I maestri Zen delle teiere di Tokoname

Tokoname

È una casualità più volte ripetuta, nella storia delle arti e dei mestieri giapponesi, quella per cui un sistema mutuato dai paesi confinanti di Corea e Cina, portato verso Oriente dai commerci e le testimonianze dei viaggiatori, fosse entrato a far parte del repertorio nazionale in forza del buon gusto della collettività. Eppure, il paese degli alfabeti sillabici e dei samurai non fu mai alla stregua di una mera provincia culturale, per il semplice fatto che ciascun influsso era studiato, scorporato e modificato, sulla base di esigenze estremamente specifiche nonché sentite. È innegabile. Che un simile discorso generico sia appropriato, più che mai, a descrivere l’esperienza di vita del monaco Eisai, colui che recatosi in un centro religioso buddhista presso la regione continentale di Jingde, aveva avuto modo di studiare molto a fondo il suo respiro, la sua mente, il fondamentale pezzo di terra e la proverbiale piccola pietra. Diventando quindi attorno al 1191 d.C, da semplice studente che era, a sua volta un insegnante, di quello che a partire da quel giorno sarebbe stato nazionalizzato con il termine di Zen – “meditazione”. Non riuscendo, strano a dirsi, a lasciare un segno nelle usanze del suo paese che potesse dirsi maggiore, a conti fatti, dell’impatto avuto dal contenuto del suo borsello: alcune foglie di un’umile pianta, le cui foglie riscaldate sopra al fuoco assieme all’acqua avevano la dote di liberare un infuso dal sapore, se non estremamente buono al primo sorso, per lo meno… Interessante. Stratificato e pregno della sostanza stessa di quel mondo sopra il quale si doveva ricercare l’Illuminazione, attraverso una conoscenza sensoriale irrimediabilmente imperfetta. E quella pianta era il 茶. Pardon! Quella pianta era l’o-cha (Giappone). Anzi per essere più chiari: volevo dire chuan (dinastia Han) No, dai. Si trattava del ming (cinese mandarino). Ovvero, tè. Si, proprio the: come dicevano a Xiaomen, la città da cui parecchi anni dopo, questa sostanza sopraffina sarebbe stata imbarcata e trasportata fino in Occidente. Dai nonni dei nostri trisavoli, che invece di assaporarlo per ciò che era e meditare, ci misero lo zucchero dentro. Che terribile occasione perduta, di…
Ma sarebbe certamente ingenuo, e intriso della presunzione dei moderni, immaginarsi gli antichi che intingevano bustine o utilizzavano il colino, come anacronistici tecnocrati del bar dello sport. È anzi un fatto largamente acclarato, che le metodologie impiegate per la preparazione di una simile bevanda erano esse stesse considerate alla stregua di un rito, che i seguaci di Eisai acquisivano attraverso la lettura del suo testo Kissa yōjōki (喫茶養生記 – Come guarire bevendo il tè – 1214). Considerato dai primi abati dei templi, per il suo carattere sacrale, preferibilmente al di sopra delle rustiche ceramiche possedute dai giapponesi dell’epoca, risalenti ancora all’artigianato nazionale delle trascorse epoche Jōmon e Yayoi, nient’altro che terra cotta nei vasti forni sotterranei detti anagama, qualche volta decorate dall’impressione di un tratto di corda. Durante tutto il corso dell’epoca Heian e la prima parte dello shogunato di Kamakura, quindi (1185–1333) si fecero alcuni timidi tentativi di applicare la vetrinatura a tre colori a base di piombo mutuata dai popoli vicini, benché i recipienti preferiti per abbeverarsi alla sorgente della creazione, da parte di chiunque potesse permetterselo, fossero sempre rigorosamente importati da lontano. Quasi come se le genti del Regno di Mezzo disponessero di un canale preferenziale per comunicare con il Buddha, il suo làscito, la fluidifica sapienza della sostanza usata per avvicinarsi a Lui. Finché non avvenne, attorno all’XI-XII secolo, che quattro dei forni più celebri del paese di Yamato non prendessero spontaneamente, e ciascuno per un’iter differente, a migliorare le proprie tecniche e il prodotto che recava i loro marchi: erano costoro i “sei grandi” di Shigaraki, Tamba, Bizen, Seto, Echizen e Tokoname. Proprio lo scenario, quest’ultimo centro, assurto al ruolo di città durante le riforme catastali della Restaurazione Meiji (1889) dell’opera del mastro ceramista del video di apertura, l’uomo noto con il nome d’arte di Hokujo (al secolo – Genji Shimizu). Certificato nel 2013, nel corso di un’importante cerimonia, come patrimonio vivente della nazione e dell’umanità. Un traguardo, se vogliamo, non proprio alla portata di chiunque.

