I sei Giganti del mondiale di yo-yo

Gormley yoyo
Se questo fosse soltanto un giocattolo, allora Raffaello avrebbe avuto un semplice pennello. Lo scalpello di Michelangelo sarebbe stato uno strumento come tutti gli altri. Il ritratto scultoreo di San Giovanni Evangelista, capolavoro di Donatello, niente più che una scultura tra le tante che decorano la facciata del duomo di Firenze. E gli studi scientifici di Leonardo, meri passatempi… Non a caso sul finir degli anni ’80, come fu narrato nelle saghe istoriche di anfibi con il guscio e mascherina colorata, quei grandi nomi ritrovavano una nuova fama, grazie all’opera e l’addestramento che gli fu fornito dal monumentale topo antropomorfo, il sommo maestro Splinter delle fogne di New York. Così avviene, a più riprese nella storia di qualsiasi arte, sia questa marziale, acrobatica o figurativa: che l’antico perde il suo significato, rinascendo nelle gesta di una nuova estatica generazione; come un lancio filosofico verso il terreno, che non perde quella rotazione al termine del filo, bensì torna indietro, ancor più ricco di connotazioni significative. Porgiamo i nostri onori, dunque, a questi sei vincitori dell’edizione 2015 del campionato mondiale di yo-yo, tenutosi alla Belle Salle Akihabara di Tokyo, dal 13 al 17 agosto: Zach Gormley, Shinji Saito, Hajime Miura, Naoto Onishi, Jake Elliott e la squadra dei SHAQLER. Appellativi, largamente poco conosciuti fuori dall’ambiente operativo, che nonostante questo fanno molto per portare il progresso in quello che sia lecito aspettarsi, come spettatori, da una disciplina tanto vecchia e molte volte trasformata. Che traeva la sua origine remota, come ben sappiamo grazie alle pitture giunte fino a noi, dalla Grecia di cinque secoli prima dell’anno zero, quando era l’usanza che i fanciulli, fino al raggiungimento della maggiore età, possedessero quel doppio disco fatto in terracotta, con un filo in mezzo, in grado di roteare prima di tornare al punto di partenza. Il quale veniva poi donato, finito il tempo delle mele e delle pere, sull’altare del nume sovrannaturale che sceglievano come divino protettore. Mentre molti anni dopo, in corrispondenza del nostro tardo Rinascimento, i resoconti dei mercanti provenienti dall’Olanda ci raccontano dei popoli dell’India e della Malesia, presso cui l’equivalente offensivo dell’oggetto in questione, con lame acuminate sul suo corpo vorticosamente tondeggiante, veniva impiegato per andare a caccia di piccoli uccelli, scimmie o mammiferi sfuggenti. C’era quindi sempre stata, quest’associazione tra il rocchetto acrobatico e il conflitto, il bisogno quotidiano di lasciare un segno sull’ambiente e sulla società.
Ma basta guardare questa esibizione del diciannovenne Zach Gormley, il campione della categoria 1A di quest’anno, che consiste nell’impiego di “Un singolo yo-yo legato al dito, per l’esecuzione di figure che richiedono la manipolazione del filo” per rendersi conto del punto remoto in cui siamo ormai giunti attraverso i secoli di perfezionamento. L’abilità che trova sfogo, nei quattro minuti dell’esibizione, in una serie interminabile di acrobazie, presentate col consueto stile lievemente recitato dell’atleta (acrobata? Giocoliere?) Proveniente dallo stato del Colorado, già trionfatore l’anno scorso del campionato nazionale del Pacific Northwest, nonché più volte scelto per rappresentare il suo paese in quella che è la categoria più popolare, e celebre, dell’arte multiforme di far mulinare uno yo-yo. Qui impegnato in quello che i giudici di gara hanno qualificato come il miglior exploit della sua carriera, fatto di sequenze stranamente lente e cadenzate, seguite da momenti adrenalinici di folli e sorprendenti rotazioni. Ma soprattutto memorabili risultano i momenti, tra l’uno e l’altro stile, in cui Zach interpone le sue mani lungo il tragitto del filo, costringendolo ad assumere forme contorte ed intrecciate. In più e più casi, lo show sembra raggiungere un punto di rottura, mentre quel groviglio, visibilmente annodato, viene osservato con finta perplessità dal suo dominatore, per poche, lunghissime frazioni di secondi. Quindi un rapido colpo di mano, qualche ostentata oscillazione che ricorda vagamente lo zombie di Michael Jackson in Thriller, bastano a rimettere in moto l’orbita del piccolo pianeta, trasformato nel pendolo delle assolute circostanze. La sensazione restituita agli spettatori è quella di un vero e proprio trionfo della mano umana sulla fisica, l’accrescimento della fantasia…Tanto meglio, dunque, se quello era soltanto l’inizio!

