Un singolare contributo giroscopico al sogno dell’auto volante

Nel mondo della tecnologia moderna gli eventi si susseguono rapidamente, al punto che talvolta non è facile comprendere se chi promette l’astro lunare abbia una base solida per le proprie ambizioni, piuttosto che l’intento di comunicare il sogno della pipa, ovvero la chimera di un futuro meno prossimo di quanto vorrebbe farci credere a vantaggio dei propri progetti aziendali e l’acquisizione di una fama che sconfini dal suo mero ambiente di partenza. Esistono però passaggi, a loro modo, necessariamente utili a fornire concretezza ad ogni nota della sinfonia dell’apparenza, come l’effettivo riconoscimento che deriva da una certificazione necessaria, per quanto preliminare e scevra d’ulteriori commenti. Soprattutto quando a fornirla, come nel caso specifico, è la Federal Aviation Administration (FAA) l’ente preposto a regolamentare l’utilizzo dei cieli statunitensi, ad opera di aerei, elicotteri e… Strane soluzioni ibride al problema di sfuggire alle catene della gravità terrestre. Così risale a tre giorni a questa parte la notizia del permesso speciale consegnato dall’ente suddetto alla compagnia californiana della Alef di Jim Dukhovny, cittadino di Palo Alto dalla discendenza ucraina, per il loro prossimo prototipo dell’EVTOL dal nome Model A, imminente evoluzione della già mostrata Model Z. Veicolo a decollo verticale elettrico (ciò significa la sigla) ma anche l’ultimo contributo all’annosa fissazione collettiva per qualcosa che tutti credono di desiderare, pur non disponendo di un’effettiva casistica d’impiego quotidiano: quel caposaldo della fantascienza, “l’automobile” capace di staccarsi dal suolo. Laddove l’utilizzo delle virgolette è d’obbligo, vista la somiglianza della maggior parte di questi veicoli ad aerei dotati di ruote, le ali ripiegate verso l’alto o all’indietro come quelle di una libellula ipertrofica con le scarpe da corsa. Fino ad ora: basta uno sguardo alla creazione in oggetto, per il momento nella forma di un semplice rendering in tre dimensioni, per realizzare di trovarci a tutti gli effetti innanzi ad un qualcosa di fondamentalmente diverso. Una “scocca” o struttura reticolare con funzione di carrozzeria, con forma niente affatto condizionata dalla sua doppia funzione. E la capacità di sollevarsi da qualsiasi luogo, senza la necessità di piste di decollo, eliporti o altre strutture designate nell’indistinto paesaggio urbano. Mediante l’effettiva realizzazione di quella che potremmo definire l’arte del Transformer, piuttosto che un vero e proprio gioco di prestigio. Di cui possiamo prender atto grazie ai video di presentazione, in cui l’oggetto volante formalmente identificato si solleva in senso verticale per poi ruotare su due assi fino a ritrovarsi perpendicolare ed orientato di taglio. Grazie alla cabina sferoidale stabilizzata e finendo per assomigliare, a tutti gli effetti, ad una sorta di bizzarro biplano privo di coda. Il cui atterraggio può avvenire col procedimento invertito, una volta che il pilota avrà deciso di poter tornare a fare uso dell’asfalto come qualsiasi altro essere umano. Grazie all’utilizzo di una serie di tecnologie che definire eclettica sarebbe, a conti fatti, un eufemismo…

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Il miglior autobus che corre sui “binari” di cemento australiani

