Nella città di Niigata, sotto l’occhio affascinato degli astanti, si palesa un’attrazione nuova: guardate! Un gigante alto all’incirca 8 metri, vagamente antropomorfo, con le antenne e le sirene, un distintivo d’oro assicurato al centro del suo petto aerodinamico, simile alla piastra frontale di una corazza d’epoche remote. Dite il suo nome, piccole persone sulla scena: INGRAM AV. Contate fino al numero rilevante, 98. Alzate le braccia al cielo, fate un solo grido del cognome: PATLABOR! E lui, lentamente, inesorabilmente, inzierà a sollevarsi, in modo un po’ rigido, magari, eppure…Non è forse vero che proprio allora, nell’omonimo cartone animato, i poliziotti della sezione 2 di Tokyo erano soliti portarlo sulla scena in questo preciso modo, assicurato sul rimorchio del camion dell’affidabile Hiromi Yamazaki (ma non toccategli la moglie!) Poco prima che l’eroina principale della storia, Noa Izumi, vi balzasse a bordo per risolvere la situazione! Ah, le storie della polizia, robotica…Non sarebbe bello se il mondo raggiungesse uno stato in cui simili dipartimenti fossero davvero necessari? Certo, non tanto per i crimini commessi. Ma per il sostrato utopico che inevitabilmente presterebbe il suo contesto…
Henry Ford, l’inventore dell’automobile moderna, era solito affermare che un particolare progresso tecnologico potesse dirsi compiuto solamente quando tutti, incluso l’uomo della strada, avessero ricevuto l’opportunità di trarne vantaggio. Bisogna pure ammetterlo: fra le sue innumerevoli citazioni, alcune condivisibili ed altre decisamente molto meno, proprio questa resta la più adattabile alle circostanze, inerentemente attuale ad ogni epoca dell’homo sapiens. Perché basta guardare nella direzione del vento, verso i laboratori di ricerca militare, per compiere un viaggio nel futuro d’entità variabile, fra i 10 e i 25 anni, proprio in funzione del tipo di esperimenti e prove tecniche portate a termine fra quelle mura. Controllo ed assoluta monopolizzazione: nel concetto stesso di arma, è incluso un desiderio basilare di esclusività, che auspica non soltanto l’ottenimento di un proiettile più grande e veloce, o una bomba più possente e spaventosa, ma anche e sopratutto l’impedire che questa terribile esistenza possa essere carpita dal nemico. O da chiunque altro, inclusi noialtri, innocenti quanto passivi (si spera) spettatori. Così, non è certamente un caso se gli autori della fantascienza, da che esiste questo genere letterario ed artistico, amano narrare le vicende dei militi futuri, prima ancora che delle loro famiglie o il mondo geopolitico in cui si muovono, chiamato a far da sfondo all’azione. In guerra, si sa, tutto e lecito. E ciò si applica anche nel mondo del creativo, dove qualsiasi avanzato meccanismo, per quanto improbabile allo stato attuale delle cose, appare improvvisamente giustificato dal bisogno di dominare il campo di battaglia.
Ovunque, tranne che in Giappone. Nel 1946, con ancora bene impresse nella mente le tremende ininquità (sia compiute che subite) della seconda guerra mondiale, il paese viene costretto dalle forze di occupazione a compiere un passo senza precedenti e che ad oggi non ha ancora avuto una reiterazione, qui od altrove: prendere la propria vecchia costituzione, risalente all’epoca della Restaurazione Meiji (1889) e stracciarla letteralmente, poco prima di adottare senza riserve un documento sostitutivo, stilato per l’occasione dai due militari con studi legali pregressi Milo Rowell e Courtney Whitney; sotto la supervisione, ovviamente, del sommo capo delle forze d’occupazione, il sempre vigile generale MacArthur. I due punti principali, entrambi anti-storici ed almeno in teoria, difficili da accettare, erano i seguenti: 1 – L’Imperatore, ridotto a mero essere umano privo del suo grammo di divinità, avrebbe avuto da quel giorno un ruolo puramente rappresentativo. 2 – Il Giappone rinunciava, in ogni forma e funzione, alla capacità di dichiarare guerra. Soprendentemente, o forse niente affatto, entrambi gli articoli piacquero fin da subito all’opinione pubblica nazionale, che nelle generazioni successive ne avrebbe tratto una bandiera da portare con orgoglio e persino un vago senso di superiorità, verso quegli altri popoli che ancora erano costretti ad armare ed inviare verso vari fronti la propria innocente gioventù.
