Viaggio fantastico nel regno della neve giapponese

L’avete visto, assai probabilmente, in occasione di un qualche servizio televisivo sull’efficienza dei paesi stranieri nell’amministrare la viabilità in condizioni ambientali estreme: “Loro si…” avrà esordito l’opinione tipica del senso comune, generalmente seguita da un parternalistico: “Non certo come noi, per cui quattro fiocchi bastano a…” E via d’immagini incredibili, con muraglie candide alte quanto un edificio di tre  o quattro piani, ordinatamente accatastate a lato di una strada limpida e perfetta. Sulla quale, come niente fosse, avanzano persone ed automezzi. Ma chi ha fatto, esattamente, questa cosa? E soprattutto, perché mai? Di certo, dovrà trattarsi di un importante snodo di collegamento, in qualche paese del remoto Nord soggetto a gelide temperature per l’intero ciclo stagionale… Ecco, almeno nel caso mostrato qui sopra, tutto l’opposto: siamo effettivamente (solo?) in Giappone, e neanche nella parte più settentrionale del paese. Bensì a mezza altezza, con una latitudine grossomodo paragonabile a quella della Sicilia. Per comprendere davvero ciò di cui si tratta, sarà meglio assumere una prospettiva d’insieme. Ma soltanto leggendo l’articolo fino alla fine, troverete la risposta per l’implicita domanda.
Il viaggiatore in bilico sul mare di nebbia, le braccia lungo i fianchi, lo zaino moderno in tela tecnica e un cappello con i paraorecchi, per farsi scudo dal gelo attanagliante sopra una vetta che potrebbe essere considerata, senza alcun eccesso di zelo, uno dei tetti più elevati dell’intero arcipelago degli Dei. Il Tateyama (立山) o monte Tate, o ancora meglio come molti amano chiamarlo con suprema espressione di ridondanza, il monte, Monte Tate (山 – yama già bastava a definirlo tale). Col vento che lo insidia da ogni lato, eliminando dalla mente l’ultimo residuo dei pensieri. Anche questa è meditazione. Soprattutto questo, rappresenta l’Illuminazione. Finché guardando verso il basso, finalmente coscienti della propria pressoché totale assenza di significato nello schema generale delle cose, non si torni coi ricordi a quanto risulta essere fin troppo noto, perché scritto a lettere di fuoco nella storia di questa stessa regione del pensiero, la prefettura di Toyama: che prima che tu, uomo comune, potessi giungere in un luogo simile, sulla vetta di un tale colosso con pratico bus, vettura ferroviaria e infine funivia, davvero molto è andato perso. O per essere più specifici, soggetto alle ragioni e la logica del sacrificio. Dall’Universo, la natura e soprattutto la nazione, in quantità specifica di 171 coraggiosi uomini e donne, deceduti in un lungo periodo di 10 anni prima che il miracolo giungesse a compimento. Sto parlando della diga idroelettrica da 51 miliardi di yen, portata a termine nel 1963, pensata per fornire alcuni degli strumenti più importanti a liberarsi dal peso residuo di una guerra ingiusta. La più alta, ed imponente struttura idroelettrica del paese, costruita come spesso capita, in uno dei luoghi più remoti del paese. Nome: Kurobe Dam. Avete mai pensato al dispendio di mezzi ed energie necessarie affinché una muraglia di cemento alta 186 metri, e larga 492, possa ergersi nel mezzo di un remoto paesaggio montano, con l’unico supporto logistico di una piccola ferrovia locale? Impensabile, ridicolo, del tutto inappropriato. Finché a qualcuno, tra le più insigni menti associate al progetto, non venne in mente di scavare un tunnel lungo 5 Km e mezzo, nel cuore stesso di una delle tre vette sacre ai suddetti sommi kami (神- Dei) assieme al monte, Monte Fuji (富士) e al monte, Monte Haku (白) sufficientemente largo da farci passare interi camion carichi di materiali, ruspe, bulldozer… Un simile punto di rottura col passato, a conti fatti, non poteva che creare ottime opportunità. O così dovette aver pensato proprio Muneyoshi Saeki, il capo della neonata azienda Tateyama 立山 Kurobe 黒部 Kankō 貫光 (立山 – la montagna 黒部 – spazio/tempo 貫光 – spazio esterno) forse proprio il primo fra i viaggiatori a sperimentare l’emozione del mare di nebbia. E che indicando con la mano tesa verso l’infinito, avrà esclamato qualcosa sulla linea di: “Un giorno, un simile spettacolo dovrà appartenere al mondo intero.”
