Il geco Spider-Man capace di sparare ragnatele dalla coda se viene minacciato dai predatori

Il grande ragno cacciatore o sarasside sporse la sua testa sopra il sasso parzialmente rovesciato dai rovesci del temporale. Le sue zampe allargate a ventaglio, ben piantate sulla superficie minerale a una distanza di oltre 30 cm, gli permisero di scavalcare con lo sguardo le asperità del terreno, scorgendo a qualche metro di distanza una perfetta vittima dell’ora vespertina: letargico e in attesa, in apparenza rilassata, la lucertola credeva di poter contare sul mimetismo della sua livrea puntinata, ma la striscia rossa al centro l’aveva tradita. Perciò mentre questo particolare aracnide, cacciatore attivo senza l’uso di una tela, cominciava a dirigersi verso la sua cena, la sua semplice mente comprese istintivamente qualcosa: che gli occhi rossi e variopinti del rettile, nel contempo, lo avevano individuato. E la piccola creatura avrebbe fatto il possibile per avere salva la vita. Pochi secondi dopo, raggiunta una distanza successiva a fare il balzo che conduce alla cattura, il ragno s’immobilizzò d’un tratto: lo Strophurus Taenicauda, o geco dalla coda d’oro, aveva infatti cambiato forma, inarcando al schiena alla maniera di un felino. Ma questo, incredibilmente non era tutto. L’esperto consumatore di scattanti vertebrati poteva ora scorgere direttamente coi suoi nove occhi la coda dell’avversario sollevarsi, e ripiegarsi in avanti come quella di uno scorpione. Inoltre, cominciò a produrre un suono reiterato simile all’abbaio robotico di un cane, dalla bocca spalancata il cui interno si presentava di un affascinante color azzurro cielo. “Ragno, porta guadagno, sarà meglio che te ne vada in bagno!” Pensò tra se e se l’assalitore, mentre cominciava lentamente a voltarsi dall’altra parte, per non suscitare alcuna reazione dall’imprevisto avversario. Non riuscì a fare un singolo passo. Con un’impeto violento, qualcosa di maleodorante ed appiccicoso iniziò a fare la sua comparsa dall’appendice caudale del gatto-geco, formando viticci e propaggini protesi verso l’indirizzo del suo bersaglio. Pochi istanti dopo, il sarasside capì di essere stato momentaneamente distratto, se non addirittura intrappolato. Mentre il geco, con la rapidità del fulmine, era già sparito nelle tenebre incipienti della sera.
Rosso e blu, capace di arrampicarsi sulle pareti attaccandosi con mani e piedi, spara una sostanza appiccicosa dagli arti periferici del suo corpo: per anni, abbiamo vissuto in un sogno del tutto errato. Credendo, sulla base d’informazioni inesatte, che il supereroe Spiderman fosse qualcosa di diverso da un geco. Assai raro riesce a presentarsi infatti il caso, nel cinema e letteratura fumettistica, in cui il nostro amichevole Peter Parker di quartiere tessa un qualche tipo di trappola geometrica in cui far cadere incauti criminali. Preferendo utilizzare, piuttosto, il proprio senso della mira e il tiro deflesso per riuscire a bloccarli prima di tentare la sua mossa pienamente risolutiva. Proprio come… Lui. È comparso l’altro giorno, sui soliti canali social a partire dal forum democratico Reddit, un breve spezzone di un qualche ignoto documentario (probabilmente) in cui si vede una scena straordinariamente notevole. Una lucertola rossastra, complice l’ipersaturazione dell’inquadratura, punta la sua coda striata all’indirizzo del cameraman. E senza alcuna soluzione di continuità, inizia ad emettere un fluido biancastro da invisibili pori ai lati di quel cilindro ricoperto di squame. Al che la solita sapiente collettività in attesa, inclusiva di abitanti del suo continente originario, non ha tardato ad indicare il genere sopracitato degli Strophurus o gechi dalla coda spinosa d’Oceania, creature capaci di creare attraverso i pregressi della propria evoluzione un particolare metodo d’autodifesa, alternativo a quello altamente dispendioso di lasciare una superflua parte di se stessi nelle fauci dei propri nemici. Il che potrebbe suscitare un qualche comprensibile livello di confusione, quando si nota come in effetti lo S. Taenicauda del video non presenti alcun tipo di punta o tubercolo in corrispondenza dell’arto incriminato, costituendo nei fatti l’unica eccezione rilevante. Per questa variegata combriccola di gechi capace di popolare soprattutto le regioni aride degli stati di Queensland e Nuovo Galles del Sud, ma anche la rimanente parte del paese ad opera di specie meno variopinte ma altrettanto distintive. A ulteriore riconferma di come la natura sembri rispondere a regole totalmente diverse, nel mondo totalmente nuovo della più selvaggia terra emersa dell’emisfero Meridionale…