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Questo robot sfiderà Valentino Rossi
Ecco qui qualcosa che non ci saremmo aspettati di vedere: una Yamaha YZF-R1, il poderoso veicolo che la multinazionale giapponese schiera, in diversi allestimenti, nelle competizioni di MotoGp e Superbike, modificato per montare le rotelle stabilizzanti di una bici d’infanzia. Non è altro che l’ennesima improbabile visione di un mondo del marketing in cui nulla è definito dalla logica, mentre superare le aspettative è un qualcosa che viene fatto in via teorica, grazie all’entusiasmo contagioso di una voce narrante. Mentre il successo dell’operazione viene misurato, non tanto nel momento della sua riuscita, quanto piuttosto in funzione del numero dei click raggiunti, dal remoto giorno di quel rutilante annuncio digitale. Tesi: allo stato attuale delle cose, è possibile costruire automobili automatiche. Gli ultimi progressi nel campo dei servomeccanismi ed attuatori consentono, nel frattempo, la messa in opera di robot umanoidi, come ASIMO della Honda, che nonostante la camminata un po’ rigida ed innaturale, s’impegna da anni nel copiare la gestualità ed i manierismi degli umani. Non sarebbe dunque possibile, a fronte di un periodo di ricerca e sviluppo relativamente breve, creare una figura antropomorfa che, messa in sella ad una moto, possa guidarla con precisione e sovrannaturale agilità? In fondo, la verità è che la maggior parte dei robot, venendo costruiti specificamente per svolgere una singola mansione, riescono spesso a superare il potenziale dei loro predecessori in carne ed ossa. Quindi perché non, la moto…
Si tratta di un avveniristico progetto presentato al mondo in occasione del 44° Motor Show di Tokyo, al quale il colosso della città di Iwata ha deciso di esporre, con la denominazione di Technology Exhibit, questo suo particolare “figlio”, creato con lo scopo dichiarato di porlo a confronto, entro il 2017, con il più famoso pilota legato alle Yamaha, qui chiamato unicamente il Dottore. Il fatto poi che quest’ultimo, proprio in questi giorni, sia al centro della diatriba legata alla caduta di Márquez durante il GP di Malesia dello scorso 25 ottobre. è una mera coincidenza, che non ha influenzato in alcun modo la scelta d’impostare su di lui il presente video a corredo. O almeno, questo è ciò che vorrebbero farci pensare. Dopo tutto, a cosa potrebbe mai servire lo sport, dal loro punto di vista, se non può essere usato per agevolar l’immagine di marchi e sponsor di supporto! E poi c’è anche da dire che il prodotto finale, giudicato sui suoi semplici valori estetici (perché di specifiche, non è stata rilasciata alcuna) risulta certamente meritevole ed appassionante. MOTOBOT, questo è il suo nome, si rivolge a Rossi, mentre in sovraimpressione compaiono alcune fotografie dell’infanzia del campione italiano. L’intero intento della sequenza, con uno stilema robotico tipicamente giapponese, ha la finalità di stabilire un rapporto empatico tra lo spettatore e l’automa, che si esprime con la voce acuta di un bambino, modificata per farla sembrare in qualche modo artificiale. C’è anche da dire che l’effetto finale, almeno per chi è vulnerabile all’effetto della uncanny valley, potrebbe risultare vagamente inquietante. Ed anche questo fa parte dell’insolito show. Musica trionfale in sottofondo: “Io sto lavorando ogni giorno per migliorare le mie abilità.” Inizia il robot, poi aggiunge umilmente: “Eppure non avrei potuto batterti nemmeno quando avevi 5 anni. Però forse, se imparo tutto su di te, studio quello che sai fare e m’impegno ad emularti…Deve pur esserci qualcosa che soltanto IO so fare!” Inquadrature di tecnici orgogliosi, l’alba sullo spiazzo asfaltato, la creatura artificiale che corre rapida e lontana. Sembra quasi l’inizio di una saga televisiva degli anni ’80/90, quando il futuro, paradossalmente, appariva più poetico e vicino.