Ora, trasformare un ripido recesso come questo in una strada attiva tutto l’anno, sostanzialmente, sarebbe stato impossibile. Anche andarci vicino, tuttavia, è qualcosa di semplicemente incredibile a vedersi. Le strade collocate prima e dopo il tunnel furono ampliate e sottoposte a prolungamento, affinché giungessero fino alla città omonima di Tateyama (26.000 abitanti). E dall’altra parte, riuscissero a raggiungere la periferia di Ōmachi (27.000 anime). Quindi, si prese pienamente coscienza di un fatto solamente in parte inaspettato: che qualsiasi parvenza di strada potesse essere costruita dai più abili ingegneri del Giappone, sarebbe stata sepolta, per circa 10 mesi l’anno, da una quantità variabile di circa 20 metri di neve. Un bel problema, vero?

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Lo Zen e l’arte dei camionisti giapponesi

Per chi siede negli spazi interstiziali del gigante di cemento fuso con la spina dorsale del mondo, sembra incredibile che Tokyo, la megalopoli, possa avere dei confini. Soltanto per qualcuno, i pochi fortunati che posseggono un veicolo a motore omologato secondo le stringenti norme giapponesi, il velo dell’illusione può essere dissolto con un sottovalutato gesto: mettersi all’inizio di una strada, poi percorrerla fino a metà. Per trovarsi ad aspettare, seduti presso un’area di servizio, con la sicurezza che il momento presto avrà realizzazione. Ovvero che la stella luminosa del mattino, il Sole infuocato dell’avvenire, la cometa di Halley in 16 gomme di gomma vulcanizzata, si paleseranno, l’una dopo l’altro, irradiando con la loro luce variopinta il senso ed il significato di un’intera professione. L’ora si fa tarda, si palesa l’ora del tramonto. Oltre la curvatura dell’orizzonte, sulla via che un tempo fu dell’epocale Tokaido, quattro luci azzurre spuntano dalla linea terminale del suolo. Seguite da una striscia di neon variopinti, due sbarre fluorescenti, una cabina di comando. Quindi la più straordinaria mutazione catartica di un parafango, con luci LED che esclamano nell’alfabeto sillabico hiragana: 神風, Kamikaze. Il Vento Divino. Non inteso come un richiamo nostalgico alla triste fine di una guerra dello scorso secolo. Non soltanto quello. Bensì nella visione shintoista d’incarnare il senso ed il significato del viaggio, la raison d’être stessa di un particolare stile di vita, che assume il nome auto-esplicativo di デコトラ- dekotora, da DECO-ration Torakku (la strana pronuncia alla giapponese del termine in lingua inglese Truck, camion). Un termine entrato nel linguaggio comune sopratutto a seguito dell’inclusione in catalogo da parte della Aoshima Bunka Kyozai, compagnia produttrice di macchinine in stile Hot Wheels, che iniziò a proporne dei modelli personalizzabili con adesivi inclusi nella confezione.
