dello studio pubblicato il 31 gennaio, è pronunciare una serie di parole monosillabiche in inglese, tra cui hello, one-two-three e bye. E in almeno due dei tre casi citati, si potrebbe anche affermare che quello che riescono a riprodurre sia per lo più l’intonazione, senza articolare effettivamente il suono richiesto. Questo perché, molto prevedibilmente, un’orca possiede ben poche caratteristiche anatomiche in comune con gli umani, soprattutto nel campo per lei inutile della propagazione del suono fuori dall’acqua. Laddove la comunicazione tra cospecifici, in natura, avviene normalmente tramite l’impiego di quell’insieme di fischi al di sotto e sopra della soglia udibile, che la scienza definisce in modo generico “whale-speak”. Tutto quello che Wikie poteva fare a questo punto, per accontentare gli studiosi, era emettere le sonorità richieste attraverso l’impiego di un organo imprevisto: lo sfiatatoio. Ovvero desiderando fare dei paragoni, la sua espressione ha trovato modo di palesarsi attraverso l’equivalente del naso. Tutto considerato, viste le premesse, direi che ci è riuscita fin troppo bene! E il fatto stesso che lo studio non sia stato un fallimento su tutta la linea, chiarisce e dimostra quello che agli esperti era già noto: si, le orche posseggono un tipo di intelligenza che potremmo definire, convenzionalmente, umana. Ed hanno la capacità e l’intenzione di sfruttare a fondo l’attività del gioco…
comunicazione
Il villaggio turco che comunica fischiando
Se doveste visitare uno di questi giorni la comunità montana di Kuskoy, nella parte settentrionale della Turchia, non troppo lontano dalle coste del Mar Nero, potreste rimanere colpiti da un insolito suono. Come il verso di un uccello, che riecheggia da una valle all’altra, modulato in infinite varianti che cambiano in base al momento della giornata. Non si tratta del canto di un pappagallo, o la melodia diseguale di un corvo particolarmente creativo. Bensì della gente che parla il ku__ş dili, un idioma il cui nome potremmo tradurre, alquanto appropriatamente, con l’espressione di “lingua degli uccelli”. Di certo questa è la prova che la comunicazione umana, lungi dall’essere un costrutto artificiale, è la risposta ad una primaria necessità e come tale, soggetta ai meccanismi spontanei dell’evoluzione. Che nel caso specifico, più che prevedere la sopravvivenza dell’uno o dell’altro individuo, comporta un processo di selezione dei morfemi. C’è una chiara corrispondenza, in tutto questo, con i metodi espressivi di chi svolge un particolare lavoro in luoghi inadatti alla trasmissione auditiva di parole complesse, come moli portuali, opifici o pubblici mercati di scambio. Costui inizierà, ben presto, ad esprimersi in modo conciso e preferibilmente, a voce alta. Ma cosa pensate che succeda piuttosto, se la problematica di fondo è la distanza? Questo luogo ameno, dove i prodotti principali sono il tè e le nocciole, presentava uno scenario piuttosto atipico: ecco un sistema di calli e promontori immerso nella natura, dove la cacofonia di fondo è letteralmente inesistente. Ma lo zio, la moglie, il nonno, si trovano a dover dire qualcosa ai loro famigliari, che si trovano due o trecento metri più sopra a svolgere faccende nel cortile di casa. Cosa fare, dunque…. Mettersi di buona lena, camminando fin lassù per poi tornare al punto di partenza: impossibile. Segnali di fumo: geograficamente fuori dal contesto. Perché non mettersi, piuttosto, semplicemente a parlare? Difficile, dopo tutto, negarlo: l’apparato fonatorio umano è in grado di fare molte cose. Compreso stringere le labbra, posizionare adeguatamente la lingua e i denti, per emettere, quindi, un flusso continuo d’aria dai polmoni. È l’atto universale del fischio, finalizzato a produrre un suono acuto e perfettamente udibile, in condizioni ideali, fino a un chilometro di distanza. Come per il caratteristico e non più udito suono dei modem 56k, diventa quindi difficile non porsi la spontanea domanda, relativa a quanti e quali significati possano nascondersi all’interno di una simile attività.