L’oggetto dalla forma di un grande rettangolo continua a transitare lieve lungo il grigio viale del suo percorso. Veleggiando in discesa, nessuna mano utile a stabilizzare quel volante, che incredibilmente curva ed accompagna in automatico le svolte necessarie di volta in volta. Quando al suono di un momento pre-determinato, il conduttore influisce finalmente sugli eventi. Preme il freno e ferma la sua corsa, in corrispondenza dell’apposita pensilina. Uno dopo l’altro, i passeggeri scendono/salgono in base ai rispettivi bisogni. Quindi l’assolutamente insolita vettura circolare della piacevole città d’Adelaide, se veramente siamo inclini a definirla tale, accelera di nuovo verso le sue invariabili destinazioni a venire.
Inaspettata può essere la metodologia mediante cui, nei diversi luoghi e paesi del mondo, vengono affrontati gli stessi problemi facenti essenzialmente parte dell’imprescindibile condizione umana. Uno di questi: il trasporto pubblico urbano, strumento necessario a semplificare la logistica degli spostamenti casa-scuola-lavoro e verso qualsiasi altro tipo di destinazione in base alle volubili necessità delle persone. Il che significa che non può esserci alcun tipo d’esigenza superiore alle altre, nella realizzazione totalmente democratica di un servizio che possa dirsi effettivamente utile allo scopo predeterminato. Soltanto metodi configurati in base alle rispettive sfide contrapposte all’ottimale funzionamento. Così treni e metropolitane, dove il c’è la possibilità di costruirle. E per tutte le altre situazioni, il caro vecchio approccio del trasporto gommato. Autobus, in altri termini, grandi veicoli strutturalmente non dissimili da una versione sovradimensionata dell’automobile di proprietà dei privati. Ma una creatura come questa, nello stratificato ecosistema cittadino, non possiede inerenti vantaggi, presupposti di semplificazione, sistemi funzionale per poter dire di aver dato soddisfazione ad effettivi margini di ottimizzazione… Nella maggior parte dei casi. Così come avevano fatto notare, poco prima degli anni ’80, i sostenitori nel rilevante ministero del progetto per la costruzione di un sistema di tram leggeri su rotaie destinato a raggiungere la settentrionale King William Street, dall’allora ultimo terminal nel centro cittadino di Victoria Square. Ostacolati dai soliti detrattori, pronti a promettere battaglia qualora il suono del passaggio dei treni fosse risultato fastidioso per il proprio vulnerabile senso dell’udito. Dal che l’idea proposta dal nuovo ministro dei trasporti in Australia del Sud del 1980 Michael Wilson, che scelse di guardare con precipuo interesse verso il mondo agli antipodi, ed in modo particolare a una nuovissima tecnologia proveniente dalla Germania…

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La strategia dell’autostrada che avvicina il Cielo e la Terra per i viaggiatori cinesi

Un’idea fuori dal tempo ed oltre i limiti della consueta logica procedurale: rendere vicine, per quanto possibile, le temperate valli del bacino fluviale del Sichuan e gli altopiani tibetani, dove l’aria rarefatta s’interpone come unica barriera tra l’uomo e l’infinito. 240 Km di strada, che non sarebbero una cifra tanto eccezionale, se soltanto non passassero attraverso sei montagne con 25 tunnel, tre grandi fiumi, dodici zone di faglia sismica ed un dislivello nel complesso pari a quello di un sinuoso percorso verso cime perse tra nubi distanti. Ciò non basta ancora a impressionarvi? Allora, considerate questo. Prima del 1980, il trasporto di merci nell’entroterra avveniva primariamente tramite linee ferroviarie, e non era del tutto errato affermare che il paese fosse privo di un singolo chilometro di autostrade in senso contemporaneo. Ancora 7 anni dopo, un primo esempio di simili infrastrutture era stato completato tra Shanghai e Pechino, impiegando prestiti considerevoli da parte della Banca Mondiale. Ma sembrava che la modernizzazione del sistema stradale fosse destinata a procedere a rilento. Almeno finché il 13 gennaio del 2005, il Ministero dei Trasporti annunciò il suo piano “7918” per una griglia di 7 sentieri asfaltati destinati a diramarsi dalla capitale, 9 in direzione nord-sud e 18 est-ovest da completarsi entro il 2030. Ma ciò non fu giudicato essere ancora abbastanza, con il passaggio entro il primo quinquennio al progetto revisionato dal numero identificativo aumentato a “71118” (per undici strade appartenenti alla seconda categoria). Una di queste, alquanto inaspettatamente, avrebbe finito per attrarre l’attenzione, ed in una certa misura l’invidia, degli ingegneri civili di mezzo mondo. Poiché si potrebbe tranquillamente affermare, senza distanziarsi troppo dalla verità, che il lavoro completato nel 2018 per questo particolare e lungo tratto della Pechino-Kunming attraverso la significativa catena montuosa di Hengduan, soprannominato per l’appunto autostrada Yaxi/Tianla o Sky Road costituisca qualcosa di assolutamente unico al mondo. Eppure al tempo stesso, persino tale affermazione potrebbe costituire un parziale eufemismo. Di fronte alla constatazione della somiglianza, più che accidentale, di una parte significativa del percorso alla dislocazione pratica di una montagna russa, tra rampe, curve sopraelevate e soluzioni fortemente innovative, quali la dozzina di trafori montani con forma circolare ascendente, al fine di condurre i mezzi più pesanti fino in cima superando il problema pratico d’eccessive pendenze. Mentre in altri casi, le particolari soluzioni adottate paiono parte di una precisa ricerca estetica, laddove forma originale e funzione risultano effettivamente coincidenti per l’effettiva e comprovata distanza del progetto, da qualsivoglia metodologia consueta dalle comparabili circostanze. Ed è forse proprio questa, tra le molte apprezzabili caratteristiche di una simile modifica del paesaggio, a renderla maggiormente accettabile anche da parte di chi ama preservare le cose com’erano in origine. Benché resti facilmente immaginabile il modo in cui, negli anni, le proteste degli ambientalisti debbano aver richiesto più di un innalzamento sistematico del ben noto e raramente fallibile grande firewall cinese…