Parte prima: Fiori di Ciliegio. L’arte di decorare un veicolo stradale da trasporto ha origine proprio nel Giappone del secondo dopoguerra, quando le prime avvisaglie del boom economico causarono la nascita di un nuovo settore dei trasporti privati, con agenti indipendenti in grado di permettersi l’acquisto, ed il mantenimento, di un veicolo che fosse solamente loro. Secondo le cronache del modernismo, i primi camion con qualche timida luce, dipinti aerografati e slogan ebbero l’origine nel Nord del paese, su influenza della cultura delle gang giovanili dei bōsōzoku – 暴走族, le “tribù della velocità sfrenata” che si ribellavano all’anonimato della civiltà guidata da stringenti norme sociali, con comportamento da teppisti, abbigliamento di stile marcatamente statunitense e modifiche esteriori alle loro motociclette, tanto estreme ed improbabili, che in qualsiasi altro luogo del mondo sarebbero state interpretate come una marcata inclinazione all’autoironia. Ma la leggenda dei dekotora ebbe l’origine, in effetti, da un qualcosa di molto più specifico e precisamente individuabile: una serie di 10 film, realizzati tra il 1975 ed il 1979 dalla mega-compagnia dell’entertainment Toei, dal titolo estremamente semplice: Torakku Yarō (ラック野郎) “I Camionisti”. Si trattava, essenzialmente, di una versione nipponica del cinema americano d’exploitation di quegli anni, con allusioni anche esplicite a sesso e violenza, azione cruda non-stop e una vena comica neppure tanto nascosta, che riuscì a conquistare la passione di coloro che un tale mestiere lo svolgevano realmente. E che ben presto, in determinati circoli, decisero che avrebbero investito parte del guadagno con finalità di rendere, per quanto possibile, le loro case su ruote simili al fulmine fluorescente di Momojiro Hoshi detto Ichibanboshi (la prima stella, con mutazione della sillaba iniziale dal termine hoshi) l’eroe in fuga da una legge ingiusta tramite infinite e sregolate peripezie. C’è del resto un grande fascino per l’inclinazione della mente umana, nel vedere costantemente il risultato del proprio lavoro. E investire sull’acquisto di luci, decorazioni ed improbabili body-kit per la propria motrice, piuttosto che tentare d’incrementarne le prestazioni e l’efficienza dei consumi, la dice molto lunga su quali fossero le priorità di questi uomini, determinati a lasciare un’impronta chiara ed indelebile nella memoria dei connazionali su strada. Quello fu l’inizio, e la nascita di uno stile che ancora viene definito dei dekotora classici, non molto più avanzati, sostanzialmente, di alcune meraviglie che tutt’ora si possono incontrare sulle strade statunitensi, napoletane o pakistane. Ma con l’inizio della decade immediatamente successiva, il Giappone stava andando incontro ad una mutazione sostanziale dei princìpi estetici considerati sufficientemente “eccessivi”. E mentre le prime ragazze iniziavano a percorrere le strade dei quartieri di Harajuku e Shibuya con le più folli mutazioni variopinte di quello che potesse definirsi un abito, i trasportatori tra una lunga missione e l’altra si sdraiavano sul divano di casa, per assistere all’ennesimo episodio di una nuova ed importante Fad generazionale. Tobe! GANDAMU, si udiva pronunciare gli altoparlanti della TV, durante la sigla dalla voce stentorea ed impostata – “Vola! Gundam…” Era la nascita di una nuova forma d’intrattenimento che avrebbe avuto a conti fatti, un’inaspettato ma profondo effetto sullo stile dei camion dekotora.

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Come spedire un secchio da 28.000 tonnellate

Negli ultimi anni trasformati dalla cultura del commercio digitale, abbiamo ordinato per posta veramente di tutto. Abbiamo ordinato libri, film e dischi musicali. Abbiamo ordinato anche cose più grandi, come oggetti tecnologici, scarpe, borse e giacche del completo. Talvolta, in un impeto di stravaganza logistica, abbiamo ordinato addirittura un mobile da ufficio o l’ultimo modello di sedia rotante. Ed in ciascuna di queste occasioni, facendo affidamento sulla metodologia comprovata, il valido furgone, l’abilità e l’intento di portare a termine il lavoro, l’uomo del corriere è giunto fino a casa nostra, senza esitazioni o fisime di sorta, la servizio del concetto quasi sacro della sua missione (nonché la relativa commissione). Certo. Che cosa ci voleva, dopo tutto? Non abbiamo mai pensato di ordinare un edificio. Galleggiante, ultra-moderno, dotato di caratteristiche così particolari che, nell’intero mondo conosciuto, poteva esserci un solo ed unico paese in grado di produrlo senza fare fuori ogni risparmio precedentemente