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La nobile arte di grugnire ai vermi

Worm Grunting

Si potrebbe anche comprendere l’errore di chi dovesse pensare in un primo momento, osservando all’opera l’esperto cacciatore di lombrichi della Florida, Gary Revell, che il suono da lui emesso sia una sorta di prova del ventriloquo, oppure il richiamo di un maiale selvatico di passaggio. L’espressione concentrata, la posizione inginocchiata sul terreno, gli occhi che percorrono con attenzione il suolo circostante, alla ricerca del più piccolo, fra tutti gli animali che possano dirsi essenziali alla nostra sopravvivenza. Mentre le mani, operano con un metodo particolare… Vermi. Esseri viventi che preparano il suolo, nella loro costante ricerca di cibo, creando l’humus e tracciandovi milioni di minuscoli canali, all’interno dei quali possono passare l’acqua e l’aria provenienti dalla superficie. E uomini: quanto spesso s’incontrano, nella realtà dei fatti? Guarda. Sussiste nella realtà dei fatti questa improbabile condizione, per cui non importa quanto siano numerosi i primi, brulicanti sotto alla porosa superficie degli ambienti naturali; nessuno, tra i secondi, riuscirà a sentirli né a vederli con i propri occhi. Finché all’improvviso, a seguito di un imprevisto o lo spavento di un secondo, un certo numero di appartenenti alla genìa strisciante sotterranea (non si tratta mai, di uno oppure due) decidono di mettere la testa al di fuori dell’opprimente protezione della Madre Terra, e finiscono generalmente molto, molto male. Perché servano allo scopo, soprattutto se serviti in acqua di fiume o di lago, appesi a un amo poco prima di passare a miglior vita. Il tipico verme del Sud-Est degli Stati Uniti, dove opera ormai da molte decadi Gary Revell, non ha quasi nulla a che vedere con la sua tipica controparte europea, per non parlare di quegli striminziti anellidi che popolano i mari d’erba del distante settentrione. Il Diplocardia mississippiensis è una creatura spessa, lunga e resiliente, con fino a 12 cuori grandi come la capocchia di uno spillo. Non esiste probabilmente, in tutto il mondo civile, un’esca più efficace e duratura, in grado di resistere finché non si è raggiunto quello stato assai desiderabile (per il suo carnefice) ed altrettanto problematico (per il pesce) di essere soltanto parzialmente digerito e poi smaltito, assieme al resto del contenuto dello stomaco del nuotatore.
Così, quanto può valere un secchio di dimensioni medie, pieno di questi abitanti del profondo, laboriosamente raccolto grazie alla messa in opera di mezzi vecchi almeno quanto i nostri bisnonni? Il mercato può variare, ma difficilmente, anche nei periodi peggiori della stagione meno pescosa, si è mai scesi sotto 30-35 dollari. Il che vuol dire, tradotto grazie al senso pratico, che in effetti si può vivere di soli vermi. Se si è sufficientemente bravi. E Revell, si viene indotti a pensare dai numerosi video disponibili sulla sua opera, è praticamente…Il migliore. Il suono da lui emesso durante l’opera di procura, che in gergo viene definito con il termine grunting (letteralmente – grugnito) non è in effetti un prodotto del suo apparato fonatorio, ma viene realizzato tramite l’incontro tra due specifici attrezzi di lavoro: lo staub, un’asticella di legno piantata nel terreno, ed un pezzo piatto di metallo detto rooping iron, sorprendentemente del tutto liscio. Strofinando energicamente tali due elementi, l’esperto grunter riesce a creare una melodia dissonante udibile anche a 100 metri di distanza, e che soprattutto ha la caratteristica, grazie al posizionamento interrato della componente sottostante, di riuscire ad utilizzare il suolo stesso come cassa di risonanza, propagandosi a una considerevole profondità. Ora, come ci insegna la scienza, i vermi non hanno orecchie e non possono percepire i suoni. Eppure, esattamente come avviene per il cobra reale che segue con la testa il flauto durante lo spettacolo del suo domatore, non perché richiamato dalla musica, ma per difendersi in qualche maniera da un tale becco prominente, qui  c’è un fattore addizionale che richiama gli striscianti del profondo. E si tratta…Serve dirlo? Delle vibrazioni.