Demolizioni delicate: senza polvere sparisce un grattacielo
Nel quartiere Chiyoda di Tokyo, in prossimità di un triangolo ideale che include gli edifici della Dieta nazionale (l’equivalente del nostro parlamento) la stazione di Nagatachō e lo stesso palazzo dell’Imperatore, la torre svettava maestosa, avveniristica ed ormai, del tutto priva di speranza. Frutto significativo di un periodo d’espansione economica incontrollata, gli anni ’80 della piena bolla economica giapponese, quando i soldi erano pressoché infiniti e chiaramente, i prezzi aumentavano di conseguenza. Soprattutto quelli degli immobili, l’oro preferito degli investitori. Così poteva succedere, improvvisamente, che il prestigioso Kitashirakawa Palace, l’hotel fondato all’interno di una residenza che una cinquantina d’anni prima era stata di Yi Un, principe in esilio di Corea, disponesse di risorse tali, ed un terreno sufficientemente spazioso, da iniziare a trasformarsi in grattacielo. Ma non uno come tutti gli altri, cubico e indefesso: bensì un edificio degno di lasciare il segno, progettato da niente meno che Kenzō Tange, uno dei massimi architetti dell’ultimo secolo trascorso. Il quale, già avviato verso gli ultimi anni della sua lunga carriera (al completamento, ne avrebbe avuti ben 79) appose la sua firma sul progetto di un palazzo certamente insolito, non particolarmente amato dagli amanti della tradizione: 40 piani con una pianta a doppia onda seghettata, con una forma grossomodo a V. Il suo nome: Grand Prince Hotel Akasaka. Edificio costruito rispettando i migliori crismi tecnici dell’epoca, ma che ormai, come capita pressoché ovunque, ci appare inefficiente nel suo isolamento termico, con i soffitti troppo bassi, gli spazi insufficienti per accomodare le infrastrutture tecnologiche e una copertura in alluminio parzialmente rovinata, la cui sostituzione costerebbe cifre niente affatto indifferenti. Ora, se fossimo a New York, Chicago o San Francisco, non è difficile immaginare quello che succederebbe: come per l’Empire State Building, interamente rinnovato più volte, questa vecchia vista cittadina andrebbe preservata, a perenne memento di un’epoca di gloria, ormai trascorsa eppure mai dimenticata. Qualche piccolo sacrificio, da parte dei suoi occupanti quotidiani, sarebbe giustificato con il “fascino” e il “pathos” della sua esistenza. Ma nella terra dell’antico santuario di Ise, il grande tempio shintoista in legno che ogni 20 anni viene fatto a pezzi e poi ricostruito, tra le due alture antistanti nella prefettura di Mie, nulla è fatto per durare più di una, al massimo due generazioni. Iniziò quindi a palesarsi un chiaro sentimento, nella mente degli abitanti del quartiere, dei visitatori di passaggio, dei turisti e delle schiere dei diligenti salaryman con il colletto bianco. Il suo nome: Mono no aware. Il senso [dell’impermanenza] delle cose, fondamento di un’antica strada filosofica dell’Est del mondo. Utile, nel presente caso, a comprendere come quel grosso ingombro cittadino, per quanto riconoscibile e talvolta idealizzato, aveva ormai fatto il suo tempo.