accumulato. La Cina, chi altro… Il che non sarebbe stato certo un problema, se colui che ha scelto di comprarlo è sito in Corea, Giappone o le isole dell’Indonesia. E neppure un grande ostacolo, se avessimo parlato dell’Australia, paese distante in linea d’aria ma separato da un’unico gran braccio di alto mare dalla splendida città di Shangai. Può invece diventare un’avventura, se il fantomatico acquirente è sito a ridosso dell’Atlantico, costringendo il grande pacco a percorrere per nave l’intero Oceano Indiano, fino in vista delle coste del Madagascar, e poi sotto il Capo di Buona Speranza, tra lo sguardo fisso dei pinguini, per risalire l’Africa, l’Europa, e infine attraversar la Manica, fino alle coste occidentali dell’isola di Gran Bretagna. 45 lunghi giorni, un mese e mezzo di traversata, durante la quale un’intera compagnia, la DANA Petroleum, potrà dare gli ultimi tocchi strategici al suo progetto lungamente atteso dello Sviluppo delle Isole Occidentali, per lo sfruttamento di due giacimenti di petrolio siti a circa 160 Km dall’arcipelago delle Shetland, carichi di un’indeterminata quantità di preziosissimi idrocarburi. Vero punto di svolta della compagnia, nonché il coronamento di un periodo preparatorio che va avanti dal 2012, anno in cui il governo inglese concesse l’importante appalto, nella speranza di dare un impulso all’economia della regione. E ne sono successe di cose, da allora…
Ora, a tutti coloro che volessero sapere esattamente di cosa si tratta, e non vedo come resistere a una simile curiosità, dirò che il giganteggiante oggetto cilindrico che vediamo nel video è un moderno tipo di FPSO (Floating Production Storage and Offloading Unit – Unità galleggiante di produzione, stoccaggio e scarico) per l’industria dell’estrazione delle risorse, dalla forma cilindrica, costruito secondo le nuove dottrine produttive inaugurate negli scorsi anni dalla compagnia norvegese Sevan, che ha scoperto, grazie all’esperienza decennale, che la forma ideale per un simile dispositivo era proprio quella di un secchiello, invece che una nave. La principale ragione a seguire: in questo modo, una volta ancorata nella sua regione operativa, la struttura non dovrà più contrastare la forza del vento ruotando in senso contrario, affidandosi all’impiego di un complesso e costosissimo (circa 200 milioni di dollari, per essere precisi) sistema di ancoraggio a torretta. Semplificazione. Efficienza. Massima affidabilità. C’è ben poco da ridere, in tutto questo. Benché la scena, se vogliamo, abbia un quantum di surrealismo che risulta assai difficile da trascurare. Probabilmente a causa dei colori vivaci, scelti per massimizzare la visibilità in mare, m anche per le proporzioni tozze e che in qualche modo ricordano un giocattolo, l’incredibile oggetto tende a suscitare l’istintivo accenno di un sorriso. E non abbiamo ancora discusso la parte migliore: sapete come farà, il cantiere navale di Shangai responsabile per la sua costruzione COSCO, a spedirlo fin quaggiù? Caricandolo sopra una nave, ovviamente. La più grande… Di tutta… La Cina!

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Il disastro che rivoluzionò i finestrini degli aerei

Al giorno d’oggi, restare coinvolti in un disastro aereo viene considerato tra i peggiori scherzi del destino immaginabili, una contingenza imprevedibile completamente al di fuori del controllo umano. Fino ad un tal punto, si è riusciti a perfezionare un metodo progettuale che possa dirsi continuativo nel suo produrre velivoli efficienti ad affidabili. Tanto che facendo la media sul numero degli incidenti annui, non più di un volo ogni 10.000 sperimenta guasti realmente degni di essere chiamati tali, mentre la maggior parte delle vittime avvengono su aerei piccoli di utilizzo per lo più privato. La vera ragione di tutto questo non è da ricercarsi unicamente nel campo dell’ingegneria: altrettanto importante, per minimizzare il verificarsi d’imprevisti, è stata la creazione di un metodo di accertamento delle cause determinanti, questione tutt’altro che semplice nella maggior parte dei casi. La prevenzione è molto importante. Ma ogni qualvolta essa dovesse venire meno, diventa primario correggere il tiro dei propri progetti, affinché conseguenze deleterie non possano più abbattersi su coloro che non hanno alcun tipo di colpa. Gente come i 426 uomini e donne che diedero la vita negli anni ’50 precipitando dai cieli di Karachi, Calcutta, Stromboli e l’Isola d’Elba, al fine raggiungere una conclusione fondamentale quanto, stranamente, del tutto inaspettata. Che i finestrini degli aerei non potevano essere quadrati.
