Il ventinovenne Yoshida Shoin, perfetta personificazione del guerriero erudito, sollevò il pennello dal lato sinistro del foglio rimirando il testo che aveva appena finito di apporvi: “L’amore dei genitori supera l’amore che abbiamo per i genitori. Come prenderanno la notizia di quest’oggi?” Quindi con la massima serietà e compostezza, si sollevò in piedi voltandosi all’indirizzo del suo carceriere. Yamada Asaemon, servitore dell’odiato Tairō, cancelliere supremo al servizio del governo shogunale. Di un grado simile al messo che rappresentando quella stessa figura, era stato inviato pochi anni prima a trattare con l’Imperatore a Kyoto, per ottenere il supporto della corte agli odiati trattati ineguali del commercio e scambi diplomatici tra il Giappone e le cinque principali potenze occidentali. Barbari dal primo all’ultimo, come sapevano i suoi giovani compagni ronin, samurai rimasti senza padrone in questo clima sociale e politico ormai privo di valori, che avevano fallito il proprio tentativo di assassinio, venendo imprigionati ai quattro angoli del paese. Poco prima che in quel delicato novembre del 1859, il bakufu o governo centrale decidesse di farne un esempio per tutti gli altri seguaci rivoluzionari del cosiddetto sonnō jōi (尊皇攘夷 – letteralmente: scacciare i barbari, riverire l’Imperatore) separando la sua testa dal collo e ponendo così fine alla vicenda di uno dei più influenti intellettuali della sua epoca, nonché servitore di medio livello del potente signore di Chōshū, dominio della regione occidentale del Chūgoku. Quindi Yoshida, ponendo un piede innanzi all’altro senza la benché minima esitazione, camminò eretto fino al cortile del castello di Edo, dove era stato posizionata un’alta piattaforma in legno di cedro. Sopra di essa, un tronco e la cesta, strumenti riconoscibili come niente meno che fondamentali per mettere in pratica la pena di morte per decapitazione. “Ne deduco che non mi verrà permesso di tagliarmi il ventre, amico mio…” Disse all’indirizzo del suo boia, con uno sguardo neutrale al boia e collega che, suo malgrado, non riuscì a contraccambiare. Con gesto apologetico, a quel punto Yamada estrasse e soppesò la katana. La luce dell’astro solare penetrava obliquamente tra gli alberi spogli, silenziosi testimoni della fine di un’Era.
Con il progressivo inasprirsi dei disordini sociali corrispondenti all’epoca che sarebbe successivamente passata alla storia come bakumatsu (幕末- fine del bakufu) la notizia della morte di Yoshida Shoin fece rapidamente il giro di quegli stessi circoli che il giovane insegnante aveva, nel corso degli ultimi anni, provveduto ad educare alla disobbedienza civile. Fino all’allora piccola città costiera di Kudamatsu, nell’odierna prefettura di Yamaguchi, che all’epoca costituiva una delle propaggini più esterne di quel territorio corrispondente ai domini di Satsuma e Chōshū, da cui stava per emergere una nuova classe dirigente sfavorevole all’eccessiva condivisione con l’Occidente. E dove lavorava in quegli anni, caso vuole, l’ultimo rappresentante in ordine di tempo della rinomata scuola di fabbri di Higo, Kukitsuna Fujiwara, famoso per la sua tecnica metallurgica priva d’eguali. Verso la fine dello stesso anno, in occasione della festa locale nel santuario di Hanaoka Hachimangu dedicato al kami (神 – Dio) shintoista della guerra, costui si ritrovò assieme a cinque giovani discepoli del credo del sonnō jōi, anch’essi fabbricanti di spade di una certa esperienza.