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L’artista della scala di fuoco nel cielo

Sky Ladder Cai Guo-Qiang

Il grande artista non è sempre, o necessariamente, un grande comunicatore. L’espressione del proprio stato d’animo secondo i metodi post-moderni e contemporanei è infatti talmente variegata e imprevedibile che, spesse volte, posti al cospetto di un’opera si tende a rimanere perplessi, finché l’approfondimento della vicenda umana dell’autore, o dell’ambiente in cui detta giustapposizione di concetti è stata implementata per la prima volta, non permettono di contestualizzare quanto si ha di fronte ai propri occhi. Tuttavia questo non va visto come un limite, bensì una chiara scelta di chi percorre questa via, fondata sul vuoto e il suo significato, l’universo e il nulla al tempo stesso. Un esempio? Quest’ultima creazione del celebre Cai Guo-Qiang, artista cinese ormai da lungo tempo residente a New York, che tra una mostra in senso classico ed un’altra è solito dedicarsi a quelli che lui definisce “eventi di esplosioni” sostanzialmente dei fantastici spettacoli di fuochi d’artificio. Non per niente fu proprio lui, di ritorno brevemente in patria, a dirigere personalmente uno dei momenti salienti dell’inaugurazione dei Giochi Olimpici del 2008 a Pechino, quando lo stadio nazionale a forma di nido d’uccello (niǎocháo) fu meravigliosamente illuminato dalle fiamme di girandole e maestosi girasoli, al termine di quello che potrebbe essere facilmente definito lo spettacolo di fuochi d’artificio più lungo ed elaborato della storia. Fummo in pochi, in un primo momento e soprattutto fin qui dall’Occidente, a comprendere le implicazioni logistiche di una tale battaglia fra gli Dei, e la capacità organizzativa che aveva richiesto quella catastrofe calcolata della polvere da sparo, attentamente disposta secondo metodi tradizionali e avveniristici, allo stesso tempo. Mentre che le doti di colui che seppe fare questo, dopo tanti anni, finalmente ricompaiono di nuovo innanzi all’opinione dei non addetti al settore, grazie a una creazione relativamente semplice nel suo concetto di partenza, eppure estremamente difficile da realizzare. Al punto che nessuno, a memoria d’uomo, c’era mai riuscito: ecco una scala, rossa e sfavillante, che si staglia perfettamente nitida, nel cielo in via di schiarimento dell’isola di Huiyu, presso la città della Cina del sudest Quanzhou, che Marco Polo aveva definito, nel suo Milione “Il porto più grande del mondo.” Funzione, questa del ricevere e diffondere le merci più o meno tangibili, che il centro abitato ha di nuovo svolto, grazie all’impiego da parte di alcuni degli spettatori dell’ormai irrinunciabile cellulare con videocamera, che ha permesso alla sequenza di approdare infine su YouTube. Dove sta spopolando in questi giorni, con un successo di visualizzazioni da parte del pubblico generalista senza precedenti, addirittura per questo autore con quasi 40 anni di carriera nel duplice campo dell’arte e dei fuochi d’artificio. La ragione va cercata innanzi tutto nel significato metaforico di un senso d’ottimismo facilmente comprensibile e condivisibile: il pensiero che deriva da un miraggio simile è l’accrescimento dello stato di coscienza a seguito della separazione tra corpo ed anima, con la stereotipica salita di quest’ultima oltre la remota stratosfera. E non a caso Cai Guo-Qiang ha scelto di dedicare l’impresa al raggiungimento dei 100 anni da parte di sua nonna, realizzando per di più la scena all’alba invece che al tramonto, per veicolare uno spirito e un messaggio di speranza. Ma la cosa che ha colpito maggiormente il grande pubblico, e come dargli torto, è il mistero della splendida realizzazione; come può il fuoco assumere una forma definita, come può sussistere una tale cosa? Il segreto risiedeva poco fuori dall’inquadratura…

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Due armature sui confini del cosplay