Era il sogno finalmente realizzato di Geoffrey de Havilland (1882-1965) aviatore ed industriale di Londra che aveva vissuto gli anni della propria gioventù in corrispondenza con l’invenzione ed il progressivo sviluppo del volo a motore, per poi fare la sua fortuna proprio nell’ambito dei primi voli commerciali e successivamente, militari. Finché nel 1941 non entrò a far parte di un gruppo di studio finanziato dal governo inglese, per la progettazione degli aeromobili che sarebbero stati usati dai civili al termine della seconda guerra mondiale. E fu nel contesto di un simile comitato, che egli ebbe per la prima volta l’idea. Di un quadrimotore di linea ad ala bassa, che non fosse più spinto innanzi dal sistema delle eliche, bensì dalla prima e più semplice versione del motore a reazione, il turbogetto basato sul ciclo di Brayton-Joule. La costruzione da parte della sua azienda fu approvata quindi nel 1945, e i primi prototipi videro la luce ben tre anni dopo. Il de Havilland DH.106 Comet era una vera meraviglia della tecnologia moderna: più veloce, più silenzioso, più spazioso di qualsiasi altro aereo di linea si fosse visto prima di allora. Anche dal punto di vista della sicurezza, non vi era assolutamente nulla da eccepire: la maggiore spinta dle suo sistema di propulsione gli permetteva di godere di una fusoliera in lega di alluminio particolarmente spessa e resistente, con i singoli componenti uniti mediante un sistema di incollaggio che trova applicazione tutt’ora. Si trattava di un aereo, in linea di principio, del tutto indistruttibile. Che aveva un’altro aspetto del tutto innovativo: la pressurizzazione della cabina. Per la prima volta in un aereo sufficientemente grande da trasportare oltre un centinaio di persone. l’area di bordo proveniva esclusivamente da un impianto di ricircolazione, garantendo il massimo del comfort e permettendo di volare per tempi prolungati a quote notevolmente superiori. Ciò comportava uno stress maggiore per la fusoliera ma naturalmente, nulla che il mezzo di Havilland non potesse tollerare. Finché all’improvviso, non iniziarono i problemi. Nel 1952, un Comet di decollo da Roma non riuscì inspiegabilmente a prendere quota, finendo per subire gravi danni. Il 2 marzo del 1953, quindi, un’altro di questi aerei perse il controllo in condizioni simili e precipitò di fronte all’areoporto, di Karachi, in Pakistan, senza nessun superstite. Meno di un mese dopo, non troppo distante da Calcutta, un Comet incontrò delle turbolenze dovute ad un temporale, spezzandosi letteralmente a metà. A quel punto fu stabilita una commissione d’indagine, che in breve tempo arrivò all’unica possibile conclusione: in entrambi i fatali casi, la causa del disastro era stato un errore del pilota, che aveva tentato di adottare un assetto di volo troppo gravoso persino per la perfetta struttura di un simile velivolo pressoché privo di difetti. E ciò fu gravissimo: perché nel giro di pochi mesi, ci fu un nuovo incidente nel mezzo del Mar Mediterraneo, in prossimità dell’Isola d’Elba, con un altro volo decollato da Roma che cadde in mare. Di nuovo, nessun superstite. A quel punto era chiaro che le autorità internazionali avrebbero confinato a terra gli aerei, se la De Havilland non avesse fatto qualcosa, qualunque cosa per tentare di risolvere il problema. Si dimostrò, a quel punto, che il Comet era soggetto ad un’usura progressiva della fusoliera, che venne appositamente rinforzata in alcuni punti chiave. Si trattò di un intervento tardivo ma perfettamente realizzato, tanto che tutti si congratularono con se stessi per l’ottimo lavoro svolto. Finché l’8 aprile del 1954, un altro volo decollato da Napoli non cadde vicino a Stromboli. E a quel punto, nessuno seppe più cosa fare.

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