Il cui portavoce disse: “Maestro, in questa società rimasta priva di valori e che non conosce più il significato della vera pace, occorre un simbolo capace di allontanare ogni spirito ed essenza perversa. Una spada, la più grande che il paese abbia mai conosciuto prima di questo momento…” Il che potrebbe anche sembrare una scelta insolita di priorità, da un punto di vista contemporaneo, sebbene fosse tutt’altro che insolito in Giappone utilizzare l’arma simbolo della cavalleria come oggetto votivo o haja kensho (破邪顕正 – strumento in grado di scacciare il male). Così che l’idea piacque da subito all’abile costruttore, che iniziò a tracciare i presupposti del suo piano…
dal mondo
Così apre “The Valley”, surreale contributo alla geologia metropolitana d’Olanda
Largamente costruito nel corso dell’ultima decade sul modello di zone come quella parigina di La Defense, o Canary Wharf a Londra, il distretto finanziario di Amsterdam chiamato Zuidas (letteralmente: Asse Sud) è una di quelle prove tecniche di città del futuro, ricettacolo tangibile di ogni significativa innovazione in campo architettonico e della ricerca estetica compiuta ai margini di un nuovo edificio. Luoghi come la sede della banca ANB AMRO, la torre ITO o il centro commerciale WTC colpiscono senza emozionare in modo particolarmente profondo, per la maniera in cui si presentano come il convenzionale “cubo di vetro” del tutto ordinario in questa categoria di contesti, perfettamente idoneo come luogo di lavoro ma che difficilmente verrebbe entusiasticamente scelto come luogo abitativo per la propria famiglia. Per vedere tuttavia qualcosa di radicalmente nuovo, tutto ciò che occorre è spingersi più avanti sul viale intitolato al grande musicista Beethoven, verso l’aeroporto di Schipol, dove sorge qualcosa di completamente innovativo per forma, funzione e posizionamento logico all’interno di un’ideale gerarchia degli edifici. Di primo acchito simile ad un edificio bombardato da un Creeper all’interno del videogame Minecraft, piuttosto che il costrutto risultante congelato di una partita in corso d’opera nel popolare rompicapo digitale Tetris, l’ultima creazione dello studio di Rotterdam MVRDV rivela dopo pochi attimi tutta la sua insolita ed intollerabile magnificenza. Di tre torri, rispettivamente alte 67, 81 e 100 metri costruite per la compagnia di sviluppo edilizio EDGE, in cui ogni cosa sembra essere stata lasciata al caos, in un tripudio di forme interconnesse e sovrapposte, per lo meno oltre l’involucro esterno di una ragionevole e rassicurante facciata riflettente. Unica concessione quest’ultima, in effetti, a quello che convenzionalmente si ritiene essere un’edificio di simili proporzioni.
Laddove la sua parte interna, discontinua e frastagliata, vorrebbe dichiaratamente ricordare la versione altamente stilizzata e quasi cubista di una formazione rocciosa naturale, complici anche le facciate dall’anonima tonalità color crema, nell’idea dell’architetto principale e portavoce del progetto Winy Maas, famoso sostenitore del moderno concetto di nuove città sostenibili e palazzi capaci di smaltire una quantità pari o superiore dell’anidride carbonica impiegata dai loro impianti d’energia inerenti. Così come appare l’appositamente denominata “The Valley”, nell’idea di partenza un vero e proprio bosco verticale ornato da molteplici giardini e piante, attentamente scelte in base all’esposizione nei confronti della luce solare nell’intricato dedalo di balconi ed elementi architettonici a sbalzo. Un risultato largamente perseguibile grazie al significativo apporto degli strumenti digitali e simulativi impiegati dallo studio in fase progettuale, non meno indispensabili per creare l’inventario dell’elevato numero di componenti realizzati su misura e materiali specifici utilizzati per dare una forma al surreale miraggio urbano. Una chiara dimostrazione di quello che parrebbe essere diventata oggi l’architettura di più alto profilo, sebbene come spesso capiti ai margini di simili creazioni d’avanguardia, le opinioni dei commentatori possano divergere con enfasi particolarmente intensa…
L’enorme serpe cosmica dei primi costruttori di geoglifi americani
Serpe, serpe delle mie brame, puoi dirmi qual è il destino del reame? Ove soggiace l’implacabile speme? Sotto il pietrame ed ogni traccia di legname, ove potemmo sacrificare il bestiame… A ridosso del possente fiume. Così chinandosi, la testa parallela al suolo, gli occhi spalancati ed ogni aspetto della propria postura configurata in quell’atteggiamento che taluni erano soliti chiamare “stupore e tremori” gli anziani e i capi del villaggio si approcciarono al sito sacro non troppo distante dalla valle del Mississippi. Dove l’antica stella era caduta, lasciando tracce chiare della sua imponenza, tali da rialzare i bordi di un cratere ma anche dare forma a un altopiano centrale. Il luogo ideale, tra tutti, per raffigurare l’immagine suprema di un’oscura divinità. Non un geco e neanche una tartaruga, i due rettili impiegati come talismani dalle madri, rispettivamente dedicati a un figlio maschio ed una figlia femmina, bensì quell’essere spiraleggiante ai primissimi confini della Creazione. Che divorando per la prima volta l’uovo cosmico, diede la possibilità alle genti della Terra di tentare l’estensione della propria fortuna. Le genti della cultura di Fort Ancient avevano del resto una profonda capacità d’osservazione del paesaggio, le creature e lo scenario sempre ripetuto dell’irraggiungibile volta celeste. Tale da notare, ogni volta in cui se ne presentava l’opportunità, l’occorrenza di fenomeni imprevisti come il timido bagliore di una supernova o l’arco disegnato dal passaggio di una cometa. Entrambi eventi verificatosi a soli 16 anni di distanza a partire dal 1070 d.C, quando secondo molti studiosi potrebbe essersi verificato l’importante evento capace di dare i natali ad uno dei luoghi maggiormente memorabili dello stato dell’Ohio e potenzialmente gli interi Stati Uniti.