Astora Cosplay

L’eleganza del guerriero che permane in ogni luogo, persino tra le mura derelitte di un castello popolato dai non-morti, sopra i picchi più distanti della terra di Lordran. Era la giustapposizione a fondamento dell’intera atmosfera del gioco, questo improbabile contrasto tra il degrado delle anime perdute, dei loro luoghi e delle loro cose consumate dall’incedere del tempo, contro l’affascinante perfezione di certi personaggi, buoni o malevoli, in qualche modo lasciati integri dalla catastrofe narrata nell’introduzione. Dei, draghi, signori del Profondo che combattono tra loro, e poco dopo una simile catarsi il tipico inizio in medias res di questo genere di storie: tu nelle segrete, solo e disarmato sotto la botola distante, mentre una sagoma si staglia contro il cielo più che mai distante. Fieramente, per gettarti giù la chiave della cella. L’inizio di una fantastica avventura, oppure… Chi fosse effettivamente questo salvatore in abito d’acciaio, all’epoca dell’ormai storico Dark Souls del 2012, restò ignoto per parecchio tempo. Finché qualcuno molto tempo dopo, analizzando i file del gioco, non estrasse abusivamente un nome di lavoro: Oscar, cavaliere di Astora. Destinato purtroppo a soccombere fuori dall’inquadratura, nelle prime battute della fuga, combattendo contro il primo dei mostri di fine-livello, per poi cederti la chiave e la fiaschetta magica che ti avrebbe poi tenuto in vita. Ma soprattutto all’inizio non sapevamo, da principianti di un tale tour de force, che la sua essenza poteva essere salvata, in un certo senso. Perché in quel gioco, come in diversi altri giapponesi, vigeva la regola del “fare finta” – ovvero, senza un protagonista in alcun modo caratterizzato, il giocatore poteva proiettare se stesso al centro dell’azione, o se lo preferiva, uno qualsiasi dei diversi agenti di contorno. Incluso il primo degli NPC, successivamente alla sua morte; come? Ritrovandone l’armatura misteriosamente dislocata, nelle profondità del Bosco Nero, oltre la torre del possente Havel, correndo fra le schegge lanciate dei golem di ghiaccio. Per poi correre tra fuoco e fiamme, andando a salvare il mondo (di Lord Gwyn).
Così non c’è davvero un migliore soggetto, nell’opera di chi si veste per giocare a fare il personaggio dei VG, che assumere l’aspetto di un eroe possibile ma mai esistito, già nell’epica d’origine soltanto usato come impronta per lo stile di una sorta di cosplay. L’aspetto della cosiddetta “Armatura del cavaliere di elite” di Oscar era ispirato vagamente a quello di una tenuta in piastre e maglia di metallo per la mischia di un torneo medievale, con il blasone in bella vista, leggera e ben articolata. Ma l’elmo a visiera sempre rigorosamente chiuso, affinché il volto ignoto dell’eroe restasse valido alla proiezione di cui sopra. E il merito di una tale scelta dei designer originari, questo fabbro amatoriale che ha il suggestivo nome di nanonanonano, deve comprenderlo parecchio bene, visto come non si mostri mai dinnanzi all’obiettivo, identificando se stesso unicamente con la dicitura di: “Uno studente di liceo che fa cose.” Cose letteralmente mai viste prima. Nel corso di un video di una decina di minuta che riprende suggestivamente l’impostazione di alcune sequenze di gioco, con tanto d’interfaccia usata per mostrare gli strumenti in uso, costui costruisce l’abito a partire da una serie di oggetti d’uso comune. Inizia ribattendo a freddo un paio di ciotole per la cucina di metallo, ottenendo in qualche modo la forma tondeggiante di un perfetto casco bellico, per poi segare a partire da quello che lui chiama “un cilindro di metallo” (potrebbe trattarsi di un cestino azzurro per la spazzatura) un elemento piatto e curvo, quindi perforato e limato fino all’ottenimento del visore traforato. I due elementi sono dunque uniti e dipinti, nella foggia estremamente fedele dell’elmo desiderato. Da lì, le cose non possono che farsi ancora più interessanti.