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In Spagna il ponte più ambizioso costruito prima dell’ingegneria contemporanea

Per gli uccelli migratori che utilizzano il fiume Guadalevín come ausilio alla navigazione verso il centro d’Europa, si presenta a un certo punto la necessità di una scelta. Per un ostacolo che sorge, imponente, lungo il corso di quel cammino: si tratta del tajo di Ronda, una gola profonda 120 metri il cui superamento tende a prevedere, in circostanze normali, l’imbocco dell’angusto spazio con le ali dispiegate al fine di stabilizzarsi, gli occhi intenti a giudicare la distanza delle due pareti mentre si procede fino al termine della spelonca. Il che pur permettendo di risparmiare una considerevole quantità d’energia, evitando di librarsi sopra quel prodotto dell’erosione millenaria andalusa, appare insolito a chi si troverà a guardarli dall’alto. Perché c’è un’intera cittadina, sulle elevate sponde, e un angusto ponte con l’arcata massima di appena 15 metri che agisce come una porta verso il centro del canale profondo. Ed automobili che marciano, chiassose, sopra il grido dei gabbiani indefessi.
Come c’era stato per sei anni, a dire il vero, fino a quel fatale giorno nel 1741, quando il peso di 50 persone situate in tale punto di passaggio innaturale, non causò il crollo dell’arcata, con conseguente e inevitabile perdita delle loro vite. Un punto di svolta per la storia di qualsiasi cittadina rinascimentale, costoso non soltanto in termini sociali ma produttivi, organizzativi e relativi al corpo principale delle conoscenze ereditarie e artigiane. Benché scegliendo di non perdersi d’animo, il paese suddiviso in parti eguali dal burrone scelse allora di creare l’impensabile: un secondo, questa volta indistruttibile ponte nello stesso sito. Che si sarebbe dimostrato in grado di sopravvivere, allo stato attuale, al passaggio dei tre secoli successivi. Impresa degna di richiedere, fu ben presto compreso, l’investimento di fondi considerevoli, che furono stanziati prelevandoli dalle somme accantonate per la fiera prevista ogni anno per il mese di Maggio. Ci vollero ben 10 anni, fino all’inizio del 1751. Trascorsi i quali l’ordine di cavalleria della Real Maestranza, con sede in quel di Ronda, ritenne di esser pronto a chiamare per il progetto uno degli architetti più collaudati del paese, quel Martín de Aldehuela (1729-1802) che aveva recentemente completato la costruzione del complesso sistema di approvvigionamento idrico di Malaga, l’acquedotto di San Telmo. Il quale dopo una rapida presa di coscienza della situazione vigente, ideò la soluzione ideale per quello che avrebbe preso il nome imperituro di Puente Nuevo, un letterale doppio grattacielo costruito con la pietra prelevata dal fondo stesso del burrone antistante. Sotto ogni aspetto, la sovversione pratica di tutto quello che dovrebbe essere un tipico attraversamento fluviale, tradizionalmente concepito al fine di permettere il passaggio libero e privo di conseguenze delle acque periodicamente impetuose nel corso d’acqua sottostante. Ma pensato piuttosto per incapsularlo e coprirlo in maniera quanto meno parziale, con quelle che potrebbero essere le torri principali di una svettante fortezza risalente all’epoca medievale. Ed un arco centrale conseguente, con l’effettiva capacità di estendersi oltre uno spazio pari a metà del salto sottostante…

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