Il che porta a tutta una serie di problemi accessori, tra cui quello principale: come demolire un simile gigante, per di più posto al centro di un quartiere di rappresentanza, circondato da altri palazzi non di molto più piccoli né in alcun modo corazzati? Le moderne tecniche d’implosione, basate sull’uso di esplosivi attentamente calibrati e posti nei punti deboli della struttura, possono ottenere dei risultati davvero encomiabili: tutti hanno visto quella popolare tipologia di video, in cui reliquie dall’imponenza comparabile all’Akasaka tremano d’un tratto, poi iniziano immediatamente a ripiegarsi su se stessi. Una perfetta esecuzione del piano operativo, generalmente, permette di rimuovere qualsiasi colossale monumento all’espansione in verticale, senza compromettere la solidità dei suoi vicini più immediati. Il che non significa, ad ogni modo, che si possa contare su tali metodi in più che una minima percentuale di casi. Perché gli errori, ingegneristici o d’altro tipo, capitano, e prima di procedere con la detonazione occorre chiedere lo sgombero degli edifici circostanti, per lunghe e gravose ore a danno dell’industria. Una strada difficilmente percorribile, in zone topiche come Manhattan o Chiyoda. Ed a questo va anche aggiunto il notevole inquinamento, dovuto alle polveri che si liberano nell’atmosfera. Ma la necessità, da sempre, genera i progressi tecnici del mondo…
Il martello più grande che abbiate mai visto
Un inizio di giornata al fulmicotone, in grado di svegliare anche le talpe preistoriche che vivono in prossimità del centro della Terra. O almeno così sembra, i primi tre-quattro giorni che lavori in officina. Poi ti abitui, addirittura a questo. E l’opera inizia il suo flusso in automatico nel segno del sudore, mentre ogni gesto diviene calibrato, la cooperazione totalmente naturale. Ovvio: sarebbe assai difficile PARLARE, in mezzo a un simile frastuono. Tre operatori, ciascuno in abito ignifugo, protezioni per gli occhi e le orecchie, caschi protettivi di un vivace giallo canarino. Al centro, un addetto al forchettone/diapason d’acciaio incatenato, che serve a trasportare il pezzo riscaldato ad oltre 2000-2500 gradi fino allo stampo di lavorazione. A sinistra il suo assistente, il cui compito principale, oltre a sollevare assieme i materiali più pesanti, è irrorare d’acqua quanto posto in essere, affinché vengano rimosse le scaglie (scales) di metallo distaccatosi dal corpo principale. Mentre a destra nel sapiente trio, risiede il vero regista dell’operazione, colui che al tempo stesso deve faticare meno, eppure ha il compito più delicato e di maggiore responsabilità. Come un regista, o un direttore d’orchestra: il tecnico del maglio idraulico da 10 tonnellate.
È un’esistenza lieve che richiede un certo spirito d’iniziativa, questa dell’addetto metallurgico, poiché la creatività di simili compiti è per forza alquanto limitata. Occorre quindi apprendere il segreto per l’introspezione che non distrae, la fantasia che corre libera mentre le membra fanno ciò che devono. Ma soprattutto, l’orgoglio di fare qualcosa, presto e bene, ancora e poi di nuovo. Il video è stato caricato su YouTube da Hiroki Onoda, chiaramente un giapponese, e non sarebbe poi così stupefacente se l’intera azione si svolgesse proprio nella sua nazione. C’è qualcosa, in questo metodo di forgiatura al tempo stesso antico e dannatamente efficiente, che pare quasi rimandare ai fabbri di katana, gli esecutori ritualistici di un metodo per fare il ferro, poi l’acciaio, infine il taglio leggendario. Qui applicato, in modo forse più prosaico, alla messa in opera di grossi ingranaggi vuoti al centro, ovvero secondo la teoria più accreditata (nonché probabile) dei pignoni per i cingoli di qualche mezzo pesante. Il fatto è che dei tali componenti non possono essere realizzati a fusione, come avviene per la stragrande maggioranza dei prodotti della moderna metallurgia. Questo perché le ruote dovranno, nel corso della propria lunga vita operativa, sopportare non soltanto forti gradi di pressione, ma la forza ben più problematica della tensione, generata dal movimento parallelo di andata e ritorno delle maglie che poggiano sul suolo. Proprio per questo, portare la missione a compimento richiede un approccio basato sulla mera forza bruta, che nel dare forma al pezzo, ne riallinei addirittura la struttura cristallina, massimizzandone la resistenza e la durevolezza. Si, colpi di martello. Ma non del tipo che potremmo, allegramente, manovrare con le mani, bensì un mostro a forma di colonna, in grado di occupare una percentuale significativa dello spazio in officina, fatto muovere grazie alla forza spaventosa dell’idraulica applicata. O in alternativa, e non sarebbe poi tanto sorprendente nel presente caso giapponese, quella ancor più primordiale del vapore, che diede gli inizi a questo mondo rivoluzionario dell’industria più di due secoli fà, e che tutto ha cambiato nella mente e nelle aspettative di chi ha scelto di assolvere alla massima necessità: modificare la natura. Un merito che fu, fin dalla prima epoca moderna, conteso…