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Come creare un anello da una moneta in due minuti

Coin Ring 2 Minutes

“Consegnerai l’Unico, Frodo, attraverso i fuochi e i veleni irrespirabili dell’orribile terra di Mordor” Erano i poeti, erano gli artisti, i creativi e i filosofi, le menti più insigni di una tragica generazione. Nelle trincee della Somme, da cui le forze congiunte di Francia e Inghilterra si scagliarono a più riprese contro le solide difese del kaiser Guglielmo tra luglio e novembre del 1916, non vi era soltanto sofferenza, morte e malattie. Ma un gruppo di persone costrette dalle circostanze, nonostante tutto, a mettere il futuro sopra un piedistallo. Che ci fosse ancora la certezza di un dopo, la sopravvivenza delle proprie ambizioni individuali, oltre l’odio dello straniero, risultava difficile da dimostrare. Le metafore, dunque, diventavano fondamentali. Ed è ormai estremamente difficile, nonostante la dilagante letteratura e cinematografia di genere creata anche ad anni di distanza, identificare i sentimenti che si affollarono in quelle profonde buche fangose, sotto il fuoco dell’artiglieria e i fucili del nemico. Questo probabilmente perché la nostra intera cultura popolare, forgiata nelle fiamme di una tale grande guerra, ha incidentalmente scelto di seguire la via di minore resistenza, quella così efficacemente esemplificata da un singolo ufficiale di segnalazione del 13° Battaglione di Fucilieri di Lancaster, noto al mondo soprattutto con il suo cognome alquanto inusuale: Tolkien, J.R.R, un sognatore. A quei tempi laureando in lingue antiche e germaniche dell’Università di Oxford, proprio costui già stava ponendo le solide basi durature, per un mondo fantastico che avrebbe scavalcato le generazioni. La terra degli elfi e degli hobbit, draghi, mostri e diavoli trasfigurati, stregoni senza tempo dediti al destino; per ciascuno di essi, come per i loro viaggi tormentati, non sarebbe stato difficile trovare una corrispondenza nella sua vicenda personale. Ma perché poi, forse alcuni si saranno chiesti, egli dovrebbe aver scelto tra il vasto e variegato corpus leggendario oggetto dei suoi studi di narrare proprio le vicende a margine di quella particolare cosa? l’anello che era stato di Alberich lo gnomo… Come Wagner prima di lui, cambiando molte cose, eppure mantenendo il significato universale che un simile ornamento ha sempre avuto nella storia dell’epica narrativa. Magia sconfinata, il più grande potere che si potesse infondere in uno spazio chiaramente definito e grazie alla sapienza costruttiva dei metalli. Il fatto è che, piuttosto sorprendentemente, gli anelli erano ovunque lì, fra gli alloggi dei soldati al fronte. Se li scambiavano i meno disperati, come oggetti da collezione, prima di inviarli verso casa assieme ad una lettera, ai propri cari all’altro lato della Manica o dei mari. Li custodivano gelosamente gli ufficiali, nella tasca frontale delle proprie uniformi, in attesa di poter tornare a farne dono alla figura femminile idealizzata, quella ragazza o donna che volevano sposare. E tutti assieme ne insegnarono il segreto costruttivo, nei due anni successivi, a tutti quei colleghi provenienti dagli Stati Uniti, i rinforzi tanto spesso auspicati eppure mai, davvero, considerati probabili o imminenti. Ma l’ambizione dei popoli contrapposti, a quei tempi come adesso, può portare a strani e fortuiti ribaltamenti delle circostanze. Così, tra il riecheggiare del fuoco incrociato, ebbe fine quel conflitto, mentre ciascuno se ne ritornava a casa propria col bagaglio acquisito d’esperienze, immagini terrificanti. E come Bilbo Baggins, almeno un singolo prezioso souvenir, benché costruito molto spesso con le proprie stesse mani.
Un anello moneta è il principale prodotto di una particolare sotto-cultura, particolarmente diffusa all’altro lato dell’Atlantico, per cui un privato cittadino, contravvenendo alle severe leggi federali, talvolta decide di trattenere una parte insignificante del conio della sua nazione. Per distruggerla e poi ricrearla nella forma, totalmente differente, di una banda metallica di forma circolare, possibilmente senza rovinare le diciture in latino e qualche volta inglese, la fondamentale data e (almeno) parte del disegno che seppero tracciarvi i suoi creatori originali, i tecnici manovratori della zecca. Un dettaglio interessante? Seguendo la prassi creativa originale, quella notoriamente praticata dai soldati della prima guerra mondiale, tali parti dell’immagine in rilievo venivano a trovarsi nella parte interna dell’anello, sostanzialmente invisibili senza rimuoverlo dal dito. Un meccanismo ritrovato nell’Unico di Tolkien, che mostrò finalmente il suo messaggio segreto solamente quando riscaldato, dopo molti anni dal suo ritrovamento, nelle fiamme di un semplice camino.

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