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La tronfia imponenza della rana che sognava di essere una tartaruga

È abbastanza ragionevole nella maggior parte dei casi, riuscire a riconoscere se non proprio l’animale, almeno l’area biologica di appartenenza di eventuali creature ritrovate durante gli scavi di preparazione di un cantiere, così come possiamo immaginare essersi aspettato di fare l’operaio cambogiano Lim Khyhong verso la fine dello scorso gennaio. Quando successivamente all’opera preparatoria della ruspa, si trovò al cospetto di qualcosa che molto difficilmente avrebbe potuto prevedere d’incontrare nel corso della sua tranquilla esistenza: tondo come un disco, grande come il suo palmo, gonfio come un palloncino, l’animale gracidante che sembrava avere la forma approssimativa di un rettile rimasto privo, per qualche bizzarra ragione, del guscio normalmente facente parte del suo bizzarro corpo. Completato da tozze zampe tridattili e uno sguardo… Uno sguardo che potremmo definire nettamente scocciato per essere stato preso in mano, in forza delle palpebre semi-abbassate, la bocca larga e rivolta all’ingiù ed il labro inferiore sporgente in avanti, quasi nell’accenno di una comica espressione imbronciata. Dando inizio a una legittima stagione del dubbio che avrebbe potuto estendersi anche per parecchi minuti ed ore, non fosse stato grazie allo spunto d’identificazione offerto all’improvviso dall’iniziativa canora del piccolo abitante, che dinnanzi al concentrato sguardo dei colleghi (come resistere a una tale distrazione?) scelse di mettersi soavemente a gracidare, con un suono che potremmo azzardarci a traslitterare come 呱呱, 呱呱 (guagua-guagua). Combinazione di fonemi ripetuti che chiunque, semplicemente chiunque risulta in genere capace d’identificare presso queste terre, dove si attribuisce senza esitazioni alla diffusa rana ungok o “del collo di bottiglia” come viene chiamata per la forma appuntita del suo muso, perfezionato dalla natura al fine di nutrirsi di formiche ed altri piccoli insetti che camminano nella profondità delle notti senza luna. Poiché nella maggior parte del tempo e fino alla stagione delle piogge e conseguenti accoppiamenti, l’animale in questione è solito vivere per l’appunto sotto terra, dove scava delle buche ben protette ove nascondersi e restare ben lontano da occhi indiscreti. Benché nel caso in cui una simile strategia dovesse rivelarsi inefficace, può fare ricorso anche a una diversa strategia d’autodifesa, che nelle fotografie diventate celebri all’inizio di quest’anno vendiamo attiva in tutta la sua spettacolare magnificenza: la rana, infatti, può riuscire ad aspirare copiose quantità d’aria e trattenere a lungo il fiato. Finché il suo intero corpo, piuttosto che i soli polmoni, si riempia di quella miscela di gas ossigenati valida a conferirgli VOLUME, ed in conseguenza di ciò, un’impressionante PRESENZA.
Ora, ciò è tutt’altro che raro nelle circostanze tipiche di questo territorio nazionale, soprattutto presso le regioni dell’entroterra dal clima relativamente più secco dove l’incontro soprattutto gastronomico con la specie chiamata scientificamente Glyphoglossus molossus risulta essere piuttosto frequente. Eppure c’era qualcosa, nell’ultima protagonista di una simile serie di memi o memes Internettiani, che sembrava renderla speciale nella sua diffusa e vagheggiante genia. Forse le proporzioni particolarmente “tonde” o magari il colorito grigiastro piuttosto che verde con occasionali macchie gialle, in questo caso nascosto da un sottile strato di terriccio che si era dimostrato in grado di aderire alla superficie porosa della sua pelle. Almeno finché una voce chiarificatrice, dagli abissi internazionali del vasto Web, non è sorta per fornire ottimi propositi d’identificazione…