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La sfida medievale del Baranta, arte marziale d’Ungheria

Baranta

La riscoperta e costante pratica di un’antico repertorio di tecniche guerresche, potenzialmente risalenti all’antica storia di un popolo, è sempre fondamentalmente positiva, poiché la sapienza è sempre utile anche se desueta, specialmente quando innegabilmente associabile a un sistema di valori e condizionamenti, sia sociali che privati, da sempre parte dell’inconscio collettivo. È un sistema complesso. È un simbolo imperituro dell’orgoglio nazionale. È uno stile di vita, libero e selvaggio. Ma anche e sopratutto, serviva a rendere temibili i cavalieri delle grandi steppe, coloro che verso la fine del nono secolo varcarono i Carpazi per scacciare i popoli stanziali dalle ricche terre ad est del Danubio, da cui far partire terribili saccheggi in quello che era stato, fino a poche generazioni prima, lo splendido e stratificato impero carolingio. Di certo, se avessimo modo di chiedere una valutazione a un fiero generale dell’epoca dei meriti strategici e combattivi dei Magiari, la confederazione delle sette tribù di lingua ugrica che sconfissero a più riprese, dapprima la popolazione turca degli Avari, quindi la Moravia, il Primo Impero Bulgaro e infine il Regnum Francorum orientalium, ovvero la Germania dei Teutoni, la risposta di un generale o mercenario d’Occidente non sarebbe stata piena di eccessive lusinghe: ciò perché il cavaliere dell’Asia siberiana, fin dall’epoca di Attila l’Unno, era solito impiegare approcci e stratagemmi, per la visione dell’epoca, tutt’altro che onorevoli. L’imperatore di Bisanzio Leone VI detto il Saggio (866-912) grande storico e commentatore della sua epoca, ne parlò approfonditamente nel suo trattato Tactica, descrivendo tra le altre cose un’approccio alla ritirata strategica associabile al tiro partico, dal nome dell’antica popolazione iraniana dei Parti, che consisteva nel mostrare la schiena al nemico, fuggendo rapidi a cavallo, soltanto per voltarsi all’ultimo momento, al fine di bersagliarlo di frecce tramite l’impiego del piccolo e maneggevole arco delle steppe. I guerrieri Magiari inoltre, egli ci racconta, combattevano con un’arma in ciascuna mano e spesso una lunga lancia sulle spalle, pronta all’uso in caso di necessità. Come guerriglieri, dunque, schermagliatori, esperti approntatori di trappole o assalti repentini e inaspettati, questi membri dell’orda che seppe farsi stanziale usavano spostarsi ancòra con un seguito di armenti e cavalli, finalizzato secondo alcuni a “farli sembrare maggiori di numero” scoraggiando così il nemico. Non che ne avessero davvero bisogno, o almeno così sembra.
Soprattutto guardando all’opera gli attuali migliori rappresentanti dell’associazione del Baranta dell’Ungheria settentrionale, ufficialmente fondata nel 2008 da Gábor Kopecsni, con il fine di raccogliere in un solo luogo alcune delle più preziose conoscenze sopravvissute all’antica genesi della propria identità nazionale. La prima e più significativa distinzione possibile tra questa evoluzione dell’antico repertorio, talvolta sportiva con finalità di competizione, molto più spesso etnica e finalizzata ad un rituale d’appartenenza culturale, rispetto alle più celebri arti marziali cinesi e giapponesi dell’epoca moderna, è l’assenza di una tradizione che può essere fatta risalire a un singolo maestro, proprio perché le singole componenti deriverebbero da un’aleatoria, quanto pervasivo, concetto di Sapienza Popolare. Il termine Baranta, stando alle divergenti fonti reperibili online, può avere diverse etimologie, tra cui l’evoluzione del verbo della vecchia lingua proto-ungara per “annientare”, piuttosto che quello riferito al concetto di “addestramento” e per metonimia del luogo effettivo in cui un tale compito veniva svolto dai guerrieri. Ma forse il significato maggiormente poetico ed interessante è quello citato in lingua inglese presso il sito stesso dell’associazione nazionale, che lo definisce in base ad antichi scritti come un appellativo onorifico per i “guerrieri del Sole” o [coloro] che si alleano con il Sole. E ciò deriva proprio dall’antico ruolo, una vera mansione sociale, che spettava ai guerrieri addestrati i nel corpus di discipline guerresche dei Magiari, essenzialmente uno dei repertori più versatili del territorio europeo di allora.