La prima tentazione è di dire: parecchi. Sarebbe difficile non considerare, a tal proposito, l’efficienza del telegrafo, che dalla semplice ripetizione ed interruzione di un segnale può brevemente riprodurre le 26 lettere dell’alfabeto, i dieci numeri e svariati segni diacritici utili alla trasmissione di un qualsivoglia messaggio. Ma ridurre la lingua degli uccelli ad un semplice codice unidimensionale sarebbe decisamente insoddisfacente, vista la sua capacità di trasmettere, assieme ai contenuti, informazioni contestuali come il senso d’urgenza, l’enfasi o il sentimento. Questo perché, persino sulle lunghe distanze attraverso cui viene utilizzata, gli interlocutori possono generalmente vedersi, interpretando quindi i rispettivi linguaggi del corpo e l’atteggiamento generale del parlante. Rendendo l’idioma in questione un metodo di comunicazione intrinsecamente superiore a svariate alternative digitali, quali l’SMS o l’E-mail. Ma non, purtroppo, della semplice telefonata. Ragione per cui la pratica, un tempo diffusa in tutta la regione rilevante del Giresun, è andata progressivamente riducendosi, fino al solo ambiente del villaggio isolato di Kuskoy. Perché proprio in questo luogo, non è facile da determinare. È forse possibile che proprio qui fosse vissuta la persona che, qualche secolo fa, codificò formalmente un sistema che vigeva nei fatti almeno dall’epoca dell’Impero Ottomano (ogni linguaggio trae certamente vantaggio da un promotore innegabilmente autorevole) oppure che, una fondamentale necessità di sottrarsi allo scrutinio da parte delle autorità costituite, avesse portato gli abitanti proprio di questo luogo a farne un’uso più assiduo, al fine di comunicare ai vicini di casa l’arrivo di eventuali ospiti in divisa. Ma l’aspetto più significativo è che poiché una lingua in corso di utilizzo difficilmente può restare immutata nel tempo, anno dopo anno, un lessema dopo l’altro, la lingua si è trasformata in una sorta di arte popolare, ampliata dagli abitanti con l’inclusione di nuovi e sempre più sofisticati termini in uso nel mondo contemporaneo. Ma prima che tale affermazione possa trarvi in inganno, vediamo di analizzarne brevemente il funzionamento…
Scienziata giapponese insegna a un cactus l’alfabeto
Si tratta di un video indubbiamente misterioso, dall’immagine disturbata di una vecchia VHS, che appare e poi scompare periodicamente da YouTube, seguendo una sorta di occulto ciclo stagionale. Qualche volta, è presente un commento audio che permette di contestualizzarlo. In altri casi, invece, no. In esso compaiono una coppia di giapponesi, lui vestito in giacca e cravatta, lei con un kimono rosa, in piedi sopra un palco dinnanzi ad un pubblico rapito, assieme ad alcune piante grasse dall’aspetto totalmente ordinario. Dopo una breve spiegazione di quello che sta per accadere, quindi, l’uomo si fa da parte, mentre lei si avvicina con fare determinato ad uno dei piccoli arbusti. Il campo dell’inquadratura si allarga, ed a quel punto si nota qualcosa di decisamente insolito: al cactus è stato attaccato un filo elettrico, che ricadendo a terra, corre fino ad una macchina dalla funzione misteriosa. La donna, a quel punto, inizia a parlare nella sua lingua quasi musicale alla pianta, mimando il gesto di accarezzarla. In un primo momento, non succede nulla. Quindi all’improvviso, si ode il sibilo di un calabrone, oppure… Il trillo lamentoso di un theremin? Che aumenta, e aumenta ancora d’intensità, finché appare pienamente evidente che esso non può derivare da un semplice insetto volatore, né dallo strumento musicale di un concertista russo. “Ka…” fa a questo punto l’improbabile conduttrice dell’esperimento: “Ka, Ki, Ku…” e al completarsi di ciascun suono, le prime tre del sillabario hiragana, il ronzio ambientale cala bruscamente d’intensità. Quindi riecheggia, ancora più forte di prima. In breve tempo appare orribilmente chiaro: esso rappresenta la voce della pianta. Questo stolido ed immoto cactus, sta imparando l’alfabeto.
Gli anni ’70 furono un’epoca di sincretismi. Quando le prime avvisaglie delle moderne tecnologie informatiche e di comunicazione si trovavano agli albori, e nasceva la generazione di un nuovo tipo di capitalisti, non più dediti al puro e semplice guadagno, bensì alla ricerca di un qualche nuovo tipo di realizzazione personale. Spirituale? Si, talvolta. Così mentre in California, nell’assolata Santa Clara Valley fuori San Francisco un giovane Steve Jobs leggeva Shakespeare tra volute di marijuana, preparandosi al suo primo viaggio formativo in India, dall’altra parte del globo un imprenditore già affermato stabiliva un diverso tipo di rapporto con le piante. Il Dr. Ken Hashimoto era l’amministratore della Fuji Electric (da non confondere con la Fujifilm) importante compagnia di Tokyo fornitrice di apparecchiature industriali, strumentazione energetica e frigoriferi. Ma anche e soprattutto, l’inventore di un particolare nuovo tipo di poligrafo, ovvero macchina della verità, sufficientemente accurato da essere considerato probante nei processi del suo paese. Il quale funzionava, per la prima volta, senza l’impiego di complesse soluzioni per la misurazione della pressione sanguigna e il carico elettrico d’impedenza della pelle umana. Bensì semplicemente traducendo le inflessioni della voce in un grafico simile a un elettroencefalogramma, che permetteva ai poliziotti, anche senza una preparazione pregressa nel campo, di effettuare un primo interrogatorio del sospetto, sfruttando l’assistenza di un dispositivo in grado di gettare luce sulla sua sincerità. Stiamo dunque parlando di un uomo fortemente stimato nella sua società, la cui vita professionale appariva realizzata sotto ogni punto di vista. Tranne quello, forse, più importante per lui: non era ancora riuscito a conversare con coloro che erano più importanti per lui. Hashimoto, la cui moglie era un’assidua giardiniera e studiosa di botanica, condivideva infatti ormai da anni la sua passione per la fotosintesi clorofilliana e tutto ciò che ne riusciva a derivare, al punto che, ampliato il suo campo d’interessi all’ambito della filosofia, aveva teorizzato per iscritto che gli esseri vegetali potessero provare sentimenti, avere un qualche tipo d’anima e comprendere le più profonde verità del mondo. Lavorando insieme, dunque, i due posero le basi della domanda che probabilmente, fu proprio lei a rivolgergli: “Caro, e se attaccassimo il poligrafo alla pianta, invertendo il tuo sistema di misurazione della voce? Cosa pensi che succederebbe?”