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Giunge dall’Asia il verme saltatore, che trasforma foglie morte in fondi di caffè

Rigogliosa foresta relativamente vergine, cercasi nel territorio temperato dell’American Midwest. Quella regione naturalmente equilibrata, ecologicamente tranquilla, dove flora e fauna sopravvivono senza particolari cambiamenti nei reciproci rapporti di correlazione fin dai tempi precedenti alla nostra venuta. O almeno, questo è quello che si dice. Poiché all’ombra dei faggi e degli olmi, degli ontani e degli aceri, qualcosa di spiacevole ha iniziato ad accadere. Proprio alla base degli alti tronchi, dove un tempo crescevano bassi cespugli ed erbe mediche, o attecchivano i virgulti delle prossime preziose ramificazioni, compare sempre più di frequente il suolo scarno e privo d’altri ornamenti, con soltanto qualche timido filo d’erba circondato dalla polvere dei cupi giorni odierni. Situazione, questa, motivata dalla persistenza di qualcuno che continua a esistere non visto, sotto la copertura delle foglie e sotto i suoi svariati centimetri di terra. Strisciando nell’oscurità e l’essenziale consapevolezza, come il Diavolo dei vangeli, di aver convinto l’intera umanità di essere un mero prodotto dell’immaginazione della gente.
Ma Amynthas agrestis giunto dalla Corea e il Giappone esiste davvero, sebbene sia diffusa l’abitudine di attribuirgli un’ampia varietà di nomi. Tra cui verme saltatore, verme serpente o Alabama jumper, terminologia particolarmente utilizzata quest’ultima dai pescatori dell’omonimo stato, per tutti quegli anellidi che si mostrano capaci di agitarsi più a lungo, riuscendo ad attirare verso l’amo i migliori tesori pinnuti delle profondità lacustri e/o fluviali. Sebbene stiamo parlando, nella realtà dei fatti, di creature appartenenti a una famiglia tassonomica nettamente distinta e piuttosto vasta, quella denominata Megascolecidae originaria dell’Asia Orientale e dell’Australia, con significative differenze morfologiche rispetto al tipico lombrico di provenienza europea, fino alla disposizione degli organi stessi all’interno del suo corpo tubolare. Esteriormente, quindi, l’animale presenta una lunghezza generalmente inferiore ma un corpo tozzo, con un vistoso clitellum bianco (ghiandola impiegata per la protezione delle uova) a un terzo della distanza dalla testa, che spicca sul colore rossastro di una forma per il resto ragionevolmente ordinaria. Mentre qualcosa di più nettamente diverso appare evidente nel momento in cui si tenta di afferrare, o in qualsiasi altro modo si disturba il verme: poiché piuttosto che reagire agitandosi o tentando di strisciare via, la specie in questione presenta la capacità di sobbalzare con violenti sussulti paragonabili a quelli di un serpente a sonagli, qualche volta lasciando dietro di se la coda e tentando letteralmente di terrorizzare la percepita minaccia cogliendola di sorpresa. Una reazione sottilmente inquietante che nei fatti anticipa la natura molto problematica di tali creature, capaci di rovinare in modo irrimediabile il sistema ecologico alla base della rigenerazione vegetativa. In forza della loro propensione alla voracità, per non parlare dell’indole aggressiva che gli permette di scacciare via letteralmente tutti gli altri tipi di verme, riservando solamente a loro stessi quell’intero spazio vivente che riusciva un tempo a perpetrare se stesso.
Poiché la propagazione del verme pazzo, in costante crescita nell’intera parte settentrionale degli Stati Uniti, può essere facilmente rilevata attraverso la presenza di un diverso tipo di terriccio, secco e di colore assai scuro, totalmente incapace di fornire nutrimento a qualsivoglia tipo di pianta. Il cui aspetto, convenzionalmente, è stato paragonato ai residui che fuoriescono dalla caffettiera, ogni qualvolta si procede per riporla prima dell’utilizzo successivo…