Situato al giorno d’oggi non lontano dal lago di Rice nella contea di Peterborough in corrispondenza di un antico astrobleme (luogo d’impatto meteoritico) il Grande Tumulo del Serpente si presenta come una sostanziale opera in rilievo di terra e pietra della lunghezza di 411 metri, raffigurante una creatura longilinea e priva di zampe dalla coda attorcigliata in un’ipnotica spirale. E la sua testa nell’opposta estremità, con le fauci totalmente spalancate, intenta nelle prime battute della laboriosa fagocitazione di un’imponente oggetto ellittico, probabilmente il guscio aviario di un futuro e sfortunato pulcino. Creazione compatibile con la reputazione di questa cultura sofisticata, capace di creare opere di terracotta complesse ed operare la lavorazione del rame, ma soprattutto costruire un’ampia e diversificata quantità di monumenti funebri, spesso costituiti da edifici in pietra ricoperti di terra che a sua volta dovrà sorreggere un ulteriore edificio, a distanza di generazioni ricoperto da altra terra e così via a seguire. In una sorta di celebrazione ricorsiva dei propri preziosissimi antenati, benché la finalità ed aspetto del tumulo in questione sembrerebbe aver posseduto un significato e funzionalità nettamente distinte…
Non è un groviglio di capelli, ma bionda lava che si solidifica sui pendii hawaiani
La leggenda metropolitana, se così possiamo chiamarla, ha uno svolgimento simile al grande classico dell’autostoppista fantasma: un guidatore lungo strade periferiche, fermando la sua auto a causa di una sorta di premonizione, incontra la figura di una giovane donna che gli chiede un passaggio. Poco dopo averla invitata a bordo, ed avendo iniziato nuovamente a muoversi, ella pronuncia quindi le seguenti parole: “Mahalo nui loa mio vulnerabile amico, questa gentilezza ci onora entrambi. Per meglio ricambiare il tuo gesto, ti avviso: prendi la tua famiglia e scappa verso il mare. La grande montagna sta per risvegliarsi. Fiumi di fuoco si riverseranno verso i villaggi degli umani!” Appena il tempo di elaborare la notizia e voltarsi a chiedere dei chiarimenti, al concludersi di una curva, che lei sarà del tutto scomparsa dal sedile del passeggero. Meno di 24 ore dopo, tutto il mondo parlerà di nuovo della complicata condizione geologica hawaiana. Certo, vivere nel mezzo del Pacifico ha i suoi vantaggi: una terra fertile, un clima ragionevolmente mite (la maggior parte delle volte) la notevole distanza da ogni tipo di conflitto o mire di anziane superpotenze in cerca di espansione territoriale. Ma c’è da interrogarsi, con cadenza ragionevolmente regolare, sui problemi inerenti che derivano dal trascorrere la propria esistenza sul confine esterno dell’anello geologicamente instabile, dove alcuni dei coni vulcanici più attivi in tutto l’emisfero svettano ed incombono sopra la testa delle pacifiche genti isolane. Monti come il Kilauea ove risiederebbe, in base all’antico leggendario locale, la figura sovrumana della Dea Pele, antropomorfa personificazione di ogni cosa che erutti lapilli, lasci sgorgare copiosi fiumi di roccia liquefatta ed occasionalmente esploda, in luoghi sottoposti a situazioni critiche da eccessive generazioni. Che non è certamente il caso di questo arcipelago, dove il verificarsi di tali episodi risulta essere abbastanza frequente da aver dato un volto e un nome al rischio, tutt’ora connotato in modo sovrannaturale nonostante l’accantonamento delle antiche religioni. Eppure, nonostante i molti avvistamenti, sussiste allo stato attuale un certo grado d’incertezza in merito all’aspetto dell’incendiaria divina, un po’ come nel fiabesco caso del mago di Oz; particolarmente per quanto concerne il colore dei suoi capelli, che alcuni riportano essere neri, altri rossi o persino di un’improbabile tonalità vermiglia. Con pacifica esclusione a priori del colore biondo, forse giudicato troppo aggraziato per una tale primordiale devastatrice, il che in effetti appare come discordante rispetto alla tangibile evidenza delle circostanze. Laddove l’esiziale “chioma di Pele” in campo folkloristico e geologico, costituisce l’espressione riferita per antonomasia a una specifica formazione di vetro vulcanico, estruso ed affilato al punto da riuscire a presentarsi come un’affilato cumulo di fibre ingarbugliate tra di loro. Abbastanza lievi da essere portate in alto dal vento, depositandosi sopra i rami degli alberi, i balconi delle case, i pali della luce… Un po’ sfidando, e al tempo stesso allettando, la naturale propensione della gente a mettere le proprie mani sulle cose scintillanti. Con gravi ed immediate conseguenze del tutto paragonabili a quelle di un sacrilegio…