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L’esecuzione pubblica della mostruosa rana pescatrice

Tsurushigiri

Non c’è proprio nulla di tremendamente disgustoso nella procedura affine alla presentazione di un cibo di strada, ma in realtà praticata dai migliori ristoranti della prefettura di Ibaraki, che consiste nell’appendere un particolare pesce abissale del nord del Giappone, di nome anko, a un tripode dall’aspetto vagamente patibolare. Onde poi procedere, nel corso di un pregno quarto d’ora, a sezionarlo e suddividerlo nei suoi sette “tesori”, ciascuno egualmente importante per la preparazione di una zuppa stufata tipica di questi luoghi, considerata al tempo stesso salutare ed assolutamente deliziosa. Perché quindi, provare un senso di ribrezzo verso l’animale già sacrificato, all’estrazione dal suo mare di appartenenza, e poi appeso per la parte inferiore della bocca a quel sottile gancio, pendente da una struttura dal progetto semplice nonché essenziale? Perché fare una smorfia al primo taglio delle pinne, seguito dall’incisione effettuata, con coltello affilatissimo, immediatamente sotto la mascella, cui fa seguito la rimozione della pelle e poi degli organi migliori? (Quasi) tutto si usa, del pesce anko, come del resto avviene per il tipico maiale, ma diversamente da quest’ultimo ogni componente commestibile, nessuna esclusa, finisce nella stessa pentola parte di una speciale occasione conviviale. La prassi delle nabe, ovvero zuppe con verdura cotte nella pentola a vapore, viene del resto definita a volte “la fonduta d’Oriente” a causa della consumazione affine all’usanza svizzera del caquelon, che consiste nel portare il piatto, ancora bollente, al centro della tavola, invitando i commensali a estrarne il contenuto in base al proprio gusto e relativa convenienza. Il fatto che qui si usino delle lunghe bacchette per estrarre gli ottimi bocconi arroventati, invece del nostro tipico spiedino, potrebbe già bastare a incutere un certo latente senso d’inadeguatezza. Ma il vero problema di un’occidentale impreparato, posto di fronte a questo piatto tenuto in alta considerazione dai locali, sarà considerare l’effettiva provenienza del suo contenuto più pregiato, estratto dall’approssimazione ragionevole di una creatura aliena.
È una scena cui si assiste spesso lungo le banchine della città di Mito, capitale regionale, o ancora meglio presso centri periferici maggiormente legati alla vita costiera, vedi ad esempio Oarai, o l’insediamento portuale al confine con la prefettura di Fukushima, Hirakata, un tempo definito capitale nazionale dell’anko. Che negli anni si è trasformata in una sorta di spettacolo, particolarmente amato dai turisti, in cui intrattenitori consumati, come il qui presente Hiroshi Aoyagi, colgono l’occasione per mettere in scena una sorta di micro-lezione di biologia. Si tratta tuttavia anche di un rituale che spicca per il senso pratico, legato a un’effettiva quanto reale necessità: tagliare a pezzi uno dei pesci più grossi, e al tempo stesso mollicci, che siano mai stati portati fino ad una spiaggia con l’intento di mangiarli. L’anko può pesare fino a 30 Kg, anche se gli esemplari più saporiti, secondo la sapienza popolare, raramente superano i 10 Kg. Ma se un cuoco, non importa quanto esperto, dovesse tentare di affettare una qualsiasi rana pescatrice (questo il suo nome comune, Lophius quello scientifico) ponendola sopra un tagliere, si troverebbe molto presto a gestire un qualcosa di ripiegato su se stesso, in un ingarbugliato e irrisolvibile disastro. Così nacque, si ritiene nel corso del periodo Edo (1603-1868) l’approccio risolutivo dello tsurushigiri, denominato a partire da due termini che significano tagliare (forma impersonale del verbo kiru) ed “appendere a testa in giù” (tsurushi) una dicitura originariamente riferita alla relativa tecnica di tortura, spesso usata contro i martiri cristiani impenitenti.
Ma naturalmente, considerazioni animaliste permettendo, un pesce è soltanto un pesce. La sua capacità di indurre in noi empatia dovrà essere necessariamente limitata dalle considerazioni di contesto, come quelle relativa al fatto che i maiali, o le mucche, sono notevolmente più affini al nostro essere anatomico e vitale. Né, del resto, un cuoco samurai potrebbe mai temere la bruttezza procedurale, poiché comprende che essa un punto di passaggio fondamentale verso l’estasi che viene dopo, quel gusto eccezionale che purtroppo, molti di noi non avranno l’occasione di provare mai. Purtroppo…

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