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L’incredibile buona nascita della madre polpo che covò le sue uova per più di quattro anni

Su un pianeta del braccio esterno della Galassia, all’interno di un oscuro crepaccio vasto quanto il Grand Canyon… Piccole creature, dalle multiple braccia planano nei pressi delle pareti di roccia dalla rada vegetazione, alla ricerca di un luogo tranquillo presso cui poggiare il proprio corpo sferoidale. O come preferiscono chiamarlo gli scienziati, il mantello, sacca in cui trovano collocazione tutti gli organi principali, tra cui occhi, bocca, stomaco, osphradium, nefridiopori e gonopori. Soltanto uno di questi esseri dal colorito rosa pallido parrebbe totalmente immobile, facendo pensare per un breve momento che possa essere passato a miglior vita. Ma la telecamera direzionabile, montata sul vascello radiocomandato inviato fin qui dagli umani, non ci mette molto a cogliere un leggero movimento, il guizzo laterale del suo sguardo, che indica uno stato intenzionalmente letargico, benché attento a ciò che accade tutto attorno a lui/lei. E con ottima ragione, si può ben capirlo, quando da un’angolazione laterale si capisce finalmente cosa stia facendo. Sotto quei tentacoli, semi-nascosto dallo sguardo dei suoi molti nemici, c’è il più notevole ammasso di 165 uova candide, un’intera prossima generazione. Scattate le opportune foto, registrato un dettagliato video, la sonda tecnologica decide quindi di fare ritorno da dove è venuta. Soltanto molti mesi dopo, ritornando nello stesso luogo, avrà modo di scorgere una scena sostanzialmente immutata, tranne per la madre un po’ più pallida, e le uova leggermente più grandi. E così di nuovo, a distanza di anni, fino alla nascita tanto lungamente attesa di quel mondo così lontano…
Negli studi antecedenti all’anno duemila della specie di polpo abissale Graneledone boreopacifica, gli oceanografi ebbero perciò un’occasione di restare perplessi particolarmente duratura nel tempo: in quale modo tale cefalopode della grandezza non maggiore ai 9-10 cm poteva riuscire a mettere al mondo, in effetti, figli già grandi oltre un terzo della sua misura complessiva e perfettamente capaci di sopravvivere in solitudine? Sistema niente meno che necessario, visto l’infelice destino di colei che si occupava di metterli al mondo, per la programmazione genetica ad autodistruggersi nel momento stesso in cui la sua missione riproduttiva avrà finalmente raggiunto il coronamento. Una caratteristica apprezzabile in varie misure per molte specie di polpo, ma particolarmente degna di nota in questa piccola specie predatoria, che si riteneva tra l’altro vivere per un periodo di tempo di poco superiore ad un anno. Questo almeno, finché una serie di spedizioni esplorative guidata dal Prof. Bruce H. Robison dello MBARI (L’Istituto di Ricerca dell’Acquario di Monterey) non raggiunsero le profondità della profonda fessura omonima a largo della costa californiana, per scorgere un qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la percezione di questo notevole animale abissale. Una visione progressivamente sempre più sorprendente, nonché memorabile, ogni volta che si dimostrava capace di estendersi nel tempo presso quella scoscesa formazione a circa 1.400 metri di profondità. Al punto che l’unico modo possibile per narrarla, tra i diversi approcci disponibili, diventa elencare semplicemente i fatti con la modalità e nell’ordine in cui sono stati annotati dalla scienza. Così la piccola madre, diventata geneticamente incapace di nutrirsi per l’intrinseca predisposizione che si ritiene concepita al fine di evitare il sovrappopolamento a vantaggio delle nuove leve, continuava non soltanto a sopravvivere, bensì fare fedelmente la guardia alle sue uova senza mai raggiungere il limite ultimo del proprio resiliente organismo. Fino al giorno in cui lo sguardo delle telecamere non si trovò a riprendere una parete rimasta ormai disabitata, con soltanto le uova schiuse ed ormai prive dei propri occupanti a offrire l’evidente prova di non aver sbagliato direzione. Soltanto che, a quel punto, era ormai trascorso un periodo trascurabile di “appena” 52 mesi!

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